Joe Biden e
Kamala Harris si sono insediati definitivamente alla
Casa Bianca. Al crepuscolo della mistica sacralità del potere, permane l’alone di un certo
spiritualismo sul
rito che ha accompagnato la ratifica di quella che, in ultima analisi, altro non è che un mero
‘passaggio’ burocratico. Con le cerimonie, in particolare con quella
d’insediamento, si dà in generale ai popoli di tutti gli
Stati democratici la possibilità di compartecipare emotivamente agli effetti dell’esito degli
scrutini elettorali. Gli
Stati Uniti sono una nazione in cui l’operazione burocratica per eccellenza è estremamente
ritualizzata, per coinvolgere la partecipazione delle masse dei cittadini in misura anche maggiore rispetto agli altri Paesi. E se c’è una cosa che ogni volta rianima quell’invenzione, tutta romantica, che è il
popolo, l’esecuzione dell’inno nazionale non può che accompagnare quasi ogni evento istituzionale.
Lady Gaga, stella della musica, ha accettato con entusiasmo e commozione l’onere di cantare, a
Washington, ‘Star Spangled Banner’. Come capitò con
Beyonce e
Mariah Carey, il brano passerà alla Storia. L’inno americano non ha la
raffinatezza lirica del nostro, essendo stato scritto da un
dilettante nella poesia. Francis Scott Key, l’autore, era infatti un avvocato, a differenza di
Goffredo Mameli, che invece era tecnicamente un
professionista del verso poetico metaforico. La musica del
‘Canto degli italiani’, invece, venne ideata da
Michele Novaro. Inizialmente screditato da
Giuseppe Mazzini, che lo considerava poco marziale e assai poco solenne, fu successivamente
‘benedetto’ da
Giuseppe Verdi. La fortuna
dell’inno ‘nostrano’ sta nell’orecchiabile rigidità del
quattro quarti, su cui si spalmano intuitivamente i
'senari' dei versi. Ma in questa nostra
‘marcetta’ c’è la
‘magia’ incomparabile della nostra
allegria, nonostante i tanti
guai. Un
magia che anche
‘Star Spangled Banner’ riesce a creare ogni volta che risuona nell’aria, come fosse in grado di
aggiungere sostanze stupefacenti all’ossigeno inalato dagli ascoltatori: l’origine
popolare del motivo che sottende alle parole di
Francis Scott Key. Direttamente da un circolo di musica di
Londra del
XVIII secolo, la melodia dell’inno statunitense è firmata
dall’Anacreontic Society della capitale di quello che, allora, era il potentissimo
Impero britannico. Il riferimento al poeta della
Grecia arcaica,
Anacreonte, è indicativo per i temi musicati dal club della metropoli inglese, dominati da
leggerezza ed
edonismo. Il poeta originario della
Tracia, tra
giambi ed
elegie, cercava di evadere dal clima politico molto teso della
Grecia nella metà del
VI secolo a. C., alle prese con lo
strapotere persiano. Tenendo conto che l’anno di composizione di
‘The Anacreon Song’ è il
1776, unico cedimento
dell’imperialismo britannico di fronte ai neonati
Stati Uniti d’America, si spiega perché
Anacreonte fosse tornato di moda nell’alta società londinese. Il motivetto, accattivante e ipnotico, della
ballata, ulteriormente riadattata e rimaneggiata nel
‘Nuovo Mondo’, acquista una
solennità sentimentale attraverso un cambio di ritmo: una curiosa coincidenza, che consente l’incrocio nella
‘Grande Storia’ tra la poesia di
Francis Scott Key, la
ballata ‘rococò’ d’ispirazione
anacreontica e
l’individualismo tipico della
società statunitense. Se c’è un inno nazionale che arriva alle
corde emotive di un ascoltatore qualunque quando viene cantato da
una sola persona, piuttosto che da un
coro, questo è proprio
‘Star Spangled Banner’. E la
dimensione ‘corale’? Non pervenuta.