Una delle prime notizie che rimbalzavano sui quotidiani di tutto il mondo all'inizio del
2020 riguardava l'implacabilità degli
incendi in
Australia. In seguito, l'umanità è rimasta intrappolata nell'epidemia da
Covid 19, la cui diffusione è stata ampiamente facilitata dalla
globalizzazione. L'unica cinta di contenimento del contagio è stata la rapidità nel sollevare
misure di sicurezza. Nell'arco di un mese, tra marzo e aprile, più di
un miliardo di persone erano in
quarantena. Il
'lockdown' aveva come fine quello di preservare il numero maggiore di vite possibili e di non far collassare i
sistemi sanitari di molti Paesi. Come effetto secondario e non desiderato, la
Terra ha ricominciato a
respirare. I dati parlano chiaro: in tre mesi, le
emissioni nocive sono calate
dell'8% netto. Le foto satellitari della
Cina hanno fatto il giro del
web in pochissimo tempo. Finalmente, il Paese della
Grande Muraglia, visibile fin dalla
Luna, era finalmente scoperto dalla spessa nube tossica delle industrie. Nonostante ciò, non è affatto necessario dare ragione ai
'neo-malthusiani'. Secondo le teorie di
Serge Latouche, uno dei più arditi sostenitori della
decrescita felice, l'industria è, per definizione,
consumistica. Deduzione logica è la patente incompatibilità del
progresso tecnologico con
l'ambientalismo. Ma è un
falso problema, quello evidenziato dai fautori
dell'anti-industrialismo: gli opposti dialettici a confronto non sono
'sopravvivenza dell'ecosistema' da un lato e
'collasso dell'economia' dall'altro. Essendo solo
100 le aziende di tutto il mondo che hanno contribuito al
75% dell'inquinamento terracqueo, le responsabilità sono abbastanza
limitate. Possiamo anche considerare che
l'1% della popolazione mondiale consuma
175 volte l'ultimo
10%. Ma schierare i
consumi contro
l'inquinamento industriale significa entrare in una diatriba che non risolve il problema. Smettiamola di chiederci quanto si produca e in quanti siamo a consumare. Chiediamoci, piuttosto,
'come' si produce. La
crociata contro le
industrie e il
progresso sarebbe di ostacolo a una soddisfazione in
'chiave-ecologica' del fabbisogno dell'intera umanità. La ricerca, nell'ambito
biochimico, ha davvero le potenzialità per risolvere il problema della
fame nel mondo e mantenere
l'efficienza senza rinunciare ad annullare
l'impatto ambientale. Bisogna rileggere con attenzione le parole di
Friedrich Engels di risposta a
Thomas R. Malthus: "Il limite della produzione non viene determinato dal numero degli stomaci affamati, ma piuttosto dal numero dei borsellini dei compratori in grado di pagare". Per l'economista inglese, il problema era la
sovrappopolazione, mentre per l'autore del
Manifesto del Partito comunista, la mancanza era da osservare dal lato della
capacità di acquisto. In qualche modo, scegliere una politica ecnomica che vada verso la
'decrescita felice' significherebbe rinunciare per sempre a realizzare il sogno di sapere
ogni bambino del mondo sfamato. Al tempo stesso, non è giusto accontentarsi di essere semplicemente
'nutriti'. Il
'neo-malthusianesimo' è un'ideologia
inconsapevolmente classista, che sottrarrebbe ai
Paesi meno ricchi e a quelli molto
poveri la possibilità di migliorare le proprie
condizioni socioeconomiche con lo
'spauracchio' della
fine del mondo. Il limite sottile tra la sfera dei
bisogni e quello dei
desideri deve poter diventare compatibile con il rispetto di
Madre Terra. Secondo un recente studio della
Energy Transitions Commission, sarebbe sufficiente un investimento dello
0,5% del
Pil mondiale per
'decarbonizzare' interamente il
sistema energetico, quello dei
trasporti su gomma, sia aereo, sia navale,
riconvertire la produzione di
plastica e
cemento. Ormai,
l'energia 'verde' riesce a essere produttiva tanto quanto quella proveniente da
fossili e
nucleare (fonte Sorgenia, ndr). Se economicamente non è sostenibile un altro
'lockdown', resta il dubbio sulla tollerabilità della decisioni politiche in campo
ambientale. La maggior parte degli Stati nazionali è pronta a scaricare sulla società, attraverso la
'carbon tax', i costi economici ed esistenziali di un inquinamento di cui il cittadino medio non è neanche la
'ciliegina sulla torta'. Ecco, allora, che il grido:
"How dare you?" (Come osate? ndr) di
Greta Thunberg contro le autorità mondiali risulta ancor più comprensibile. Ma se basta così poco, perché
non insistere? Perché non
continuare a lanciarlo?