Alessandro LozziUniti per vincere. In queste tre parole, che danno il nome al “correntone” Ds che fa capo a Giovanni Berlinguer, c’è tutta la storia della sinistra italiana, i suoi errori politici, la sua rigida impostazione premoderna.
L’unità - come sanno bene i liberali - non è un valore, ma può essere solo il frutto di una convergenza programmatica. E a sinistra, oggi come ieri, questa convergenza non c’è.
Certo, uniti contro qualcuno si può vincere le elezioni, ma si tratta di una 'vittoria di Pirro', perché poi non si può governare. E’ successo nel 1994, quando Berlusconi pagò a Bossi il pedaggio di una vittoria elettorale che non era politica; è successo nel 1996 quando Romano Prodi pagò l’identico pedaggio a Bertinotti.
Il neofita Berlusconi ha fatto tesoro di quell’errore, mentre la sinistra italiana, ad oltre 40 anni da Bad Godesberg non ne è ancora capace.
Non c’è da stupirsene. Come sostiene Giulio Savelli, la sinistra italiana ha difeso, in ordine cronologico: Stalin fino alla morte, Chruschev fino alla destituzione, poi Breznev ed infine Gorbacev; è stata affascinata da Mao, ha finto di non credere alla repressione poliziesca, ai gulag di Cina e Unione Sovietica, nel 1956 si è schierata con i carri armati russi contro il popolo ungherese, ha difeso Pol Pot, nutre tuttora simpatia per Fidel Castro e quel campo di concentramento di fame e prostituzione che è Cuba.
La sinistra italiana è istintivamente antiamericana, non ha ancora compreso quanto la cosiddetta civiltà dei consumi, con l'automobile e la televisione, abbia dato libertà a tutti e avrebbe voluto mandarci in bicicletta ai teatri filodrammatici.
Il fatto è che nella sinistra italiana non hanno fatto la storia coloro che hanno avuto ragione, come i riformisti di Turati e i socialisti liberali di Rosselli, ma i rivoluzionari massimalisti e i comunisti, cioè coloro che non hanno avuto ragione.
E’ forse per questo che, tutt’oggi, anno di grazia 2002 dopo Cristo, Fausto Bertinotti, con atteggiamento oracolare, sostiene, senza vergogna: “Penso che si debba tornare a Marx. E’ la chiave più significativa di interpretazione del nostro tempo. Ha introdotto la categoria alta della rivoluzione come trascendimento dell’ordine esistente”.
Il fatto è che, rifiutando di riconciliarsi con una visione laica e moderna della politica, la sinistra è progressivamente scivolata in un recupero integrale del giacobinismo etico, dal quale sgorga la retorica della diversità e la pretesa di essere la parte giusta della società, il deposito dei valori della nazione.
Ha ben ragione Angelo Panebianco quando scrive che la sinistra è vittima di due complessi: quello del Padreterno, che fa sembrare coloro che la pensano diversamente come degli imbecilli e quello del Moralista, che li fa apparire come potenziali mascalzoni, gente che ha sempre e comunque interessi sordidi e illeciti da difendere.
In Italia, come in tutto il mondo, non esiste 'la sinistra', esistono 'le sinistre'.
La peculiarità, tutta italiana, sta nel fatto che, nonostante - e forse anche per colpa - delle operazioni di maquillage dalemiane, la sinistra antagonista, moralista, terzomondista, emotiva e sognatrice è maggioritaria rispetto a quella liberale e ne costituisce non solo il cuore, ma anche l’anima, il sangue e le viscere.
Bertinotti è tanto onesto quanto lucido nello spiegare perchè le sinistre sono almeno due quando sostiene che, per molte forze di derivazione comunista, la rottura con la propria storia ha significato non solo la rinuncia alla prospettiva del comunismo, ma anche la liquidazione della possibilità di interpretare la società sulla base dei conflitti di classe.
A suo parere, infatti, “la storia della civiltà è storia del conflitto di classe e il problema della collocazione della sinistra in questa nuova scena è quello della rilettura, in termini di classe, del nuovo processo di globalizzazione, cioè di mondializzazione dell’economia”, mentre “la sinistra moderata pone su un terreno falsamente neutrale i conflitti tra i diversi ceti sociali negando precisamente la causa prima della loro divisione, ossia il meccanismo dell'accumulazione capitalistica e questo tipo di organizzazione della società”.
A questa visione della sinistra si contrappone, etimologicamente quanto politicamente, quella di chi, come Massimo D’Alema, sostiene che “anche a sinistra riaffiora una cultura radicale che contrappone alla globalizzazione semplicemente un rifiuto non sostenibile rispetto a una ragionevole visione della storia. Proprio per questo, compito e ruolo della sinistra riformista non può essere accodarsi ai cortei degli antiglobalizzatori. Non si può immaginare di compiere un tratto di strada con chi dice di voler fermare la storia e basta...”.
Si è fatto un gran parlare dell'antipolitica della destra: purtroppo, dobbiamo constatare che, oggi, la vera antipolitica è a sinistra.
Come potrebbe altrimenti chiamarsi, se non antipolitica, la pretesa di essere “uniti per vincere” conciliando ciò che conciliabile non è?
Finchè a sinistra non si prenderà atto che la chiave di lettura più corretta della Storia è la libertà dell’individuo, finchè si ricercherà il falso valore dell’unità senza politica invece di riconoscere la forza creatrice della diversità, a perdere sarà solo l’Italia.
E ciò a prescindere dai risultati elettorali.

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