Emanuela Colatosti
Nel dicembre scorso, il parlamento italiano ha detto ‘No’ al ‘greenwashing’. Con un emendamento, infatti, il legislatore ha escluso la possibilità di finanziare progetti di ‘stoccaggio’ della Co2 con i fondi del ‘Piano nazionale di ripresa e resilienza’, poiché tali iniziative avrebbero avvantaggiato le fonti fossili di energia. Tuttavia, la 'partita' sulle modalità della transizione ecologica è da considerarsi ancora aperta. Oggi, a fine gennaio 2022, la Commissione europea non dispone di una linea chiara sulla ‘Tassonomia Verde EU’ (classificazione di attività industriali considerate sostenibili, ndr). La Francia, l'Italia e i Paesi dell’est europeo vorrebbero che nucleare e metano siano considerati ‘vettori verdi’ di produzione di energia elettrica. Se passerà questa linea, il ‘Ravenna Ccs Hub’ potrebbe passare dalla fase progettuale a quella operativa con fondi europei. Ma come funziona l'operazione di stoccaggio di Co2? La piattaforma ‘off shore’ di Porto Corsini (Ra) potrebbe trasformarsi nel più grande impianto di stoccaggio di Co2 al mondo. Così, l’utilizzo di metano proveniente dall’Adriatico, uscito dalla ‘porta’ sulla base di ‘Agenda 2030’ della Comunità europea, rischia di rientrare dalla 'finestra' se la ‘Tassonomia Verde EU’ verrà modificata. Ecco perché il 'cane a sei zampe', cioè l’Eni (Ente nazionale idrocarburi, ndr) è tornato alla carica: se l’impianto verrà rinnovato in tal senso, le emissioni degli stabilimenti della frazione industriale di Casalborsetti, centrali elettriche e industriali composte prevalentemente da anidride carbonica e azoto, verranno ‘spacchettate’ e la Co2 verrà veicolata verso la trappola geologica sottostante le 'off shore' di Porto Corsini.

La dismissione della ‘off shore’ ostacolata tutti i modi
La conversione delle piattaforme sul mare da cui si estraeva gas metano, non è solo una strategia per ammortizzare gli elevati costi di chiusura. Ragion per cui, negli ultimi anni, l’Ente nazionale idrocarburi ha avanzato diverse altre proposte di riutilizzo degli impianti, piuttosto che dismettere definitivamente Porto Corsini, tra cui l’impianto di pale eoliche sulle stesse. Tuttavia, la conversione dell’off shore di Ravenna nell’Hub Ravenna Ccs è un grave errore, almeno per tre motivi.

1) La Ccs (Cattura e sequestro del carbonio, ndr) non porta nessun beneficio economico, né ambientale
Anzitutto, la Co2 è la molecola più stabile tra i composti del carbonio, per cui la sua scissione da altri gas è possibile solo al prezzo di usare molta energia. Eni punta sui liquidi ionici, meno impattanti rispetto all’utilizzo di ‘ammine’, ma comunque inquinanti. Prendiamo come esempio l’esperienza di Paesi che negli anni passati hanno chiuso centrali di stoccaggio e riutilizzo di Co2, perché non convenienti, né dal punto di vista ambientale, né dal punto di vista economico. Costruite alla fine degli anni ’90 del secolo scorso, in un periodo in cui la Ccs era considerata una promessa valida, 13 centrali australiane e la ‘Petra Nova’ del Texas sono state dismesse perché del 90% di carbonio prodotto dagli stabilimenti energetici adiacenti riuscivano a stoccarne circa il 7%: un magro risultato per investimenti che hanno superato il miliardo per ciascun impianto. L’unico ‘beneficio’ riscontrato dalle aziende Ccs già chiuse è la possibilità di continuare a estrarre gas da giacimenti ormai semivuoti. Infatti, grazie alla pressione della Co2 infiltrata nella sede da cui veniva estratto il gas naturale, è possibile recuperare ciò che resta nel giacimento. Per questo, Eni alterna in modo sintomatologico la sigla Ccs (Cattura e sequestro del carbonio, ribadiamo) a Ccus (Cattura, sequestro e utilizzo del carbonio, ndr), riferendosi sempre allo stesso impianto di Ravenna.

2) La truffa dell’idrogeno blu
Inoltre, il tipo di impiantistica che Eni andrebbe a installare sulla ‘off shore’ di Porto Corsini permetterebbe il riutilizzo di Co2 per la sintesi dell’idrogeno ‘blu’ – contraddistinto da questo colore perché non è prodotto a partire da fonti rinnovabili, ma da gas naturale e stoccaggio di Co2. Ad oggi, la tecnologia che abbiamo a disposizione per l’idrogeno ‘verde’ è ancora in fase di sperimentazione, nonché costosa dal punto di vista economico. Tuttavia, secondo un report dell’International Renewable Energy Agency, l’idrogeno prodotto con elettricità rinnovabile potrebbe competere economicamente già entro il 2030. Pertanto, aumentando la produzione di energie rinnovabili si consentirebbe all’idrogeno verde di diventare una reale soluzione economica già nel breve periodo. Per l’idrogeno blu, invece, abbiamo più dati a disposizione e non sono incoraggianti: il rilascio della molecola di idrogeno si ottiene trattando il gas metano con vapore ad alta temperatura e pressione, consumando quindi molta energia. Un meccanismo che dovrebbe essere compensato dalla cattura e stoccaggio di Co2 emessa: operazione risultata, finora, più costosa che riuscita.  

3) L’economia di prossimità come alternativa allo stoccaggio

Cattura e stoccaggio di Co2 sono davvero un compromesso inevitabile, per compensare le emissioni ‘hard to abate’ (difficili da abbattere, ndr)? Possono sembrare l’unica possibilità in vista degli obiettivi ‘Net zero’ del 2050, che significherebbe non cambiare nulla del sistema produttivo. Infatti, se Eni riuscisse a portare a casa l’obiettivo di convertire l’off shore di Porto Corsini in un Ccs, si darebbe l’avvio alla distribuzione centralizzata di energia elettrica a partire dall’idrogeno blu. Il ‘cane a sei zampe’ potrebbe effettuare lo stesso servizio usando come vettore l’idrogeno verde, ma sempre a causa dei costi elevati e della conseguente bassa domanda da parte degli utenti, questa materia prima non risulta, ancora, sufficientemente competitiva sul mercato, perlomeno se si resta ancorati alla visione centralizzata della distribuzione di energia, quella del 'modello Eni'. Secondo il dottor Leonardo Setti, ricercatore all’Università di Bologna, appena le condizioni saranno economicamente favorevoli per transitare al verde, l’Ente nazionale idrocarburi avrà già a disposizione una rete di distribuzione centralizzata per l'energia green. Secondo il ricercatore, questa strategia richiede un uso del vettore e un consumo di suolo per l’impiantistica tre volte superiore rispetto a quella di un’economia circolare di prossimità. Trasformare ciascun utente in un ‘produttore di energia’ sarebbe un passo decisivo verso la conversione ecologica, dal momento che le emissioni totali di Co2 sono composte per due terzi dai consumi domestici. Avvicinare al consumatore il luogo di produzione energetica con il vettore fotovoltaico, riduce lo spreco di un bene come l’acqua anche nel settore dei trasporti privati a idrogeno. In ogni caso, secondo Leonardo Setti è auspicabile “limitare l’uso di motori a idrogeno alla grande produzione industriale e ai trasporti su nave e aereo”.





Lascia il tuo commento

Nessun commento presente in archivio