Emanuela ColatostiLa genitorialità è un aspetto molto serio della vita delle donne. Ed è curioso come, all'interno del calendario 'gregoriano', sia stato intuitivamente semplice individuare il giorno della 'Festa del papà'. Immediato e coerente il legame della ricorrenza con San Giuseppe. Non c'è univocità, invece, per la venerazione di Maria. Ella, infatti, sembra dotata di ipostasi: c'è una Madonna per ogni luogo o bisogno. Anche se, per certi aspetti, tali tradizioni sembrano rispecchiare la capacità delle mamme di avere sempre più di un rimedio per ogni piccolo dramma quotidiano. L'8 maggio, o la seconda domenica di maggio in altri Paesi, così come l'8 marzo o il giorno dell'equinozio di primavera, vengono utilizzati, almeno dal secondo dopoguerra, per regalare una rosa alle figure materne di riferimento. È facile malignare sulla radice consumistica della festività. Marzo o maggio che sia, i fiorai, in queste ricorrenze, smerciano mimose o fiori di ogni genere. Tuttavia, rispetto alla 'Festa della donna', la ricorrenza di maggio suscita polemiche meno virulente. Forse, perché i 'tradizionalisti' la festeggiano nel modo in cui ritengono più opportuno, mentre le donne 'progressiste' lo lasciano passare chiudendo gli occhi, stringendo i denti e 'mordendosi la lingua'. Soprattutto, perché una riflessione sulla maternità che prescinda da quella sulle donne significa privare la famiglia delle sue fondamenta. Sono parole adamantine e preziose, quelle con cui le donne si propongono di trasformare una società loro avversa. In quel testo preziosissimo che è il 'Manifesto di rivolta femminista', la maternità viene scontornata di quella dolcezza stucchevole con cui la società propina l'esperienza del concepimento. Oggi, ogni partoriente può persino richiedere che la prole abbia anche il suo cognome. Dunque, almeno quel punto del 'Manifesto', secondo il quale "chi genera non ha la facoltà di attribuire ai figli il proprio nome: il diritto della donna è stato ambito da altri, di cui è diventato il privilegio" lo abbiamo finalmente realizzato. Le rivoluzioni, tuttavia, non si fanno col linguaggio. A distanza di un quarantennio dall'abolizione del matrimonio riparatore, siamo estremamente lontani dall'aver emancipato la peculiarità dell'essere donna dalla maternità. Un uomo che non ha voluto far figli non è 'mancato' perché si è guardato bene dall'essere padre. Ma una donna che si autodetermina non includendo la genitorialità come progetto di vita, riceve come risposte: "Cambierai idea"; "E se lo vorrai quando sarà troppo tardi"? "I figli sono una benedizione". Nel sedicesimo punto del 'Manifesto di rivolta femminista' del 1970, le autrici esposero la necessità di riappropriarsi del monopolio della narrazione dell'esperienza della maternità. Come non viverla senza rancore nel momento in cui la società le obbliga a scegliere tra i figli e la carriera? In questi giorni di 'fine-quarantena', sono tantissime le testimonianze, in ambito accademico, che segnalano una rinuncia da parte di ricercatrici alla partecipazione ai seminari, per adempiere al dovere di madre. Qualora ci sia un marito in casa, ancora oggi questi non sempre consente alla moglie di sviluppare a pieno le sue potenzialità, dal momento che il luogo di lavoro sta cominciando a coincidere con quello domestico. Diventa facile unirsi alle affermazioni: "La donna è stufa di allevare un figlio che le diventerà un cattivo amante". Ma anche: "Noi identifichiamo nel lavoro domestico non retribuito la prestazione che permette al capitalismo, privato o di Stato, di sussistere". Col tempismo di sempre, il 'Corriere della Sera' ha pubblicato un sondaggio Ipsos, dal quale emerge come l'Italia continui a essere il 'fanalino di coda' per quanto riguarda la percezione degli stereotipi di genere. Nello specifico, 63 donne su 100 pensano che le prime vogliano stare a casa con i figli piccoli, nonostante il lavoro sia una parte importante della loro vita. Di converso, 71 uomini su 100 concordano. Inoltre, solo 18 donne su 100 si fiderebbero a lasciare il compagno a fare il padre. Chissà se, dietro la bassa autostima maschile al riguardo, non ci sia anche un 'lavaggio di mani' di 'evangelica memoria'. Ovviamente, la relazione tra madre e figlio viene sicuramente danneggiata dal lavoro per almeno 86 donne su 100 e per 71 uomini su 100. L'indiscutibile serietà del ruolo di madre pesa sull'identità femminile molto più di quanto il ruolo di padre su quella maschile. La filosofia ha per secoli cristallizzato in differenze di natura quelle che sono abitudini e consuetudini culturali, incancrenite in almeno 4 millenni di patriarcato, rendendo indistinguibili le differenze di sesso da quelle di genere. Persino la Rivoluzione francese, il primo evento storico che minò seriamente le fragili basi teoriche della differenza castale tra nobiltà e plebe, si porta dietro la 'macchia' di aver deliberatamente ignorata la voce delle parigine, che pubblicarono le loro rivendicazioni nella 'Dichiarazione dei diritti delle donne'. La filosofia fu dunque quell'arma che impedì alle donne di salire sul palco, invece di lavorare esclusivamente 'dietro le quinte'. Tra sacro e animale, il miracolo della vita che si realizza attraverso il corpo femminile è un alibi perfetto per tenere le mamme inchiodate a casa, guardando la Storia fuori dalla finestra prendere direzioni che non si è mai contribuito a influenzare davvero, se non da custodi dell'educazione della futura genìa. Per dirla con Banotti, Lonzi e Accardi, le autrici del 'Manifesto' del 1970, solo qualora si realizzino le condizioni sociali affinché l'autodeterminazione femminile alla maternità si compirà come "una libertà che si sente di affrontare", allora "la donna libererà anche il figlio. E il figlio è l'umanità".


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