Antonio Di Giovanni

E cosi contiamo l’ennesima vittima di questa nuova e assurda forma di guerra civile semplicisticamente chiamata competizione calcistica. Una competizione che, in teoria, non dovrebbe avere nessuna attinenza con un comportamento bellico, al contrario, dovrebbe essere l’espressione più alta di un valore di lealtà che dovrebbe essere il principale riferimento per tutti coloro i quali credono nella cultura sportiva. Il problema è che, ultimamente, almeno per quanto riguarda il calcio, si è perso di vista l’unico vero obiettivo per il quale questo tipo di sport esiste. Lo spettacolo, la formazione educativa del far parte di una squadra, il valore della competizione come confronto di ‘scuole’ tattiche differenti, tutto questo ormai è preistoria: il calcio è business, quotazioni in borsa, diritti televisivi, gestione affaristica del tifoso, insomma un vero e proprio giuoco al massacro, una macchina infernale che si nutre dei suoi stessi danni collaterali, che spesso si materializzano a scapito del singolo tifoso, dell’appartenente alle forze dell’ordine o dell’intera comunità cittadina circostante con la distruzione di auto, arredi urbani e quant’altro. Ciò è corredato, inoltre, da un atteggiamento approssimativo da parte dello Stato, che sembra tendere a mettere ‘toppe’, piuttosto che ad imprimere un’azione maggiormente incisiva per la risoluzione del problema. Per non parlare degli altissimi costi, in termini di denaro pubblico, che si sostengono a tali scopi: forze dell’ordine impiegate allo stadio e fuori, sorveglianza e addirittura scorta di trasporto delle tifoserie, comitati e osservatorii costituiti ad hoc solo e semplicemente per 22 persone in calzoncini che tirano due calci ad un pallone, mai cosi costoso quanto oggi. Infine, la considerazione del tifoso esclusivamente in una chiave affaristica e non in quanto fenomeno di disagio sociale, poiché mi risulta difficile credere che un simile rapporto perverso tra società calcistiche e tifosi non sia dettato da una reciproca convenienza, che la figura del tifoso non venga considerata, oggi, una sorta di professione redditizia ripensando alla recessione economica, alla disoccupazione, al precariato che attanaglia tanti giovani. Il calcio, in sintesi, è diventato privilegio e prerogativa esclusivamente delle tifoserie organizzate e non più delle famiglie o del singolo cittadino, sanamente tifoso della sua squadra del cuore, che, come accadeva invece in passato, anziché andare al cinema preferiva assistere, comodamente ed in tutta tranquillità, ad una bella partita di calcio. Ma ormai la macchina economica che produce ricchezza non si può fermare, in barba al valore della vita. Che sia poi di un tifoso, di un poliziotto o di un cittadino comune reo solo di essere andato allo stadio, poco importa: the show must go on.


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