Questo articolo è stato pubblicato da "Il Corriere della Sera" il 17 febbraio 2003.
Ogni grande crisi mediorientale dalla fine della Seconda guerra mondiale ad oggi – guerre, rivoluzioni, conflitti civili, colpi di Stato – ha suscitato un‘ondata di scetticismo sulla maturità politica delle società musulmane e sulla loro attitudine alla democrazia. La conclusione è generalmente
disincantata e pessimistica. Secondo una tesi diffusa in Europa e in America,
la “casa dell’islam” non può essere democratica perché non è mai riuscita a
separare la Chiesa dallo Stato, il regno della
politica da quello della
fede. Finché i due poteri non saranno nettamente distinti, finché la legge religiosa continuerà a prevalere sulle norme dello Stato,
i musulmani non diventeranno mai completamente “cittadini”.
Questa tesi mi è sempre parsa
radicale e dogmatica. Conosciamo molti Paesi cristiani in cui il clero ha preteso esercitare una sorta di sorveglianza sui poteri civili. E conosciamo altri Paesi cristiani in cui la classe politica si è
servita della religione per meglio sopprimere il consenso e controllare la società. Applicata all’Islam questa spiegazione ha finito per assumere una connotazione
implicitamente razzista e ha fornito argomenti alle ambizioni coloniali delle grandi potenze. Se esiste una
“immaturità” democratica delle società islamiche proviamo a cercarne la ragione nelle vicende storiche del mondo arabo e musulmano durante gli ultimi ottant’anni.
Nel 1919, dopo la fine della Grande guerra, la
Turchia divenne una Repubblica laica,
l’Arabia Saudita un regno,
l’Egitto (formalmente fino al 1922) un protettorato britannico e alcune province dell’impero Ottomano furono trasformate, in Stati semindipendenti, soggetti al controllo politico delle due maggiori potenze europee,
Gran Bretagna e Francia. Furono creati Parlamenti, tribunali, istituzioni rappresentative. Ma la democrazia non è un
manuale di “istruzioni per l’uso”. E’ il risultato di lunghe maturazioni storiche e favorevoli condizioni economiche. Con alcune parziali eccezioni (la Turchia, l’Iran, l’Egitto e il Libano) non vi era Stato islamico che avesse grandi
partiti e sindacati, una ricca società civile, una forte borghesia mercantile e imprenditoriale, una classe operaia consapevole dei suoi diritti, una lunga tradizione nazionale. Molti di essi erano soltanto
creazioni artificiose “assemblate” con diverse varianti confessionali dell’Islam e gruppi etnici diversi. E’ il caso
dell’Iraq, costruito fra il Tigri e l’Eufrate con una
miscela instabile di arabi sciiti, arabi sunniti e curdi.
Terminata la Seconda guerra mondiale, gli Stati semindipendenti acquistarono la
piena sovranità e molti vecchi protettorati ottennero, a loro volta,
l’indipendenza. In poco più di quindici anni (l’Algeria si staccò dalla Francia nel 1962), la
decolonizzazione buttò nel mare della democrazia, sperando che avrebbero imparato a nuotare, emirati, regni e Repubbliche, dal
Marocco al
Pakistan, dalla
Tunisia all’
Indonesia. Ma è probabile che le regole della buona democrazia, in quelle circostanze, avrebbero reso i nuovi Stati del tutto ingovernabili. Quando non erano costituite da oligarchie familiari (come l’Arabia Saudita) o da predoni e profittatori, le nuove classi dirigenti avevano altre preoccupazioni, molto più urgenti.
Dovevano creare un
sentimento nazionale, là dove prevalevano vincoli di lealtà tribale o confessionale. Dovevano sviluppare le risorse del Paese, là dove esisteva il petrolio. Dovevano recuperare il tempo perduto e avviare le loro società sulle strada della
modernizzazione economica e sociale.
Come in Turchia all’epoca di Kemal Atatürk, i militari erano i soli che sembrassero avere gli strumenti per dare una risposta a queste esigenze.
Entrarono così in scena fin dagli anni Cinquanta, spesso con
sanguinosi colpi di Stato, i colonnelli e i generali. Sono
Nasser e Sadat in Egitto, Kassem e Aref in Iraq, Shishakli e Silo in Siria, Abboud e ElNimeri in Sudan, Boumediénne in Algeria, Gheddafi in Libia, Ayub Khan in Pakistan.
Anziché ispirarsi alla democrazia occidentale, i nuovi leader preferirono
importare i modelli autoritari o totalitari che erano stati applicati in Europa e in Turchia nelle generazioni precedenti.
Reza Pahlavi, Scià dell’Iran, fu una
versione mediorientale di Napoleone III, imperatore dei francesi dal 1851 al 1870. Altri cercarono di ispirarsi ai dittatori iberici,
Franco e Salazar. Altri ancora al regime laico e militare di
Kemal Atatürk. L’ideologia che ebbe maggior fortuna, nelle sue varianti locali, fu quella nazionalsocialista del partito
Baath, nato tra il 1944 e il 1946, da cui uscirono le dittature di
Saddam in Iraq e di Assad in Siria.
Insieme a molti vizi e difetti, questi regimi avevano un innegabile
merito. Erano
laici, modernizzatori e decisi a imporre la forza dello Stato sull’autorità del clero sunnita o sciita. Ma ciascuno di essi era
assediato, all’interno, da un forte movimento religioso, ispirato dal fondamentalismo dei
Fratelli musulmani, sorti in Egitto alla fine degli anni Venti. Il successo e l’eventuale transizione alla democrazia dei nuovi Stati dipendeva, in ultima analisi, dai risultati che ciascuno di essi sarebbe riuscito a raggiungere. Purtroppo, con parziali eccezioni in alcuni Paesi dell’Africa settentrionale, questi risultati furono
negativi o mediocri.
Le ragioni sono in parte locali: una classe dirigente
rapace, una
burocrazia corrotta, una
pessima gestione delle risorse petrolifere, un’insensata
rivalità tra le potenze della regione. Ma non sarebbe giusto dimenticare che questo processo di
identificazione nazionale avvenne nella peggiore delle condizioni possibili: l’improvvisa apparizione in Medio Oriente di una
nuova colonia “europea” (Israele), la
spedizione franco – inglese a Suez, le tensioni della
guerra fredda. Il
fallimento della modernizzazione laica dette fiato ai partiti religiosi. La rivoluzione iraniana del
1979 e l’apparizione di un grande leader religioso,
l’Ayatollah Khomeini, segnarono l’inizio di una fase
reazionaria. E l’invasione sovietica
dell’Afghanistan offrì ai fondamentalisti un campo di battaglia in cui poterono, con l’aiuto degli americani e dell’Arabia Saudita,
prepararsi alla “guerra santa”.
Il resto è storia recente. Ancora più recente è la decisione americana di
trasformare la guerra contro l’Iraq in una grande rivoluzione democratica dell’intera regione mediorientale. E’ certamente possibile che un grande trauma provochi la nascita di una nuova classe dirigente e di un nuovo consenso sociale. Ma esistono almeno
tre dubbi possibili. Non sappiamo se le intenzioni degli Stati Uniti siano strategiche o motivate dal desiderio di
coprire un disegno imperiale con un nobile progetto politico. Non sappiamo se l’Islam accetterà una
rivoluzione portata dalle baionette americane. E non sappiamo, infine, quale
resistenza le vecchie
élite e i
movimenti fondamentalisti del Medio Oriente opporranno al progetto americano. Ci rimane soltanto la speranza che gli Stati Uniti abbiamo, accanto ai piani per la guerra,
un piano per la pace.