Emanuela ColatostiSono tante le ombre che dall'inizio dell'età moderna si allungano fino alla contemporaneità. Una di queste, sempre denunciata con forza da liberali, radicali e socialisti, è il difficile rapporto di convivenza della religione con le istituzioni statali. Ancora oggi, in Italia ma non solo, non è perfettamente compiuta la separazione della moralità cristiana dalla legiferazione. Nelle pieghe della Storia, fortunatamente, si nascondono episodi ancora in grado di meravigliarci per la loro potenza. Basti pensare alla potenzialità inespressa dell'Editto di Saint Germaine, soffocata dal cieco orgoglio di una classe nobiliare poco interessata alla 'cosa pubblica'. La questione della libertà di culto tornò a riproporsi in tutta la sua urgenza nell'Europa della Riforma protestante. Nel cuore del Sacro Romano Impero di Carlo V, il testardo Martin Lutero affisse le sue celeberrime 95 tesi sulla porta della cattedrale di Wittenberg. In un momento in cui l'esercizio del potere aveva ancora molto di spirituale e magico, è ancora molto lontana la sua declinazione secolare. Eppure, Carlo d'Asburgo si trovò per primo di fronte alla necessità di dover 'normare', cioè dare una legge, alla possibile diversità di confessione tra sudditi e sovrani. Sarebbe stato troppo pretendere che i primi tentativi fossero efficaci ed esemplari per i secoli succssivi. Nel Medioevo d'Europa, il cristianesimo era sopravvissuto nella sola forma del cattolicesimo. Nella prima metà del XIII secolo, papa Innocenzo III aveva represso nel sangue le richieste di ritorno all'originale messaggio evangelico degli Albigesi. Federico II di Svevia, sebbene fosse cresciuto alla corte di quel papa, garantì agli arabi di Sicilia pari trattamento giuridico. Ma c'è una ragione per cui fu chiamato, sin da subito, 'Stupor mundi' ('Meraviglia del mondo', ndr): egli trapiantò a Lucera l'ultima entourage musulmana di Trinacria, che infatti divenne il suo 'braccio armato'. D'altronde, il sogno imperiale di Federico II di Svevia era più influenzato da Augusto che da Costantino. L'imperatore Carlo V, invece, quello del regno 'su cui non tramonta mai il sole', non perse mai una guerra. A niente valsero gli attacchi di nemici esterni. La battuta d'arresto di Carlo d'Asburgo fu la stipula della pace di Augusta nel 1555, in seguito alla vittoria di Mühlberg contro la Lega protestante di Smalcalda. "Cuius rei, eius religio" ("A chi [appartiene] la regione, sua la religione") fu il gravoso compromesso cui dovette cedere, per evitare che Enrico II facesse in tempo a sostenere il fronte dei suoi avversari. Dal 1555 in poi, nelle città imperiali sarebbe stata in vigore la libertà di culto, mentre nei principati, la fede dei sudditi avrebbe dovuto necessariamente rispecchiare quella del sovrano. Una pesante battuta d'arresto per il sogno di un impero il quale, dove non poteva essere unito nella lingua, almeno avrebbe potuto riporre una speranza nella religione. Così, il 'Partito' protestante vinse un'importante battaglia. Se la Pace di Augusta aveva messo un limite all'universalismo cattolico, la libertà di culto della maggior parte dei sudditi si scontrava non solo con limiti geografici, ma anche con l'arbitrio del sovrano. Insomma, un concordato che poneva fine alla guerra tra nobili, ma non si curava di certo di tutti quei fedeli che, per ragioni socioeconomiche, erano impossibilitati a fare i bagagli e trasferirsi in una regione in cui non avrebbero subito persecuzioni per il loro credo. Non troppo diverso fu l'Editto di Nantes: a distanza di un quarantennio dalla Pace di Augusta, re Enrico IV di Borbone, per porre fine alle guerre di religione che vessavano il suo regno, convinse il parlamento di Parigi a firmare un provvedimento che avrebbe garantito l'immunità da qualsiasi apparato repressivo agli ugonotti francesi. Ma, anche qui, non in ogni luogo della nazione, bensì in cento roccaforti scelte. Aspettarsi che, alle porte dell'Ancien Regime, i sovrani d'Europa si curassero non solo di avere rapporti pacifici con i notabili e gli aristocratici, ma avessero anche un occhio di riguardo per i sudditi, sarebbe come chiedere la realizzazione di un anacronismo, l'avverarsi di un 'controfattuale'. Ma fortunatamente, la Storia è un pullulare di eccezioni. La lungimiranza dell'Editto di Saint Germaine, che porta la firma della reggente di Francia, l'talianissima  Caterina de' Medici, ebbe l'unico difetto di scontentare la nobiltà cattolica. I 'calvinisti' sul territorio francese avrebbero avuto libertà di coscienza all'interno di tutte le mura cittadine e libertà di culto fuori dalle mura cittadine. Nel 1562, la sovrana cercò di rimettere in campo una consuetudine, propria tanto della civiltà greca, quanto di quella romana. I rituali non istituzionali, come quelli dedicati a Dioniso e Cibele, non avvenivano mai all'interno delle mura cittadine, ma sempre fuori. Quando è impossibile pretendere il laicismo nell'Europa della Controriforma e della caccia alle streghe, la 'regina madre' di Francia aveva proposto un compromesso che non avrebbe causato sofferenza a nessuna confessione cristiana negli strati sociali più bassi. Nella totale assenza di diritti civili, la soluzione proposta da Caterina non avrebbe scaricato, ancora una volta, sulle spalle degli 'ultimi' gli effetti della Controriforma. Se l'Editto di Saint Germaine non potè portare la pace in Francia, ciò avvenne a causa dell'ottuso orgoglio di una classe nobiliare (maschile) avvezza al privilegio.


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