Avere una linea
schizofrenica sulle
politiche climatiche è
controproducente, sotto ogni punto di vista. Di recente
l’Unione europea ha ritirato, in modo retroattivo, investimenti in energia pulita; in
Australia, era stata introdotta, per poi essere ritirata; a presidenti alterni, gli
Usa si mostrano contro o pro gli
accordi di Parigi. Una delle ragioni per cui i limiti di emissioni di
gas serra espressi nelle direttive politiche sono sempre
disattesi è legato alla
percezione del rischio da parte delle
aziende. L’attuazione della
transizione ecologica richiederebbe una vasta condivisione di obiettivi da parte degli
agenti privati, al fine di investire capitali nello sviluppo di
tecnologie a basse emissioni di
anidride carbonica. Ma le aziende investono in questo senso solo se si aspettano che siano più
convenienti delle
alternative fossili. Un altro fattore che influenza le aspettative di guadagno è relativo a quanto saranno stringenti le politiche di
mitigazione climatica: in breve, quale sarà il
prezzo del carbone? Dunque, le politiche climatiche riescono a ottenere i cambiamenti desiderati se e solo se gli
attori coinvolti credono che, a partire da quelle decisioni, possano discendere
reali azioni politiche. Questi sono i risultati dello studio della
London School of Economics (l’istituto di ricerca di Grantham,
ndr).
Roberta Terranova, Emanuele Campiglio e
Francesco Lamperti hanno analizzato come interagiscono tra loro
aspettative, investimenti privati e
politiche pubbliche di mitigazione. I ricercatori hanno individuato una relazione di
proporzionalità diretta tra investimenti in tecnologia ad alto impatto di
carbonio e le credenze sul
futuro prezzo dello stesso. Le
politiche climatiche non orientano in alcun modo il
mercato, neanche quando si proclamano
‘strette’ sulle
emissioni. Anzi, le
minacce di proibizionismo producono risultati
peggiori, rispetto agli annunci di
politiche climatiche meno ambiziose. E il circolo vizioso instaurato tra
politica e
mercato energetico sta portando al sostanziale
fallimento della
transizione ecologica. Gli individui sviluppano giudizi diversi sulla
credibilità del decisore politico e sull’incisività delle
politiche climatiche. Ovviamente, i giudizi dipendono dalle
informazioni a cui gli
attori economici hanno accesso:
dall’abilità d’interpretazione di ogni singolo individuo,
dall’ampiezza temporale del loro orizzonte strategico e da altri fattori
comportamentali. “La maggior parte degli attori economici”, afferma
Roberta Terranova, ricercatrice del
Rff-Cmcc (Resource for the future - Center Mediterranean Climate Changes), “considera scarsi gli eventi empirici a sostegno delle tesi sul cambiamento climatico. Le aspettative sui futuri rischi climatici e sulle politiche da adottare sono cruciali nell’orientare gli investimenti verso tecnologie alternative a quelle fossili. La scarsità dei primi influenza l’incisività delle seconde”. Secondo il modello sviluppato dai tre ricercatori sopra citati, un attore politico che annuncia obiettivi climatici lungimiranti rinegozia i costi della
decarbonizzazione ogni volta che questi sono percepiti eccessivamente alti. Prosegue
Roberta Terranova: “Sappiamo già che gli investimenti e gli impegni delle aziende si influenzano reciprocamente. La credibilità degli attori politici svolge riesce a svolgere un ruolo rilevante nella transizione ecologica delle imprese solo negli investimenti a lungo termine. Ma se un attore politico non è stato risoluto nel mantenere il suo impegno nel passato”, conclude la studiosa,
“nessuno si aspetta che lo sia in futuro”. Ovviamente, la corrispondenza tra
politiche ambientali chiare e non trattabili e
investimenti privati non è così immediata: bisogna tener conto di
resistenze e della
polarizzazione delle credenze, in grado di influenzare e di rallentare il processo di
transizione ecologica. È dunque necessario un
dibattito che coinvolga più attori possibili, affinché si possano individuare
politiche comuni di
lungo termine.