Sono tante le
ombre che dall'inizio
dell'età moderna si allungano fino alla contemporaneità. Una di queste, sempre denunciata con forza da
liberali, radicali e
socialisti, è il difficile rapporto di convivenza della
religione con le
istituzioni statali. Ancora oggi, in
Italia ma non solo, non è perfettamente compiuta la
separazione della
moralità cristiana dalla
legiferazione. Nelle pieghe della Storia, fortunatamente, si nascondono episodi ancora in grado di meravigliarci per la loro potenza. Basti pensare alla potenzialità inespressa
dell'Editto di Saint Germaine, soffocata dal cieco orgoglio di una classe nobiliare poco interessata alla
'cosa pubblica'. La questione della
libertà di culto tornò a riproporsi in tutta la sua urgenza
nell'Europa della
Riforma protestante. Nel cuore del
Sacro Romano Impero di
Carlo V, il testardo
Martin Lutero affisse le sue celeberrime
95 tesi sulla porta della cattedrale di
Wittenberg. In un momento in cui l'esercizio del potere aveva ancora molto di
spirituale e magico, è ancora molto lontana la sua declinazione secolare. Eppure,
Carlo d'Asburgo si trovò per primo di fronte alla necessità di dover
'normare', cioè dare una legge, alla possibile
diversità di confessione tra sudditi e sovrani. Sarebbe stato troppo pretendere che i primi tentativi fossero efficaci ed esemplari per i secoli succssivi. Nel
Medioevo d'Europa, il
cristianesimo era sopravvissuto nella sola forma del
cattolicesimo. Nella prima metà del
XIII secolo, papa
Innocenzo III aveva represso nel sangue le richieste di ritorno all'originale messaggio evangelico degli
Albigesi. Federico II di Svevia, sebbene fosse cresciuto alla corte di quel papa, garantì agli
arabi di Sicilia pari trattamento giuridico. Ma c'è una ragione per cui fu chiamato, sin da subito,
'Stupor mundi' ('Meraviglia del mondo', ndr): egli trapiantò a
Lucera l'ultima entourage musulmana di
Trinacria, che infatti divenne il suo
'braccio armato'. D'altronde, il sogno imperiale di
Federico II di Svevia era più influenzato da
Augusto che da
Costantino. L'imperatore
Carlo V, invece, quello del regno
'su cui non tramonta mai il sole', non perse mai una guerra. A niente valsero gli attacchi di nemici esterni. La battuta d'arresto di
Carlo d'Asburgo fu la stipula della
pace di Augusta nel
1555, in seguito alla vittoria di
Mühlberg contro la
Lega protestante di
Smalcalda. "Cuius rei, eius religio" ("A chi [appartiene] la regione, sua la religione") fu il gravoso
compromesso cui dovette cedere, per evitare che
Enrico II facesse in tempo a sostenere il fronte dei suoi avversari. Dal
1555 in poi, nelle città imperiali sarebbe stata in vigore la
libertà di culto, mentre nei principati, la fede dei sudditi avrebbe dovuto necessariamente rispecchiare quella del sovrano. Una pesante battuta d'arresto per il sogno di un impero il quale, dove non poteva essere unito nella
lingua, almeno avrebbe potuto riporre una speranza nella
religione. Così, il
'Partito' protestante vinse un'importante battaglia. Se la
Pace di Augusta aveva messo un limite all'universalismo cattolico, la
libertà di culto della maggior parte dei sudditi si scontrava non solo con limiti geografici, ma anche con l'arbitrio del sovrano. Insomma, un
concordato che poneva fine alla guerra tra nobili, ma non si curava di certo di tutti quei fedeli che, per ragioni socioeconomiche, erano impossibilitati a fare i bagagli e trasferirsi in una regione in cui non avrebbero subito persecuzioni per il loro credo. Non troppo diverso fu
l'Editto di Nantes: a distanza di un quarantennio dalla
Pace di Augusta, re
Enrico IV di Borbone, per porre fine alle guerre di religione che vessavano il suo regno, convinse il
parlamento di Parigi a firmare un provvedimento che avrebbe garantito l'immunità da qualsiasi apparato repressivo agli
ugonotti francesi. Ma, anche qui, non in ogni luogo della nazione, bensì in
cento roccaforti scelte. Aspettarsi che, alle porte
dell'Ancien Regime, i
sovrani d'Europa si curassero non solo di avere rapporti pacifici con i notabili e gli aristocratici, ma avessero anche un occhio di riguardo per i
sudditi, sarebbe come chiedere la realizzazione di
un anacronismo, l'avverarsi di un
'controfattuale'. Ma fortunatamente, la Storia è un pullulare di eccezioni. La lungimiranza
dell'Editto di Saint Germaine, che porta la firma della reggente di
Francia, l'talianissima
Caterina de' Medici, ebbe l'unico difetto di scontentare la
nobiltà cattolica. I
'calvinisti' sul territorio francese avrebbero avuto libertà di coscienza all'interno di tutte le mura cittadine e libertà di culto fuori dalle mura cittadine. Nel
1562, la sovrana cercò di rimettere in campo una consuetudine, propria tanto della civiltà
greca, quanto di quella
romana. I rituali non istituzionali, come quelli dedicati a
Dioniso e Cibele, non avvenivano mai all'interno delle mura cittadine, ma sempre fuori. Quando è impossibile pretendere il laicismo
nell'Europa della
Controriforma e della caccia alle streghe, la
'regina madre' di
Francia aveva proposto un
compromesso che non avrebbe causato sofferenza a nessuna confessione cristiana negli strati sociali più bassi. Nella totale assenza di
diritti civili, la soluzione proposta da
Caterina non avrebbe scaricato, ancora una volta, sulle spalle degli
'ultimi' gli effetti della
Controriforma. Se
l'Editto di Saint Germaine non potè portare la pace in
Francia, ciò avvenne a causa dell'ottuso orgoglio di una
classe nobiliare (maschile) avvezza al privilegio.