Non si può raccontare la realtà con una
'fiction'. Dovrebbe essere l'assunto di base dell'era moderna, trainata dall'informazione veloce. E invece continuiamo a foraggiare produzioni che raccontano la grande cronaca e la Storia. Questa semplificazione, tolto il valore di rinnovamento della memoria, ha in sé un difetto e un pericolo grave: non c'è più bisogno di una
televisione pedagogica, mentre invece servirebbe creare
'massa critica' in un pubblico ormai abituato a un consumo
'stitico' dell'informazione. Le attuali
'fiction', invece, o sono
poco rappresentative del vero senso del reale, o
eccedono nel rappresentarlo, generando un rapporto
troppo personale con lo spettatore, che entra in simbiosi col
personaggio, abbandonando qualsiasi forma di
ragione critica sulla vicenda. All'incirca
50 anni fa, partirono le prime occupazioni studentesche, che innescarono il movimento
'sessantottino'. Un intervallo tutto sommato piuttosto breve, al cui interno è successo di tutto. Oggi, ci ritroviamo in un mondo completamente rinnovato. Passando dalle ideologie - in nome delle quali sui giornali si vergavano articoli che definire
'di parte' a volte poteva sembrare un eufemismo e che non rappresentavano oggettivamente la realtà dei fatti - alle strategie di
marketing dei media di oggi, dai
leader agli
influencer (qui sì che il passo verso le
'fake news' è inevitabile) abbiamo perso quel modo di fare dibattito sui problemi concreti. La
Rai del passato, quella di
Ettore Bernabei, attraverso gli sceneggiati si era assunta un ruolo da educatrice domestica. Per quanto discutibile, quell'atteggiamento rispondeva a un piano preciso e aveva senso, nel periodo in cui si è svolto. Le
'fiction' di oggi, basta leggere alcuni titoli, sembrano avere la stessa pretesa, ma non considerano come la società, quindi il loro pubblico di riferimento, sia mutato. Il
modello Bernabei è durato
13 anni, dal
1961 al
1974 e fu criticato aspramente. Oggi, invece, viene rivalutato. A ragione, se si bada agli ascolti. Prendiamo un successo come
'Atelier Fontana, le sorelle della moda', a firma della
Lux Vide (quindi di
Bernabei) che ha totalizzato quasi
9 milioni di spettatori, tanto per dire. Al fianco di
Bernabei lavoravano personaggi del calibro di
Furio Colombo, Alberto Ronchey e
Arrigo Levi. Uomini di un certo
rilievo culturale, dai quali non poteva che derivare un progetto che riflettesse le sensibilità di ciascuno. Questo non è un processo alla
Rai di oggi. E non s'intende affermare che le
'fiction' di un tempo erano migliori. Bisogna prendere atto che gli italiani di quel periodo erano composti soprattutto da
'acculturati di ritorno' e, probabilmente, il programma pensato dall'azienda pubblica di
viale Mazzini copriva quel vuoto. E oggi? Il punto è questo: si continua a spiegare sullo schermo la realtà come se il pubblico ne avesse bisogno. In effetti, lo spettatore medio, come il lettore medio, è per definizione:
'un uomo della strada'. Ma se andiamo ad analizzare queste
'fiction', esse sembrano reali? Noi parliamo come quegli attori? La famiglia dei
'Cesaroni' o quella di
'Un medico in famiglia' sono modelli rappresentativi della
'famiglia-tipo' italiana? E'
'fiction' allo stato puro: solo i problemi inseriti dagli autori sono reali. Il contenuto c'è, ma il contenitore è
'fuffa'. Le modalità con cui i protagonisti si muovono o pensano, il modo stesso in cui accadono le cose o si risolvono i problemi, è piuttosto
lontano dalla realtà. Quando divenne presidente della
Rai, il dottor
Antonio Campo Dall'Orto dichiarò in un'intervista a
'il Foglio' che la sua intenzione era quella di far diventare l'azienda
"un riferimento rispetto ai comportamenti e ai linguaggi contemporanei": accidenti! Sempre
Dall'Orto continuava così:
"In tutto il mondo, si è capito che il linguaggio scritto della fiction televisiva è stato uno dei grandi elementi di vitalità creativa che ha consentito agli editori tv di mantenere il proprio ruolo e all'industria dei contenuti di affascinare il proprio pubblico con un racconto via via più complesso". Grande verità. Tuttavia, proprio qui sta uno dei problemi della
Rai: a parte qualche
'fiction' innovativa, il
'grosso' resta la solita produzione di qualità alla
'Don Matteo', per intenderci. Perché il pubblico della televisione di Stato è, in buona parte, costituito da gente che apprezza quelle storie. Finché si continuerà a fare
'fiction' per quel tipo di pubblico, la realtà non sarà mai davvero rappresentata. E ciò non sarebbe neanche tutto questo problema: bisognerebbe
capire 'prima' cosa si vuol raggiungere, se lo
'share' col giusto
'target', oppure altro. Oggi, le coscienze individuali - a partire da una certa generazione in poi - si formano sui
social media. Si tratta di un pubblico che non segue le
'fiction' della
Rai (e neanche quelle di
Mediaset). Semmai, impazzisce per i nuovi
'serial', quelli più moderni. Anche qui, però, la domanda sorge spontanea: cosa vuol dire
'moderno'? Non necessariamente realistici. Anzi, sono talmente
iper-realistici che, nell'esaltazione eccessiva dei dettagli del reale, finiscono con un
ribaltamento di valori. Vedi il caso di
'Gomorra', in cui il malavitoso diviene
protagonista assoluto. I nuovi schemi narrativi che piacciono al pubblico moderno, giovane e più esigente, sembrano ricercare in maniera spasmodica la realtà non tanto per fornire un
plusvalore alla ricostruzione oggettiva, quanto piuttosto per appagare
finalità 'estetiche'. In altre parole, tanto per fare un esempio, la storia del
narcotraffico ('Narcos'), o del
contrabbando di alcolici ('The Boardwalk Empire') nell'America degli
anni '20 del secolo scorso è bella a vedersi, c'è un grande studio dell'immagine, ma tutto questo sembra far smarrire il senso stesso dell'operazione: ricostruire la vita, le opere e le azioni di personaggi realmente esistiti con
'piglio' scientifico. Prafrasando
Carmelo Bene, più che offrire una
fedele ricostruzione storica di certi eventi, siamo ormai di fronte a una
tv di
"pura rappresentazione". Un'arte pericolosa, perché il pubblico empatizza coi protagonisti anche quando sono
'negativi', come nel caso di
'Gomorra'. Ognuno, in questo modo, scopre o crede di scoprire la
'sua' realtà, la
'sua Gomorra'. E non c'è nessuno che, invece, spieghi sul serio il
fenomeno mafioso al pubblico. Il modello è sempre di
'uno-a-uno', prediligendo il
'sentire' piuttosto che il
'capire'. La realtà è sempre la realtà, bella o brutta che sia. Ma quando finisce sullo schermo, essa finisce con l'essere
adattata, ovvero
'spettacolarizzata'. E, nel far questo, è inevitabile che ci si discosti dai fatti: basterebbe questo per far capire che, se si vuol conoscere una storia, bisogna andarsela a leggere da soli, in un libro o in più di uno. Lo sa bene il
'boss' dei
'casalesi', Michele Zagarìa, oggi a processo, sul quale pesano già
tre ergastoli. Una
'fiction' della
Rai, dal titolo
'Sotto copertura', narra la sua vicenda. Dovrebbe essere contento, sentirsi una sorta di divo. E invece, nulla. Ritrovarsi nei panni del
'cattivo di turno' gli andrebbe pur bene, ma quando è troppo è troppo, anche per un
pluriomicida come lui. Per via di qualche sceneggiatore troppo
'allegro' è diventato un
'quasi pedofilo'. Da lì, la denuncia e la richiesta di un risarcimento. La vicenda ha il sapore di una
'beffa': uno
'schiaffo' da parte della realtà contro quella finzione che, a sua volta, quella realtà vorrebbe raccontarla.
Grottesco? Sì, abbastanza. Ma dà il senso di come stiano davvero le cose in questo momento:
la fiction (s)piegata dalla realtà. Anche i criminali hanno un
codice. E una televisione che intende raccontarli dovrebbe saperlo. Ma
Zagarìa dimentica che anche la tv ha i suoi di codici:
è l'audience, bellezza! Lo spettatore vuole la sua
'simil-verità'. E qui, si va alla ricerca dello
'share'.