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La recente vicenda di
Alessandra Matteuzzi non è semplicemente la morte di una ragazza vittima di un lungo e violento
stalking da parte del suo ex compagno, ma è stato, soprattutto,
l’omicidio di una donna che aveva chiesto
aiuto. In un
Paese civile, che intende applicare veramente adeguate misure di
prevenzione della
violenza contro le donne, non dovrebbero essere le
vittime a dover
denunciare o
‘non denunciare’ qualcuno, bensì è lo
Stato quello tenuto a
proteggerle, riconoscendo
l’effettiva pericolosità dei loro persecutori al fine di renderli
inoffensivi. Tale
sistema ‘preventivo’ dello
Stato, purtroppo,
non sta funzionando, nonostante la recente approvazione del cosiddetto
‘Codice Rosso’. Vediamo, pertanto, di ribadire le novità introdotte da tale norma
– Legge n. 69 del 19 luglio 2019 - per cercare di comprendere, lungo la strada, per quali motivi il
meccanismo difensivo adottato
non ‘scatta’ nel momento opportuno, bensì si limita a
“chiudere la stalla quando i buoi son già fuggiti”, come recita un
antico adagio. Innanzitutto,
l’inasprimento delle pene previste per i delitti di
violenza sessuale, stalking e
maltrattamenti contro familiari e conviventi con l’inserimento di
tre nuovi reati riguardanti le aggressioni con
lesioni permanenti al viso fino a deformarne l'aspetto, le
nozze forzate e il
‘revenge porn’ - ovvero l’atto di inviare, pubblicare o diffondere
immagini a contenuto
sessualmente esplicito di una persona senza il suo
consenso - erano assolutamente
necessari e condivisibili, benché sbilanciati sul
versante ‘punitivo’ e non su quello
preventivo. Un aspetto che fa la sua apparizione solamente nell’articolo in cui si obbliga la
Polizia giudiziaria a stendere un
verbale, al fine di comunicare al
magistrato tutte le notizie di reato relative a
maltrattamenti, violenze sessuali, atti persecutori e
lesioni aggravate avvenute in famiglia o tra conviventi, chiamando in causa la vittima innanzi al
pubblico ministero entro
tre giorni dall’iscrizione della
notizia di reato. Questa parte della norma, già a suo tempo aveva destato diverse
perplessità tra gli addetti ai lavori: attendere
tre giorni dall’atto di denuncia di una donna vittima di violenza rappresenta una
‘tempistica’ pericolosa e
inutile: pericolosa, perché non è detto che la ragazza in questione possa ritenersi, in questo periodo temporale, in
condizioni di sicurezza; inutile, perché se la denunciante non si ritiene pronta o non è sicura,
non racconterà nulla o
minimizzerà molti fatti. Inoltre, in molte
piccole procure, dove il personale risulta
ridotto, imporre questi tre giorni vuol dire
perdere la ‘specializzazione’ del
Pm, con relativi rischi di
superficialità di valutazione delle fattispecie di reato. Convocare la vittima entro tre giorni risulta corretto solo in quei casi in cui viene richiesta l’applicazione della misura di
protezione e, nel caso in cui l’audizione fosse richiesta dalla donna o dai suoi legali, per evitare la
continua ripetizione del racconto, che si configura come
‘rivittimizzazione secondaria’. Ma esiste anche un problema di numeri: dall’entrata in vigore del
‘Codice Rosso’ si è avuto un forte incremento delle
denunce di violenza. Ciò ha reso la normativa uno strumento
utile, ma di
difficile gestione, perché si rischia di non riuscire a individuare i casi realmente
più gravi, poiché
tutti i ‘casi’ debbono essere, secondo la legge, trattati con
urgenza. Con i mezzi attualmente a disposizione dei
magistrati e un problema di personale
perennemente ‘sotto-organico’ diviene impossibile rispettare questa regola dei
tre giorni. E infatti, già oggi arrivano sul tavolo di ogni
pm decine di denunce al giorno, mentre la corretta gestione
dell’ascolto delle vittime richiederebbe
competenza specifica, professionalità, profonda conoscenza del fenomeno. In buona sostanza, al momento la
Legge n. 69 del 2019 risulta, nella maggior parte dei casi,
inattuata. In secondo luogo, la norma è attualmente a
“invarianza finanziaria”. Ovvero: non prevede lo stanziamento di
fondi e tutto andrebbe seguito con le risorse che ci sono. Risorse le quali, ovviamente,
non bastano: non sono previsti
nuovi stanziamenti per permettere alle procure di far fronte ai tempi e ai numeri; non ci sono contributi per
potenziare i Centri antiviolenza, né per la
formazione del personale che si ritrova a raccogliere la denuncia delle donne; viene previsto un generico
obbligo formativo per
Polizia, Carabinieri e
Polizia penitenziaria, ma nessuna indicazione di
formazione specifica viene fornita su chi dev’essere incaricato a farla e con quali denari. Insomma, la questione non è soltanto
giuridica, bensì
culturale: nelle aule di giustizia e nei vari tribunali le donne non sempre sono
credute. Al contrario, il loro racconto viene spesso
sminuito o
ridimensionato. E le loro denunce vengono prese in considerazione in maniera
ridotta. Non s’investe neanche un euro per la
formazione di Forze dell’ordine e
personale giudiziario specializzato, non prendendo in considerazione che essa sia necessaria, perché la violenza contro le donne, di cui tutti parlano, è un fenomeno che in realtà pochi
conoscono veramente. Secondo il giornalista
Vittorio Lussana, che negli anni scorsi ha seguito molte vicende legate ad alcuni
centri antiviolenza della capitale,
“per anni, in tema di femminicidio, molti negavano il fenomeno con la scusa che c’erano anche altri crimini da perseguire, che si trattava solamente di una ‘moda’ o che anche le donne commettevano reati come gli uomini. Solo di recente, si sta cominciando a comprendere veramente la gravità della questione”. Insomma, nella normativa denominata
‘Codice Rosso’ non sono previsti interventi per
accorciare i tempi del processo penale, che in media dura
sette-otto anni - talvolta anche di più - e che
giunge a sentenza definitiva almeno dopo dieci anni, ‘sfiorando’ la prescrizione. Sarebbe, invece, fondamentale mettere in campo interventi integrati e a più livelli: per esempio,
allontanando le donne dai
violenti insieme ai
figli, oppure sostenendole nei loro percorsi di
autonomia economica. Infine, la parte relativa alla
prevenzione del fenomeno e
all’educazione dei più giovani a partire dalle scuole è
totalmente mancante, poiché la norma si muove esclusivamente su un piano
‘punitivo/emergenziale’ senza affrontare il problema
alla radice. Per pura
superficialità e una totale mancanza di
coscienza sociale, che sorge solamente come
fenomeno retorico ‘tardivo’. Ovvero, come mero
rivolo di spurgo…