Il
2 marzo scorso sarebbe stato il compleanno di
Tom Wolfe, fine intellettuale che si è distinto per la sua prosa tagliente e spregiudicata. Lo scrittore statunitense, se stiamo alla memoria collettiva depositata dai
social network, sembra aver avuto un solo grande merito: aver smascherato i
'radical chic', averli riconosciuti, avergli dato un nome e aver irriso le loro ipocrisie sulla pubblica piazza. Apertamente schierato con la
destra conservatrice, negli
anni '70 del secolo scorso puntò il dito contro una
'certa sinistra', che ricoprendosi di
cachemire attuava solo apparentemente il mandato per cui era stata eletta. Eppure, ancora oggi la
sinistra delle moderne democrazie liberali
d'Europa e
d'America non pare abbia imparato qualcosa dalle
pungolate morali del giornalista. Infatti, la linea che divide i
diritti sociali dai
diritti civili è stata tracciata. E pretendere di soddisfare le necessità degli
indigenti con provvedimenti inadatti a
redistribuire la ricchezza è sintomo di incapacità delle
classi dirigenti progressiste di apprendere dai propri sbagli. Chi c'è dall'altra parte? Chi c'è a puntare il dito contro un mondo progressista irreversibilmente malato di
'radicalchicchismo'? La risposta è presto data:
virulenti anti-intellettuali. Ciò che non si sottolinea mai abbastanza è la genesi di una forma inedita di
'cavier gauche', che impregna
l'estrema destra e gli
intellettuali a capo dei più recenti fenomeni di
antipolitica. Si raccolgono gli
amari frutti di ciò che è stato seminato negli
anni '70: una precisa coordinata storico-sociale che bisognava tenere in conto. Molti dei nipoti di chi ha beneficiato del cosiddetto
'ascensore sociale' sono figli di genitori con un'istruzione superiore. L'incremento repentino della scolarizzazione ha trovato docenti impreparati a educare nelle
differenze socio-cognitive classi sempre più ampie e variegate.
Don Milani temeva, a ragione, che solo ai figli dei professori venissero dati strumenti di esercizio di
ragion critica. Occorreva, pertanto, una metodologia diversa, per
"coltivare un senso civico e un senso politico maturo". Le paure del parroco di
Barbiana sono diventate realtà: l'assenza di disposizioni consolidate
all'analisi critica fa girare a vuoto l'accumulazione di strumenti metodologici
non digeriti. In poche parole: produce
sofisti inconsapevoli. Ai
'radical chic', nel senso
'wolfeano' del termine, non c'è bisogno di spiegare perché il
fascismo non sia una
dittatura illuminata: bisognerebbe spiegare loro, piuttosto, perché non sia sufficiente la battaglia per i
diritti civili, ormai forma astratta di libertà. Tappandosi le orecchie alle urla che
"il re è nudo", qualsiasi
liberaldemocratico rimpiange i tempi in cui un principio di autorità aveva una qualche valenza. Il
relativismo è uno strumento che va usato con cautela. Persino nelle mani di addetti ai lavori accademici è in grado di danneggiare ogni presunto punto fermo, nel difficile percorso verso la conoscenza. Il sano esercizio del
dubbio acquisisce senso proprio in funzione di un metodo d'indagine. È apparentemente semplice interrogare conoscenze acquisite, per renderle più solide, salvo poi scadere nel
'terrapiattismo'. Quel che non sa quest'esercito di
'tuttologi' è che persino gli
scettici sono diventati tali per un'idea troppo elevata di verità. È inutile rimpiangere i tempi in cui solo una
élite - sin da allora accuratamente selezionata non dal merito, ma dal ceto sociale - era a conoscenza della
radice storica di ogni metodologia scientifica. L'attestazione di validità del criterio di
produzione di verità è il risultato di una lotta simbolica all'interno del campo scientifico. I partecipanti non mostrano i muscoli al proprio avversario, ma piuttosto
dati statistici, pubblicazioni, esperimenti. Le loro contese funzionano in nome di un
manifesto disinteresse personale e di un
dichiarato interesse universale. Potrebbe sembrare una contraddizione il fatto che i ricercatori coinvolti non riescano a rendere oggetto per se stessi la propria intenzione. È dunque
l'antropologia a illuminarci sulla
'doppia verità' delle
pratiche umane: quella di chi è
coinvolto nell'azione, che è sempre diversa e distinta da chi osserva con gli occhi dello spettatore. La
ritrosìa degli attori sociali nel riflettere sulla relazione che lega la loro personale biografia alla Storia ha acquisito, negli anni, un linguaggio sempre più violento. I
social network hanno cioè portato alla luce gli
attriti tra le posizioni all'interno di ogni campo del reale in una forma totalmente inedita. Nella contemporaneità, in cui tutto fa
spettacolo, anche gli esperti hanno ceduto - o hanno dovuto cedere - al fascino del
'blast', alla
'gogna mediatica' a cui sono sottoposti dai propinatori di
facili soluzioni, da chi ha reso la scienza politica, economica, filosofica e persino quella medica appannaggio di tutti. Il crollo di ogni mitologia della
'causa-prima', effetto collaterale dello
storicismo, ha appiattito, per la maggior parte dei cittadini, gli
ordinamenti liberaldemocratici ai
totalitarismi del secolo breve. Per cui i
'radical chic' sono
servi del potere, le
Ong una congrega di
schiavisti, il
Sistema sanitario nazionale un
untore in combutta con le
'lobbies' farmaceutiche. Sul
web si riversa e si palesa la diffusione capillare e anarchica di una
critica disfunzionale all'ordine statuito. È curioso rilevare una somiglianza di famiglia tra il
'fare-squadra' dei membri degli orientamenti scientifici all'interno del campo del sapere e l'organizzazione per
gruppi nei
social network. Ma è proprio l'esclusione di un
contraddittorio costruttivo e la sua
demonizzazione, la cifra che ricorre in queste aggregazioni sociali sul
web. Usciti fuori dal loro
isolazionismo, frequentemente essi
sputano sul sudore di chi, in campo politico,
ci lavora con fatica, facendo del suo meglio con il ridotto margine di manovra consentito dalle strutture sociali. Oggi, in
Italia, sono talmente tanti da possedere una solida rappresentanza in parlamento, anticipati solo dal
'trumpismo' americano e dalla
Brexit inglese. In tanti hanno ceduto alla tentazione di osservarli con interesse. Qualche elemento del campione era sembrato anche
interessante, rispetto alla
palude politica degli ultimi
20 anni. È un vizio di
superficialità a sottoporre le diverse narrazioni prospettiche della
'Grande Storia' secondo il modello, oppositivo e dicotomico
vero/falso. È una soluzione
semplice, un'idea di
verità 'automatica' che non considera la complessità delle
contingenze storiche, in cui s'intrecciano interessi politici, economici e persino individuali. È difficile far luce su certe dinamiche, persino per gli addetti ai lavori. Ed è arduo divulgare e rendere fruibile un quadro verosimile della complessità del reale. È così facile, dall'altro lato, urlare alla
menzogna impartita da un sistema educativo che vive la quotidiana e svilente necessità di dover
semplificare i contenuti, dove a venir trascurata è la metodologia stessa di costruzione di un
concetto. L'interesse per le
soluzioni facili ed
eterodosse è suscitato attraverso la presa in carico
dell'egoismo individualista, che già nel
'900 è stata ben sperimentata dai
totalitarismi. La paura di non essere riconosciuti nel proprio
valore individuale, in un momento di stagnazione economica, viene raccolta e coltivata
nell'odio che straripa dalle tastiere dei computer, fino a raggiungere le strade.
L'antipolitica parla all'istinto sociale
dell'uomo qualunque, con un linguaggio che fa leva sulla sfera
etica ed
emotiva. Forte di divergenze reali all'interno dei campi del sapere, dove l'eterodossia dei risultati è in genere accompagnata dal
rigore, può far credere ai suoi ascoltatori di parlare alle loro disposizioni critiche piuttosto che alla loro
'pancia'. Il
rovesciamento dialettico è così compiuto.