Francesca Buffo

Se la storia di un popolo è fatta anche di spazi vissuti, sensazioni olfattive, tattili e uditive quali punti di riferimento, non sorprende poi tanto quel dilagante senso di perdita d'identità che ci accomuna in quanto italiani, al di là di ogni ideologia o credo. Nella storia personale di ciascuno è quasi impossibile scindere il sé interiore e la sua costruzione nel tempo dalla memoria di strade, negozi, volti di commercianti, odori e suoni. Quello che un tempo scandiva il ritmo del nostro vissuto, oggi si trasforma in banali luoghi comuni densi di rimpianto: "Ma dov'è finita lanebbia di Milano"? "Vi ricordate quando esisteva la primavera"? E così via. Un tempo esistevano quei luoghi della memoria, così ben descritti da Mario Isneghi nel suo libro-icona ('I luoghi della memoria', edizioni Laterza) sui simboli identitari del nostro Paese: le piazze, le osterie, le canzoni popolari, la storia della nostra Repubblica. Oggi non più. Tanto che lo stesso autore di una frase così ben coniata ne denuncia l'obsolescenza dovuta a eccesso d'uso: la banalizzazione del termine adibito alle più diverse situazioni in un sistema di comunicazioni che tende a esaltare prodotti, eventi, luoghi, icone e falsi miti in maniera a dir poco compulsiva, nel quale tutto diventa importante senza esserlo realmente. La stessa memoria storica subisce le 'invasioni barbariche' di processi di rivisitazione più pretestuosi che antistorici (ne vediamo un ampio uso nella frantumazione concettuale di stampo leghista, per esempio), che portano inevitabilmente a un deterioramento dei valori e della dialettica civile e decorosa del Paese. Intanto, tutto cambia velocemente: i negozi si alternano in turn over che ormai non destano più sorpresa; i sapori della nostra cucina vengono 'rimpiazzati' da produzioni estere che ne rammentano più il nome che il gusto. Siamo noi, ma non siamo più noi. I nostri percorsi quotidiani si spersonalizzano giorno per giorno, si perde il piacere di passeggiare nel proprio quartiere o di scambiare quattro chiacchere al bar. Come pensare che tutto ciò non si ripercuota negativamente sugli animi della gente in generale, e sulla crescita emotiva dei giovani in particolare? I ventenni vengono definiti 'generazione boomerang' perché rimandano ogni decisione senza assumersi responsabilità. E noi, ventenni di ieri, come dobbiamo definirci se non sappiamo più cosa dobbiamo decidere e dalle responsabilità ci sentiamo sempre più schiacciati? Forse dovremmo adottare la filosofia di Daniele Nicolosi, in arte Bros, lo street artist milanese (un 'graffitaro', per intenderci) che produce arte sui muri. Ore e ore di lavoro 'censurate' dal Comune meneghino con una pennellata di bianco. Oltraggio alla creatività che lui sembra metabolizzare perfettamente quando afferma: "Concepisco i miei interventi come temporanei. Come tutte le cose, nascono, mutano e muoiono".




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