Uniti per vincere. In queste tre parole, che danno il nome al “correntone” Ds che fa capo a
Giovanni Berlinguer, c’è tutta la storia della sinistra italiana, i suoi errori politici, la sua
rigida impostazione premoderna.
L’unità - come sanno bene i liberali - non è un valore, ma può essere solo
il frutto di una convergenza programmatica. E a sinistra, oggi come ieri, questa convergenza non c’è.
Certo, uniti contro qualcuno si può vincere le elezioni, ma si tratta di una
'vittoria di Pirro', perché poi non si può governare. E’ successo nel
1994, quando
Berlusconi pagò a
Bossi il pedaggio di una vittoria elettorale che non era politica; è successo nel
1996 quando
Romano Prodi pagò l’identico pedaggio a
Bertinotti.
Il
neofita Berlusconi ha fatto tesoro di quell’errore, mentre la sinistra italiana,
ad oltre 40 anni da Bad Godesberg non ne è ancora capace.
Non c’è da stupirsene. Come sostiene
Giulio Savelli, la sinistra italiana ha difeso, in ordine cronologico:
Stalin fino alla morte,
Chruschev fino alla destituzione, poi
Breznev ed infine
Gorbacev; è stata affascinata da
Mao, ha finto di non credere alla
repressione poliziesca, ai
gulag di Cina e Unione Sovietica, nel
1956 si è
schierata con i carri armati russi contro il popolo ungherese, ha difeso
Pol Pot, nutre tuttora
simpatia per Fidel Castro e quel campo di concentramento di
fame e prostituzione che è Cuba.
La sinistra italiana è
istintivamente antiamericana, non ha ancora compreso quanto la cosiddetta civiltà dei consumi, con l'automobile e la televisione, abbia dato
libertà a tutti e avrebbe voluto mandarci in bicicletta ai teatri filodrammatici.
Il fatto è che nella sinistra italiana
non hanno fatto la storia coloro che hanno avuto ragione, come i riformisti di
Turati e i socialisti liberali di
Rosselli, ma i rivoluzionari
massimalisti e i comunisti, cioè coloro che non hanno avuto ragione.
E’ forse per questo che, tutt’oggi, anno di grazia 2002 dopo Cristo,
Fausto Bertinotti, con atteggiamento oracolare, sostiene, senza vergogna: “Penso che si debba tornare a Marx. E’ la chiave più significativa di interpretazione del nostro tempo. Ha introdotto la categoria alta della rivoluzione come trascendimento dell’ordine esistente”.
Il fatto è che,
rifiutando di riconciliarsi con una visione laica e moderna della politica, la sinistra è progressivamente scivolata in un
recupero integrale del giacobinismo etico, dal quale sgorga la
retorica della diversità e la pretesa di essere la parte giusta della società, il deposito dei valori della nazione.
Ha ben ragione
Angelo Panebianco quando scrive che la sinistra è vittima di
due complessi: quello del
Padreterno, che fa sembrare coloro che la pensano diversamente come degli imbecilli e quello del
Moralista, che li fa apparire come potenziali mascalzoni, gente che ha sempre e comunque interessi sordidi e illeciti da difendere.
In Italia, come in tutto il mondo,
non esiste 'la sinistra', esistono 'le sinistre'.
La peculiarità, tutta italiana, sta nel fatto che, nonostante - e forse anche per colpa - delle operazioni di
maquillage dalemiane, la sinistra
antagonista, moralista, terzomondista, emotiva e sognatrice è maggioritaria rispetto a quella liberale e ne costituisce non solo il cuore, ma anche l’anima, il sangue e le viscere.
Bertinotti è tanto onesto quanto lucido nello spiegare perchè le sinistre sono
almeno due quando sostiene che, per molte forze di derivazione comunista, la rottura con la propria storia ha significato non solo la rinuncia alla prospettiva del comunismo, ma anche
la liquidazione della possibilità di interpretare la società sulla base dei conflitti di classe.
A suo parere, infatti, “la storia della civiltà è
storia del conflitto di classe e il problema della collocazione della sinistra in questa nuova scena è quello della
rilettura, in termini di classe, del nuovo processo di globalizzazione, cioè di mondializzazione dell’economia”, mentre “la sinistra moderata pone su un terreno
falsamente neutrale i conflitti tra i diversi ceti sociali negando precisamente la causa prima della loro divisione, ossia il
meccanismo dell'accumulazione capitalistica e questo tipo di organizzazione della società”.
A questa visione della sinistra si contrappone, etimologicamente quanto politicamente, quella di chi, come
Massimo D’Alema, sostiene che “anche a sinistra riaffiora una cultura radicale che contrappone alla globalizzazione semplicemente un
rifiuto non sostenibile rispetto a una ragionevole visione della storia. Proprio per questo, compito e ruolo della sinistra riformista
non può essere accodarsi ai cortei degli antiglobalizzatori. Non si può immaginare di compiere un tratto di strada con chi dice di voler fermare la storia e basta...”.
Si è fatto un gran parlare dell'antipolitica della destra: purtroppo, dobbiamo constatare che, oggi, la vera antipolitica è a sinistra.
Come potrebbe altrimenti chiamarsi, se non antipolitica, la
pretesa di essere “uniti per vincere” conciliando ciò che conciliabile non è?
Finchè a sinistra non si prenderà atto che la chiave di lettura più corretta della Storia è
la libertà dell’individuo, finchè si ricercherà il
falso valore dell’unità senza politica invece di riconoscere la
forza creatrice della diversità, a perdere sarà solo
l’Italia.
E ciò a prescindere dai risultati elettorali.