Massimo Bolchi

In principio era semplicemente condivisione delle informazioni, creata spontaneamente dai web surfer. Una comunità fatta di persone di ogni nazionalità che ha creato fenomeni quali Wikipedia e Youtube e sviluppato l'Open Source. Una fonte inesauribile di risorse create essenzialmente "dal web per il web". Poi, un patrimonio al quale le imprese hanno iniziato ad attingere per chiedere soluzioni o suggerimenti (Wikinomics) o catturare idee e talenti (Open Innovation). Così lo scambio in rete, grazie all'intelligenza 'collettiva' profusavi, ha aperto alle imprese un nuovo modo di fare ricerca e sviluppo. Nuove forme di collaborazione professionale hanno modificato la catena del valore creando un'opportunità di lavoro, in tutto il mondo, per molti. Il web è diventato una vetrina per i professionisti e le professionalità, un punto d'incontro fra domanda e offerta del mondo del lavoro. In pratica una nuova opportunità di business, dove non solo le figure professionali ma anche il contributo amatoriale ha la possibilità di essere ricompensato economicamente. Ne sono un esempio Current Tv (che paga alcune centinaia di dollari i filmati caricati dagli utenti sul loro sito web e che decide di mandare in onda sulle propri reti satellitari) o iStock (un portale con un archivio fotografico di 10 milioni di scatti realizzati da utenti, spesso non professionisti, ceduti al costo di pochi dollari). Questa atomizzazione del lavoro attraverso la rete ha trovato la sua definizione: crowdsourcing. Il termine (crowd + outsourcing) è un neologismo che definisce un modello di business nel quale un'azienda o un'istituzione richiede, attraverso internet, lo sviluppo di un progetto, di un servizio o di un prodotto a un insieme distribuito di persone non già organizzate in un team. Questa esigenza si manifesta poiché spesso recuperare risorse qualificate in azienda è difficile, in quanto: a) oggi, il livello di aggiornamento necessario è tale che solo pochissime aziende (per lo più quelle veramente grandi) ne possono sostenere i costi; b) le risorse più qualificate sono inserite in un percorso di carriera che le porta rapidamente fuori dalla loro specializzazione; c) le risorse migliori sono gestiste all'interno di team specifici di lavoro per cui non sono a disposizione di tutti i settori aziendali. I vantaggi per l'azienda sono diversi: da un lato, grazie al crowdsourcing, è possibile coinvolgere un numero ampio di collaboratori per velocizzare i tempi di realizzazione di un progetto, dall'altro, i costi diminuiscono proprio perché i collaboratori sono pagati solo in funzione del tempo necessario alla sua realizzazione. Un esempio concreto si ritrova nel lavoro di Aron Kobli, designer del Google's CreativeLab di San Francisco: un'opera di net-art "The Sheep Market", composta da 10 mila disegni di pecorelle commissionati in crowdsourcing e pagati 0,02dollari l'una.

Polemiche e distorsioni

Tuttavia, nella sua applicazione pratica il crowdsourcing ha creato in non pochi casi dinamiche che ne hanno alterato e distorto l'intenzione iniziale, quella cioè di avvalersi dell'apporto di una comunità di individui che disponesse nel suo complesso delle competenze necessarie all'impresa. Molte proposte di collaborazione, infatti, sfruttano il principio dell'offerta diffusa di lavoro intellettuale, per 'strappare' prezzi sempre più bassi. Anche perché i cento dollari chiesti da un prestatore d'opera occidentale hanno ovviamente un potere d'acquisto e una valenza retributiva molto diversa da quelli di un 'contributor', ad esempio, indiano. Per i più polemici, questo tipo di approccio è, quindi, il volto ipercompetitivo e iperprecario del futuro nuovo modo di lavorare. È indubbio, comunque, che molti dei siti nati per fornire servizi di crowdsourcing chiedano prodotti creativi (loghi, idee per spot pubblicitari e altri lavori intellettuali): lanciano in rete le richieste delle imprese invitando le persone a partecipare a una gara. Il guadagno c'è solo se l'idea piace ed è utilizzata. E il compenso corrisposto non ha niente a che vedere con i costi della tradizionale creatività pubblicitaria. Zoopa.com è stata tra i primi a proporre questo nuovo modo di far incontrare domanda e offerta nella marketing communication e si è proposta come piattaforma interattiva dove le imprese possono lanciare contest creativi. In non pochi casi l'idea, generata e acquistata on line, viene poi elaborata e realizzata professionalmente da tradizionali agenzie di comunicazione. 

Una proposta win-win

In realtà, anche se il crowdsourcing è allettante per le imprese per il risparmio che garantisce, la sua distorsione si rivela, nel medio termine, dannosa per le imprese stesse. La corsa a spuntare prezzi sempre più bassi e a pagare compensi irrisori segmenta verso il basso le professionalità disposte a collaborare e, alla lunga, impoverisce la qualità di ciò che si ottiene. Un esempio equilibrato di crowdsourcing si ritrova, ad esempio, nella proposta di InnoCentive, che coinvolge circa 90 mila ricercatori di materie diverse che concorrono alla soluzione di quesiti tecnici molto complessi. La media dei successi è del 30%, e i compensi ottenibili sono accettabili, variando dai 10 ai 100 mila dollari. Il futuro del crowdsourcing, infatti, si regge sull'equilibrio tra i vantaggi per l'impresa e quelli per il contributor: deve essere una soluzione 'win-win', in cui entrambi le parti alla fine ne traggono vantaggi sufficienti a spingerli a continuare nell'iniziativa. Che ciò sia possibile lo dimostrano esempi di successo realizzati da grandi aziende: da Procter & Gamble a Daimler.

Open Innovation di Procter & Gamble: catturare le idee dal mondo

L'idea nasce nel 2000 alla Procter & Gamble quando il suo Ceo (amministratore delegato), A. G. Lafley, decide di fare un ricorso massivo e strategico all'innovazione aperta ("Open Innovation"), quella cioè messa a disposizione dal mercato senza vincoli (centri di ricerca indipendenti, inventori singoli, Università e così via) creando un sito dove è possibile sottoporre idee per nuovi prodotti. Con questa scelta P&G ha persino coniato una nuova etichetta per i centri di ricerca interni, e cioè "Connect & Develop" dal consueto e noto "Research & Develop", svelando il suo nuovo paradigma, ovvero "catturare le idee dal mondo" attraverso la "connessione in rete". Un nuovo paradigma che ha prodotto in pochi anni una grande trasformazione nella catena del valore. Prima fra tutte, la nascita di operatori specializzati (i cosiddetti 'broker' dell'innovazione come, ad esempio, Ninesigma, Innocentive, Yet2com, Yourencore) che collegano le 'reti di innovatori' con i grandi committenti multinazionali. La rivoluzione più sorprendente, tuttavia, è la differenziazione di azioni e di interpretazioni che nel tempo ha riguardato l'Open Innovation, trasformandola in un sistema di condivisione tanto esteso da comprendere persino figure come i comuni dipendenti, normalmente considerati poco innovatori. Ne è un esempio la mission Alcatel avviata nel 2002: "Motivare le risorse umane nel territorio dell'innovazione facendo diventare l'innovazione responsabilità di ogni dipendente". Un obiettivo raggiunto con successo, tanto che oggi l'innovazione è uno dei cinque valori centrali dell'impresa ed è perseguito attraverso programmi e strumenti come task force, strumenti ICT su web per catturare le buone idee, benchmarking, coaching, brainstorming e campus dedicati a vendere le buone idee a 'venture capitalist'. Oggi, le aziende europee che hanno scelto di sfruttare le risorse dell'Open Innovation sono numerose (Unilever, Lego, Philips, Braun, Daimler, Electrolux, Swarovskj, Basf, Danfoss, Reckit Benckiser, Elektro-Werk, Alcatel, Ryan Air). Secondo la loro esperienza "collaborare con le migliori menti fa la differenza e nessuna azienda da sola lo potrebbe fare. E spesso le soluzioni possono arrivare da fonti assolutamente inaspettate".





Direttore responsabile di 'ADV Strategie di comunicazione'
(articolo tratto dal sito www.convoimagazineseat.it)
Lascia il tuo commento

Nessun commento presente in archivio