Al di fuori dei soliti percorsi turistici segnalati agli amanti dell'arte, ben pochi conoscono una vera e propria 'gemma' che ciriporta alle nostre vere origini linguistiche. Silenziosa si erge in Roma, alle pendici del monte Celio, la basilica di San Clemente, a trecento metri dal simbolo per eccellenza del mondo pagano: il Colosseo. La riservatezza conventuale di cui è vestita è rotta solo quando chiama a sé i fedeli intonando una melodia di campane che si confonde animatamente con quella della vicina SS. Quattro Coronati. Eppure, questa basilica, che appare quasi inghiottita dal tessuto urbano che la circonda, nasconde timidamente dietro un maquillage tardo-barocco il più importante palinsesto architettonico della città. Nessun edificio romano mostra una simile complessità strutturale. Qui, con un’incredibile sovrapposizione stratigrafica di quattro livelli di costruzioni, si precipita vertiginosamente a diversi metri di profondità sotto terra. Abbracciando, allo stesso tempo, circa ventidue secoli di storia. Storia che comincia varcando il monumentale protiro porticato, estrema propaggine architettonica e ultimo contatto con la realtà, dove ancora le testimonianze artistiche sono a cielo scoperto. Il romanico di un piccolo quadriportico del XII secolo si scontra rumorosamente con la facciata di un trionfalistico barocco ai suoi ultimi gemiti. Creazione modesta del primo settecento di quel Carlo Fontana, autore anche dell’importante S. Marcello al Corso, il cui prospetto color terracotta, ad archetti a tutto sesto, è un tentativo di dialogo stilistico in cui l’abbassamento dei toni del barocco è tutto a vantaggio del ‘dolce stil nuovo’. Ma è all’interno, dietro l’uniformante patina di stucchi e di volute, che si celano gloriose le antiche gemme medievali. La chiesa attuale è infatti il risultato della ricostruzione promossa dal grande Pasquale II nel 1108, dopo la drastica decisione di abbandonare e interrare l’edificio paleocristiano che era stato devastato dai Normanni di Roberto il Guiscardo nel 1084, quando dalla vicina porta Asinaria essi avevano fatto irruzione appiccando incendi e applicando una dura legge di guerra alla città. Ma, in realtà, la genesi del palinsesto edilizio è ancora più complessa e antica: comincia con la costruzione in epoca romana sullo stesso sito di un edificio pubblico, una Zecca monetaria che verrà sostituita una manciata di anni dopo da una domus, forse quella di Clemente, liberto e martire sotto Domiziano. Nel cortile verrà poi ricavato un Mitreo, segno tangibile della mescolanza di religioni di cui era composta la capitale all’epoca. Cento anni dopo, tutte queste testimonianze pagane verranno azzerate. Cancellate senza pietà per dare alla luce una basilica paleocristiana. Che non avrà sorte migliore. Danneggiata irrimediabilmente nell’XI secolo, verrà interrata per offrirsi come base alla costruzione di un nuovo tempio cristiano. Quello attuale, per l’esattezza, dove l’antico si sposa armoniosamente con il moderno, il romanico con il rinascimento e il barocco, dove al soffitto a cassettoni dorati settecentesco in cui grandeggia il monumentale affresco di Giuseppe Chiari con la “Gloria di S. Clemente” risponde il pavimento cosmatesco con i suoi medaglioni di serpentino verde e porfido, che disegnano una pianta basilicale a tre navate poliabsidate. E dove alla scola canthorum centrale con plutei in marmo ribattono le antiche colonne di spoglio disposte a fusto liscio e scanalato come in un ritmo musicale alternato. Ma è soprattutto all’abside mosaicato del XII secolo che risponde come un’ eco la cappella quattrocentesca affrescata da Masolino e Masaccio. La Cappella, dedicata a S. Caterina, si trova proprio a destra dell’ingresso. Il cardinale lombardo Branda da Castiglione commissionò la decorazione della cappella con le storie di S. Caterina d’Alessandria nel 1428 a Masolino da Panicale, artista di ‘transizione’ imbevuto ancora di cultura tardo gotica, ma al tempo stesso maestro e allievo di Masaccio. Le figure allungate, aggraziate, quasi aristocratico-cortesi e i colori, al contempo chiari e luminosi presenti nelle scene della vita della santa, portano la firma di Masolino. Ma la crocifissione rappresentata sulla parete d’altare, come ricorda il Vasari ne “Le vite”, è opera di Masaccio. Il plasticismo più accentuato dei cavalieri nella fascia centrale, gli scorci prospettici più arditi sarebbero opera del maestro fiorentino. Con il recupero della sinopia della crocifissione, si vide l’intervento di una mano ‘diversa’ nel modellare la parte centrale con un contorno più deciso e con un maggior effetto plastico e chiaroscurato, dovuto anche all’uso del carboncino acquerellato. Se la Cappella Branda apre il Rinascimento romano, è nel Catino absidale della basilica dove il gioco a due con il fruitore ha la meglio, dove converge lo sguardo fin dall’entrata, che trionfa l’impressionismo tardo antico dei contorni non netti. Rivive lo stile del mosaico paleocristiano del nartece del Battistero Lateranense, con i suoi tralci di vite raggirati e avvitati in un trionfo coloristico di verdi e di blu. Qui, su un crocifisso azzurro posato idealmente su uno sfondo d’oro, come in un grandioso arabesco grandeggia un “Cristo patiens” fiancheggiato dalle figure della Vergine e di S. Giovanni. Attraverso un gioco di similitudini con la pianta della vite quale “albero della vita” da cui scorre il vino, sangue di Cristo, si irradiano dalla croce tralci e rami dispiegati all’infinito, che avvolgono tra il loro fogliame varie scenette di genere. Uomini e donne a cui questi ramoscelli danno vita e sostentamento. Vere e proprie figurine impiegate in diverse attività quotidiane, che si propongono come avvertimenti sulla condotta del fedele. Come una donnina rappresentata curva su se stessa a dare il becchime agli uccelli, emblema della vita semplice e contadina. Il mosaico fu voluto da Pasquale II (1099-1118) il cui monogramma bianco su fondo blu compare nell’intradosso dell’arco absidale. Il pontificato di questo Papa, identificato con la rinascita romana, corrispose a un generale ritorno all’antico concretizzato in una ripresa delle forme di gusto paleocristiano, oltre che in una fervida attività costruttiva. Il mondo paleocristiano rappresentava un serbatoio di modelli formali, ma soprattutto un repertorio simbolico dal quale trarre materia da rielaborare e attualizzare. La visita continua nella basilica inferiore, costruita nel 385 e riscoperta solo nel 1857. Molto più larga di quella superiore, era preceduta da un nartece. Oggi, ingombra dei muri di sostegno, conserva importanti resti di affreschi romanici come le “le storie dei SS. Alessio e Sisinnio” e del “Miracolo di San Clemente”. Quest’ultimo si trova proprio nel nartece e rappresenta l’episodio del miracolo di un bambino ritrovato vivo in una chiesa dedicata a S. Clemente nel Mar d’Avoz. Ancor più importante è l’affresco con la “Leggenda di Sisinnio”, dove in un fumetto medievale ante litteram sono pronunciate le prime parole in volgare italiano, dopo le carte di Capua: “Traite fili de le pute” pronuncia uno scurrile Sisinnio in preda alla collera e alla gelosia per San Clemente, il quale per tutta risposta gli ribatte in un irremovibile latino, lingua secolare della Curia romana. Dalla parete di fondo si accede ad un altro livello di scavi che corrisponde al pianterreno del palazzo del I secolo sul quale si costruì la prima basilica. Qui è stato trovato un Tempio di Mitra, con tanto di soffitto ribassato a cassettoni a simulare una spelonca, sedili per gli iniziati e un’ara centrale marmorea con la rappresentazione del “dio che immola un toro”. Il viaggio nelle viscere di San Clemente si conclude ad altri sei metri di profondità, dove sono i resti di un’insula sotterranea, preesistente l’incendio neroniano, da identificarsi con la Zecca imperiale, come proporrebbero la mancanza di ingressi, uno spesso muro perimetrale ed altri sistemi di sicurezza impiegati. Una stratigrafia più complessa a Roma non esiste. Ecco perché questo luogo rimane al di fuori dello spazio e del tempo, consacrato per sempre alla storia, alla religione e all’arte.