Emanuela ColatostiSono trascorsi due anni dalla risoluzione dell’Unione europea che sancisce, sul piano storico e ideologico, la sostanziale equivalenza tra nazismo e comunismo. Una decisione totalmente priva di senso: se anche volessimo ignorare l’apporto positivo dei Partiti comunisti dell’Europa occidentale nel miglioramento delle condizioni socioeconomiche degli strati sociali più disagiati, non bisognerebbe mai dimenticare almeno altri 3 motivi per i quali l’equiparazione tra comunismo e nazismo rappresenta un’ingiustizia, oltre che una grossolana inesattezza: a) il ruolo cruciale dei comunisti nella resistenza al fascismo e al nazismo; b) la consapevolezza che, senza i milioni di morti sovietici, la seconda guerra mondiale avrebbe avuto un esito ben diverso; c) il razzismo ideologico del nazismo e, dal 1938 in poi, anche del fascismo, rispetto all’ideale sociologico di eliminazione delle classi teorizzata, invece, dal ‘marxismo’. A circa 150 anni dalla nascita, in diverse parti del mondo il comunismo si è realizzato in forme molto differenti. Fascismo e nazismo, viceversa, sono state dittature militari legate a un singolo individuo: Mussolini, Hitler, Franco, ma anche Pinochet in America Latina. Al contrario, tra comunismo sovietico, jugoslavo, cubano e cinese, che a stento può essere definito comunismo dal punto di vista macroeconomico, vi sono macroscopiche differenze. Ancora oggi, ‘trotskysti’ e ‘stalinisti’ si accapigliano – neanche troppo civilmente – sulla corretta interpretazione della teoria ‘marxiana’. E non potrebbero essere più diversi, nazismo e comunismo, nella misura in cui quest’ultimo, in occidente, ha dimostrato di saper giungere a compromessi con le istituzioni democratiche, cosa che il nazismo e il fascismo hanno invece praticato unicamente per motivi tattici, speculativi o meramente strumentali. Per tali ragioni, ciò che nella tradizione si rifà tanto al socialismo, quanto al comunismo, in occidente non viene guardato con lo stesso identico sgomento che investe svastiche e croci celtiche. Lo scorso mese gennaio di questo 2021, il Partito comunista italiano avrebbe spento 100 candeline: come non ricollegare tale ricorrenza con la risoluzione europea che tanto ha fatto discutere? A partire dall’armistizio del 8 settembre 1943, fino all’istituzione della ‘Giornata del Ricordo’ nel primo decennio degli anni 2000, si è voluto trovare nelle foibe un corrispettivo della Shoah. Persino in Germania, quando si consumava la fase finale della guerra fredda, tornò in auge una narrazione vittimistica dei fatti avvenuti al confine orientale (polacco e cecoslovacco), secondo la quale “ciò che i tedeschi avevano fatto agli ebrei, lo hanno in egual misura subito dai comunisti”. Con la caduta del blocco sovietico, sia da parte della Germania, sia dell’Italia sono state proposte alcune revisioni dei confini che, per quanto riguarda la nostra penisola, avrebbero dovuto comprendere anche Pola e Fiume. Fu proprio Gianfranco Fini, allora segretario del Movimento sociale italiano, a farsi portavoce di questa istanza, espressa con la liberazione simbolica di 350 bottiglie a largo di Trieste, promettendo la riannessione dell’Istria e della Dalmazia. Ma come ama sottolineare il professor Alessandro Barbero, tra Storia e memoria c’è una differenza sostanziale. Per quel che riguarda la ‘Giornata nazionale del Ricordo’, ovvero il 10 febbraio, essa viene vissuta sempre e solo dal lato della memoria, ignorando la vasta produzione storiografica che vi è stata sull’argomento. Produzione la quale, negli anni, ha 'smontato' diverse inesattezze nella narrazione che delle foibe stesse viene fatta: dai numeri degli esuli, scesi da 350 mila a circa 150 mila secondo lo studioso Sandi Volk, al numero degli 'infoibati', da 10 mila a poco più di 2 mila, che impallidiscono di fronte alle 100 mila morti causate dagli internamenti italiani; dall’utilizzo strumentale del materiale filmico e fotografico - spesso relativo a fatti precedenti rispetto a quelli narrati - alla costruzione del monumento nazionale di Basovizza (Ts) sopra un vecchio pozzo minerario della Skoda, dal quale vennero estratti i cadaveri di un gran numero di militari tedeschi, un civile istriano e circa una quarantina di carcasse di cavalli. I ricordi hanno spesso un valore diverso. Pertanto, essi debbono giocare un ruolo ben distinto nella commemorazione dei fatti: nessuno, oggi, avrebbe il coraggio di guardare in faccia un esule sopravvissuto al fronte orientale, per dirgli che la sua sofferenza vale di meno rispetto a quella degli ebrei sopravvissuti ai campi di sterminio. Ma non è questo il modo in cui si fa storiografia: ponendo l’accento semplicemente sulla cattiveria umana, si rischia di perdere di vista i rapporti di forza che hanno generato le catastrofi. E dopo l’intensa ricerca storica, che ha portato alla pubblicazione on line delle ‘Relazioni italo-slovene 1880-1956’, si dovrebbe essere più equilibrati nel ricordare perché il nostro confine nord-orientale si sia macchiato anche del sangue di tanti civili italiani. Negare l’unicità dei crimini nazisti e fascisti per equipararli alle rappresaglie di popoli costretti al giogo italo-tedesco per più di 20 anni, significa correre il rischio di azzerare i progressi che dalla caduta dei totalitarismi sono stati fatti. Tra il XIX e il XX secolo, anche i regimi ‘cosiddetti’ democratici si sono macchiati di crimini atroci - dal razzismo al colonialismo imperialista - che oggi guardiamo con sgomento. Eppure, solo chi utilizza il revisionismo storico in maniera puramente strumentale e faziosa potrebbe affermare che vivere in uno Stato di diritto, piuttosto che in una dittatura, sia la stessa cosa.





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francesco luiso - lucca - Mail - domenica 21 febbraio 2021 10.23
Di buone intenzioni è lastricata la via dell'inferno. Le malefatte del comunismo non sono inferiori.


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