Claudio PascucciLa recente vicenda di Alessandra Matteuzzi non è semplicemente la morte di una ragazza vittima di un lungo e violento stalking da parte del suo ex compagno, ma è stato, soprattutto, l’omicidio di una donna che aveva chiesto aiuto. In un Paese civile, che intende applicare veramente adeguate misure di prevenzione della violenza contro le donne, non dovrebbero essere le vittime a dover denunciare o ‘non denunciare’ qualcuno, bensì è lo Stato quello tenuto a proteggerle, riconoscendo l’effettiva pericolosità dei loro persecutori al fine di renderli inoffensivi. Tale sistema ‘preventivo’ dello Stato, purtroppo, non sta funzionando, nonostante la recente approvazione del cosiddetto ‘Codice Rosso’. Vediamo, pertanto, di ribadire le novità introdotte da tale norma – Legge n. 69 del 19 luglio 2019 -  per cercare di comprendere, lungo la strada, per quali motivi il meccanismo difensivo adottato non ‘scatta’ nel momento opportuno, bensì si limita a “chiudere la stalla quando i buoi son già fuggiti”, come recita un antico adagio. Innanzitutto, l’inasprimento delle pene previste per i delitti di violenza sessuale, stalking e maltrattamenti contro familiari e conviventi con l’inserimento di tre nuovi reati riguardanti le aggressioni con lesioni permanenti al viso fino a deformarne l'aspetto, le nozze forzate e il ‘revenge porn’ - ovvero l’atto di inviare, pubblicare o diffondere immagini a contenuto sessualmente esplicito di una persona senza il suo consenso - erano assolutamente necessari e condivisibili, benché sbilanciati sul versante ‘punitivo’ e non su quello preventivo. Un aspetto che fa la sua apparizione solamente nell’articolo in cui si obbliga la Polizia giudiziaria a stendere un verbale, al fine di comunicare al magistrato tutte le notizie di reato relative a maltrattamenti, violenze sessuali, atti persecutori e lesioni aggravate avvenute in famiglia o tra conviventi, chiamando in causa la vittima innanzi al pubblico ministero entro tre giorni dall’iscrizione della notizia di reato. Questa parte della norma, già a suo tempo aveva destato diverse perplessità tra gli addetti ai lavori: attendere tre giorni dall’atto di denuncia di una donna vittima di violenza rappresenta una ‘tempistica’ pericolosa e inutile: pericolosa, perché non è detto che la ragazza in questione possa ritenersi, in questo periodo temporale, in condizioni di sicurezza; inutile, perché se la denunciante non si ritiene pronta o non è sicura, non racconterà nulla o minimizzerà molti fatti. Inoltre, in molte piccole procure, dove il personale risulta ridotto, imporre questi tre giorni vuol dire perdere la ‘specializzazione’ del Pm, con relativi rischi di superficialità di valutazione delle fattispecie di reato. Convocare la vittima entro tre giorni risulta corretto solo in quei casi in cui viene richiesta l’applicazione della misura di protezione e, nel caso in cui l’audizione fosse richiesta dalla donna o dai suoi legali, per evitare la continua ripetizione del racconto, che si configura come ‘rivittimizzazione secondaria’. Ma esiste anche un problema di numeri: dall’entrata in vigore del ‘Codice Rosso’ si è avuto un forte incremento delle denunce di violenza. Ciò ha reso la normativa uno strumento utile, ma di difficile gestione, perché si rischia di non riuscire a individuare i casi realmente più gravi, poiché tutti i ‘casi’ debbono essere, secondo la legge, trattati con urgenza. Con i mezzi attualmente a disposizione dei magistrati e un problema di personale perennemente ‘sotto-organico’ diviene impossibile rispettare questa regola dei tre giorni. E infatti, già oggi arrivano sul tavolo di ogni pm decine di denunce al giorno, mentre la corretta gestione dell’ascolto delle vittime richiederebbe competenza specifica, professionalità, profonda conoscenza del fenomeno. In buona sostanza, al momento la Legge n. 69 del 2019 risulta, nella maggior parte dei casi, inattuata. In secondo luogo, la norma è attualmente a “invarianza finanziaria”. Ovvero: non prevede lo stanziamento di fondi e tutto andrebbe seguito con le risorse che ci sono. Risorse le quali, ovviamente, non bastano: non sono previsti nuovi stanziamenti per permettere alle procure di far fronte ai tempi e ai numeri; non ci sono contributi per potenziare i Centri antiviolenza, né per la formazione del personale che si ritrova a raccogliere la denuncia delle donne; viene previsto un generico obbligo formativo per Polizia, Carabinieri e Polizia penitenziaria, ma nessuna indicazione di formazione specifica viene fornita su chi dev’essere incaricato a farla e con quali denari. Insomma, la questione non è soltanto giuridica, bensì culturale: nelle aule di giustizia e nei vari tribunali le donne non sempre sono credute. Al contrario, il loro racconto viene spesso sminuito o ridimensionato. E le loro denunce vengono prese in considerazione in maniera ridotta. Non s’investe neanche un euro per la formazione di Forze dell’ordine e personale giudiziario specializzato, non prendendo in considerazione che essa sia necessaria, perché la violenza contro le donne, di cui tutti parlano, è un fenomeno che in realtà pochi conoscono veramente. Secondo il giornalista Vittorio Lussana, che negli anni scorsi ha seguito molte vicende legate ad alcuni centri antiviolenza della capitale, “per anni, in tema di femminicidio, molti negavano il fenomeno con la scusa che c’erano anche altri crimini da perseguire, che si trattava solamente di una ‘moda’ o che anche le donne commettevano reati come gli uomini. Solo di recente, si sta cominciando a comprendere veramente la gravità della questione”. Insomma, nella normativa denominata ‘Codice Rosso’ non sono previsti interventi per accorciare i tempi del processo penale, che in media dura sette-otto anni - talvolta anche di più - e che giunge a sentenza definitiva almeno dopo dieci anni, ‘sfiorando’ la prescrizione. Sarebbe, invece, fondamentale mettere in campo interventi integrati e a più livelli: per esempio, allontanando le donne dai violenti insieme ai figli, oppure sostenendole nei loro percorsi di autonomia economica. Infine, la parte relativa alla prevenzione del fenomeno e all’educazione dei più giovani a partire dalle scuole è totalmente mancante, poiché la norma si muove esclusivamente su un piano ‘punitivo/emergenziale’ senza affrontare il problema alla radice. Per pura superficialità e una totale mancanza di coscienza sociale, che sorge solamente come fenomeno retorico ‘tardivo’. Ovvero, come mero rivolo di spurgo…





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Franco Bradamante - Trieste - Mail - mercoledi 31 agosto 2022 18.9
Quanto scritto nell'articolo e' , purtroppo, pienamente condivisibile. Si puo' solo aggiungere che comportamento e successive dichiarazioni del PM sono vergognose e inaccettabili, e spero solamente che l'ispezione promessa dal ministro Cartabia porti a dei risultati. In ogni caso, non e' accettabile che una donna, che riesce a superare i traumi subiti e la vergogna che necessariamente prova per la sua situazione e trova la forza di denunciarli, non sia creduta e vengano disposte ricerche di testimoni....lasciandola
alla merce' del suo aguzzino e quindi essendo coresponsabili della sua morte !!!


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