Il recente attacco dei militari israeliani alle navi pacifiste provenienti dalla Turchia si presenta agli occhi del mondo come un attentato diretto contro le speranze di una ripresa del processo di pace. L’aggressione violenta che ha comportato la morte di nove persone e il ferimento di altre 45 non trova alcuna spiegazione, né giustificazione: le sei navi, assaltate ancora in acque internazionali, portavano solo beni materiali e alimentari, beni di prima necessità per la Striscia di Gaza, che dal 2008 soffre dell’embargo predisposto illegittimamente dallo Stato di Israele. La mossa ordita dal Governo di Tel Aviv comporterà il solo effetto di isolare ancora di più e ancora una volta il piccolo Stato, alimentando un sentimento di ingiustizia già vivo e impotente. Il primo ministro Netanyahu ha immediatamente annullato la visita che il giorno successivo all’attacco lo avrebbe dovuto condurre a Washington, da Barack Obama. Una decisione significativa, se si pensa che l’incontro con il presidente americano avrebbe dovuto sancire la riconciliazione tra Israele e Stati Uniti causati dalla colonizzazione ebraica della Cisgiordania. Le reazioni dei leader nel resto del mondo hanno dimostrato sorpresa e insofferenza: l’Unione europea e le Nazioni Unite hanno richiesto un’indagine completa, in molte delle capitali occidentali sono stati convocati d’urgenza gli ambasciatori israeliani e il mondo arabo ha fatto sentire la sua preoccupazione con la voce dell’Egitto, il quale ha sottolineato “il pericolo dell’embargo imposto illegittimamente da Israele sulla Striscia di Gaza”. L’appoggio della Turchia alle navi dei pacifisti segna probabilmente la nuova linea del Governo di Ankara: una strategia diplomatica volta prevalentemente a mantenere i rapporti con Siria e Giordania, anziché con lo stato Israele. Ma ciò che colpisce maggiormente, tralasciando i fattori e le conseguenze diplomatiche dell’atto di forza israeliano, è il parallelismo che è possibile rinvenire tra l’attacco del dicembre 2008, denominato ‘Piombo fuso’ e quest’ultimo, del 31 maggio scorso. Nel dicembre di due anni fa, infatti, i militari israeliani sferrarono un feroce attacco alla già martoriata Striscia di Gaza, sfoderando una violenza e un’aggressività inusitata ed eccessiva, di certo sproporzionata e gratuita, che causò centinaia di vittime civili e la demolizione di abitazioni ed edifici al termine della quale lo stesso Governo israeliano decise unilateralmente di chiudere le frontiere palestinesi all’accesso di beni di prima necessità, se non sotto il proprio diretto controllo. E così, nella Striscia di Gaza, sempre più isolata dalla Cisgiordania, gli abitanti (un milione e mezzo di persone, costrette in 360 chilometri quadrati), prigionieri in casa propria, sopravvivono da due anni grazie al mercato nero proveniente dai tunnel con l’Egitto, attraverso i quali, ogni settimana, centinaia di camion consegnano agli alimentari di Gaza city. Anche in questo secondo attacco, che ha trasformato le truppe speciali israeliane in ‘pirati governativi’, la forza sfoderata è apparsa esagerata e arrogante, dimostrando una paura inconscia e irrazionale del Governo ebraico che preferisce attaccare e sovrastare chi gli sta di fronte, piuttosto che lasciarlo parlare. Le sei navi assaltate in acque internazionali di fronte al porto di Ashdod sono state condotte in territorio israeliano e sequestrate. Il Governo saprà come distribuire poco alla volta il carico delle navi, con l’intento di dimostrare più a sé stesso che al resto del mondo la propria generosità e magnanimità. L’attacco sferrato, secondo quanto dichiarato da Israele, è stato compiuto come atto di difesa: le navi salpate dalla Turchia erano fuorilegge e non trasportavano beni alimentari e materiali necessari alla ricostruzione della Striscia, bensì armi di contrabbando per rinforzare le truppe di Hamas. La tesi dell’autodifesa, sfoderata da Israele come nel dicembre 2008, sembra non reggere, anche perché, ancora una volta, le vittime civili si trovano sempre dall’altra parte.