Sono trascorsi due anni dalla
risoluzione dell’Unione europea che sancisce, sul piano storico e ideologico, la sostanziale
equivalenza tra
nazismo e
comunismo. Una decisione totalmente priva di senso: se anche volessimo ignorare l’apporto positivo dei
Partiti comunisti dell’Europa occidentale nel miglioramento delle condizioni socioeconomiche degli strati sociali più disagiati, non bisognerebbe mai dimenticare almeno altri
3 motivi per i quali
l’equiparazione tra
comunismo e
nazismo rappresenta
un’ingiustizia, oltre che una
grossolana inesattezza: a) il ruolo cruciale dei comunisti nella
resistenza al
fascismo e al
nazismo; b) la consapevolezza che, senza i
milioni di morti sovietici, la
seconda guerra mondiale avrebbe avuto un esito ben diverso;
c) il razzismo ideologico del
nazismo e, dal
1938 in poi, anche del
fascismo, rispetto
all’ideale sociologico di eliminazione delle classi teorizzata, invece, dal
‘marxismo’. A circa
150 anni dalla nascita, in diverse parti del mondo il comunismo si è realizzato in forme molto differenti.
Fascismo e
nazismo, viceversa, sono state
dittature militari legate a un singolo individuo:
Mussolini, Hitler, Franco, ma anche
Pinochet in
America Latina. Al contrario, tra
comunismo sovietico, jugoslavo, cubano e
cinese, che a stento può essere definito comunismo dal punto di vista macroeconomico, vi sono
macroscopiche differenze. Ancora oggi,
‘trotskysti’ e
‘stalinisti’ si accapigliano – neanche troppo civilmente – sulla corretta interpretazione della
teoria ‘marxiana’. E non potrebbero essere più diversi,
nazismo e
comunismo, nella misura in cui quest’ultimo, in occidente, ha dimostrato di saper giungere a
compromessi con le
istituzioni democratiche, cosa che il
nazismo e il
fascismo hanno invece praticato unicamente per motivi
tattici, speculativi o meramente
strumentali. Per tali ragioni, ciò che nella tradizione si rifà tanto al
socialismo, quanto al
comunismo, in occidente non viene guardato con lo stesso identico sgomento che investe
svastiche e
croci celtiche. Lo scorso mese gennaio di questo
2021, il
Partito comunista italiano avrebbe spento
100 candeline: come non ricollegare tale ricorrenza con la
risoluzione europea che tanto ha fatto discutere? A partire dall’armistizio del
8 settembre 1943, fino all’istituzione della
‘Giornata del Ricordo’ nel primo decennio degli
anni 2000, si è voluto trovare nelle
foibe un corrispettivo della
Shoah. Persino in
Germania, quando si consumava la fase finale della guerra fredda, tornò in auge una
narrazione vittimistica dei fatti avvenuti al
confine orientale (polacco e cecoslovacco), secondo la quale
“ciò che i tedeschi avevano fatto agli ebrei, lo hanno in egual misura subito dai comunisti”. Con la caduta del
blocco sovietico, sia da parte della
Germania, sia
dell’Italia sono state proposte alcune revisioni dei confini che, per quanto riguarda la nostra penisola, avrebbero dovuto comprendere anche
Pola e
Fiume. Fu proprio
Gianfranco Fini, allora segretario del
Movimento sociale italiano, a farsi portavoce di questa istanza, espressa con la liberazione simbolica di
350 bottiglie a largo di
Trieste, promettendo la riannessione
dell’Istria e della
Dalmazia. Ma come ama sottolineare il professor
Alessandro Barbero, tra
Storia e
memoria c’è una
differenza sostanziale. Per quel che riguarda la
‘Giornata nazionale del Ricordo’, ovvero il
10 febbraio, essa viene vissuta sempre e solo dal lato della
memoria, ignorando la vasta produzione storiografica che vi è stata sull’argomento. Produzione la quale, negli anni, ha
'smontato' diverse
inesattezze nella narrazione che delle
foibe stesse viene fatta: dai numeri degli esuli, scesi da
350 mila a circa
150 mila secondo lo studioso
Sandi Volk, al numero degli
'infoibati', da
10 mila a poco più di
2 mila, che impallidiscono di fronte alle
100 mila morti causate dagli
internamenti italiani; dall’utilizzo strumentale del
materiale filmico e
fotografico - spesso relativo a fatti precedenti rispetto a quelli narrati - alla costruzione del
monumento nazionale di
Basovizza (Ts) sopra un vecchio pozzo minerario della
Skoda, dal quale vennero estratti i cadaveri di un gran numero di
militari tedeschi, un
civile istriano e circa una
quarantina di
carcasse di cavalli. I ricordi hanno spesso un valore diverso. Pertanto, essi debbono giocare un ruolo ben distinto nella
commemorazione dei fatti: nessuno, oggi, avrebbe il coraggio di guardare in faccia un
esule sopravvissuto al
fronte orientale, per dirgli che la sua sofferenza vale di meno rispetto a quella degli
ebrei sopravvissuti ai campi di sterminio. Ma non è questo il modo in cui si fa
storiografia: ponendo l’accento semplicemente sulla
cattiveria umana, si rischia di perdere di vista i
rapporti di forza che hanno generato le catastrofi. E dopo l’intensa ricerca storica, che ha portato alla pubblicazione on line delle
‘Relazioni italo-slovene 1880-1956’, si dovrebbe essere più equilibrati nel ricordare perché il nostro
confine nord-orientale si sia macchiato anche del sangue di tanti civili italiani. Negare l’unicità dei
crimini nazisti e
fascisti per equipararli alle rappresaglie di popoli costretti al
giogo italo-tedesco per più di
20 anni, significa correre il rischio di azzerare i progressi che dalla
caduta dei totalitarismi sono stati fatti. Tra il
XIX e il
XX secolo, anche i regimi
‘cosiddetti’ democratici si sono macchiati di crimini atroci - dal
razzismo al
colonialismo imperialista - che oggi guardiamo con sgomento. Eppure, solo chi utilizza il
revisionismo storico in maniera
puramente strumentale e
faziosa potrebbe affermare che vivere in uno
Stato di diritto, piuttosto che in una
dittatura, sia la
stessa cosa.