Remake dell’omonimo
telefilm inglese del
1990 (tratto dal romanzo di Michael Dobbs), House of cards, la
serie tv cult che fece grande successo nel
2013 al suo debutto sulla piattaforma
Sky, è ora sbarcata su
Netflix. Ideata da
Beau Willimon, la serie si articola in
sei stagioni (Kevin Spacey è nel cast fino alla quinta) e
73 episodi (della durata di circa 44-55 minuti ciascun episodio). Sempre più in uso nel genere del
film a episodi, realizzato e distribuito per le piattaforme digitali
(Netflix, Amazon Prime e altre) i personaggi si evolvono da una stagione all’altra, diventando una sorta di
contenitori 'temporali', come fossero frammenti di
sequel 'a sé stanti'. In questa serie, in particolare, non vi sono accenni di
flashback o di
prolessi: l’eroe negativo
Frank Underwood, un fantomatico deputato del
Congresso americano (il superlativo Kevin Spacey) ripercorre il classico cammino di
ascesa al potere, sconfiggendo i nemici con
"il ferro e l’astuzia". Emblematico l’uso cadenzato, in ogni sequenza, del sarcastico dialogo tra
Frank/Kevin e la macchina da presa: rivolto agli spettatori,
Frank/Kevin mima gli
'a parte' shakespeariani, infrangendo a piè sospinto l’illusione della
'quarta parete', nonché commentando ed elargendo motti ed aforismi, tra i quali:
“Nessuno scrittore sa resistere a una buona storia. Così come un politico non sa trattenersi dal fare promesse che non può mantenere”.Stili nel caos del Washington D.C.Relegare il film tv
'House of cards' a un’opera strutturata su un
impianto teatrale, soffermandosi solo sulle numerose riprese degli interni, sarebbe del tutto
inesatto, poichè la
maratona 'episodica' alterna i
'girati' interni ed esterni e, con grande maestria, alterna l’apparizione e la sparizione dei numerosi personaggi senza annoiare lo spettatore, il quale, alla fine, si abitua a quegli ambienti e a quei ritmi.
‘House of cards’ ricostruisce il ritmo binario tra la vita politica della
Casa Bianca (con le sue frenetiche riunioni e le sue congiure di palazzo) e le lunghe scene di
vita familiare, apparentemente idilliache, che diluiscono la tensione tipica del
'political-drama', con la macchina da presa che si prende qualche libertà circumnavigando i corpi dei protagonisti come fossero statuarie composizioni
(allusioni alla potenza evocativa della Statua della libertà, ndr).Ritratto e status
'House of cards' è, in sostanza, il ritratto lievemente
atono di uno status permanete: uno
stile politicamente corretto sulle
scorrettezze della
politica. Sebbene i temi scottanti come
l’imperialismo, il
militarismo e la
fobia delle altre
superpotenze, con intere stagioni dedicate alla
Cina e alla
Russia, siano effettivamente trattati, il cosiddetto
‘Deep State’ resta, volutamente, in superficie . La
narrazione filmica, per essere più degustativa che riflessiva, si affida a uno
stile patinato, anche attraverso una
fotografia dominata dai
colori freddi e da
luci uniformi. Una
sceneggiatura 'di ferro', senza sbavature, se non per la scena, evitabile, tra il presidente in carica
Walker (un efficace Michael Gill) e
Frank (ancora vicepresidente), che fanno
'a gara' nel
'sentire' i
pensieri di Truman prima dello sgancio della
bomba atomica, nell’appositamente
'ricostruita' stanza dei dipinti.
La parentesi ‘inclusiva’: da firts lady a primo presidente donna
Nella sesta e ultima stagione, gli sceneggiatori introducono la
parentesi inclusiva della
signora presidente, Claire Underwood (la brava e algida Robin Wright), salita allo scranno della
Casa Bianca dopo la morte del marito, il
presidente Frank Underwood (si apprende della sua morte solo nel trailer di presentazione della stagione). Sin dal primo episodio, nonostante gli ostracismi,
Claire crede veramente di voler cambiare le cose, di smarcarsi dalla
politica affarista e
corrotta (solo degli uomini?). Nonostante il grande salto di qualità del personaggio, la bravura
dell’interprete Wright, nonostante le regie seguano lo schema collaudato dalle stagioni vincenti, la
sesta stagione non è all’altezza delle precedenti.
Il perché della morte del personaggio principale
La produzione tagliò di netto il ruolo di Frank Underwood, licenziando l’attore Kevin Spacey, poiché accusato di aver molestato un giovane di 14 anni negli anni ‘80 (Spacey fu poi prosciolto dalle accuse da un tribunale di New York) e successivamente venne ancora accusato di molestie da quattro uomini: secondo l’accusa, i fatti erano accaduti tra il 2004 e il 2016. Un tribunale londinese scagionò Kevin Spaces e lo prosciolse nel 2017, ma l’attore solo recentemente si è ripresentato in pubblico.