Emanuele Cilenti è un autore, poeta, artista e scrittore messinese molto conosciuto, poiché tradotto anche all’estero. Egli ha pubblicato, proprio in questi giorni, il suo ultimo libro, il numero quattordici di una lunga serie di un interessante percorso iniziato nel
2010. Si tratta di
un’antologia di racconti dal titolo:
‘Le mie cicatrici’ (Gcl edizioni). Un lavoro profondamente riflessivo, autentico, che sprizza vita da ogni singola goccia d’inchiostro. C’è davvero di tutto all’interno di quest’ultima opera di
Cilenti: molte
tematiche sociali, affrontate in maniera diretta, come
l’Olocausto, un
padre disperato che tenta il suicidio,
l’alluvione del
1° ottobre 2009 a
Messina, i
femminicidi, i
migranti morti in mare. Realtà molto
'crude', descritte e approfondite senza inutili giri di parole, con la voglia di mettersi a nudo e fare luce sui lati oscuri e più fragili dell’umanità e di tutta la società, di ieri e di oggi. Non è un’opera di
sociologia o
filosofia, ma si avvicina parecchio: un libro impreziosito anche dallo scrittore italiano
Giovanni Fanelli, che ha aggiunto, con la sua sagacia, un tocco di vita e riflessione nell’interessante, bella e meticolosa
prefazione, in cui riesce a cogliere tutte le sfaccettature e le sfumature che colorano e costituiscono l’intero libro. Abbiamo perciò deciso di sentire
Emanuele Cilenti, al fine di approfondire insieme a lui le urgenze e i motivi che lo hanno mosso in questa sua nuova creazione.
Emanuele Cilenti, come è nata l’esigenza di scrivere questa sua nuova opera, ‘Le mie cicatrici’, edita da Gcl? Ha voluto rianalizzare alcune fasi difficili della sua vita? E quali suggerimenti ha colto in questa riflessione?“L'esigenza è nata vivendo determinati momenti della vita che, inevitabilmente, ti lacerano come una ferita. Ecco perché ho intitolato questo nuovo volume, ‘Le mie cicatrici’: in questo modo ho potuto rianalizzare alcune fasi della mia vita lasciate, a volte, in sospeso. E questa riflessione mi ha portato a vedere i problemi con occhi e prospettive completamente diverse”.Le cicatrici restano, questo è vero, però insegnano molto: cosa ritiene di aver capito della sua interiorità di uomo?“Le mie cicatrici mi hanno insegnato a non dare nulla per scontato, nemmeno la vita. Ogni goccia di sangue o di sudore va pesata, centellinata: bisogna riflettere prima di agire, dare valore e priorità alle cose o alle persone che meritano e che hanno maggiormente bisogno. E’ nelle difficoltà che si vede il vero volto e il valore di ogni essere umano”.Leggendola, si ha l’impressione di avere a che fare con due autori: quello intimista e quello che, invece, soffre anche per i tanti momenti difficili del nostro Paese e, persino, di fatti storici del passato: può aiutarci a fare una sintesi tra queste sue diverse ‘anime’?“Ogni uomo ha una missione ben precisa: lasciare il mondo meglio di come lo ha trovato. Ecco perché soffro tantissimo nell’osservare la vita che mi circonda e i fatti che accadono. Ma per portare a termine questa missione, c’è bisogno di scavare dentro se stessi, al fine di migliorare noi in primis, per poi cercare di migliorare gli altri”.
Ma questa ‘self analysis’ che lei ha voluto fare con se stesso, la consiglierebbe anche ai suoi lettori? Non teme che, per quanto ammirevole, questo metodo vada assai poco di moda, soprattutto in Italia?“Io consiglio a tutti, ogni giorno, di riflettere sulla propria e altrui esistenza, di scavare dentro se stessi, di lavorare su se stessi, allontanando il ‘marcio’ e sconfiggendo i propri ‘demoni’: solo allora si è pronti per migliorare il nostro pianeta. Se sono un terreno arido, da me non potrà crescere nessun frutto buono. In Italia, purtroppo, specie da qualche decennio a questa parte, le cose buone e positive non vanno mai di moda. L'italiano è affetto da una strana ‘sindrome di Stoccolma’, riluttante vero la sua Storia e le proprie radici: un ‘cane’ che si morde continuamente la coda. Di questo passo, la situazione non potrà che peggiorare, perché manca quell’umiltà che conduce a prendere coscienza dei nostri difetti e dei nostri limiti, a riflettere sugli errori. Li commettiamo sempre e non impariamo mai niente, neanche dalle nostre cicatrici”.
Il nostro Paese sembra continuamente 'auto-avvitarsi' intorno ai suoi problemi di sempre: da cosa deriva questo nostro ‘immobilismo’ culturale? Siamo una società troppo conservatrice, secondo lei?“Siamo tante cose che ‘cozzano’ tra loro. Lo vediamo anche dai tanti governi che si succedono o si sono succeduti: troppo divario tra nord e sud, troppe discriminazioni. Riusciamo a essere uniti solo davanti a uno schermo, durante una partita di calcio. Troppo poco: non basta questo a definirci italiani o per sentirsi fieri e orgogliosi di esserlo. Troppe persone remano ‘contro’, persino contro i propri interessi: un egoismo che porterà la 'nave' alla deriva. Se non cambieremo tutti quanti ‘rotta’, ci troveremo a contare i ‘brandelli’ di un Paese che ci resterà tra le mani, cercando invano di incollare dei ‘pezzi’ che non si assemblano più. Il disastro è vicino. E questo non è pessimismo, bensì la realtà”.