Gaetano Massimo Macrì"Peccatori sì, corrotti no", dice il Papa nel libro intervista: 'Il nome di Dio è misericordia' (Piemme Edizioni), fresco di stampa. Anche per il pontefice, l'essere corrotto è un modus vivendi, un costume. E chi lo indossa finisce per non rendersi conto di essere in errore. Perché la corruzione è sistemica e chi la attua fonda la sua stessa autostima nella pratica fraudolenta. Dicasi lo stesso per l'evasione fiscale. Anche da parte laica, si pensa la stessa cosa: chi dà e chi riceve una tangente sono parti eguali di un contratto. Più che su questioni di diritto, l'argomento sembrerebbe spostarsi, dunque, su un piano culturale. La corruzione è ovunque: non possiamo ignorarla. Al mattino, quando prendiamo un caffè al bar senza che si batta lo scontrino, o dal dentista per la pulizia dei denti, quando paghiamo il 'ventino' in meno, se in 'nero'. La vediamo, ne facciamo parte, la sopportiamo, oppure siamo anche noi, a volte, corrotti? E' un problema di educazione e senso civico di cui dovremmo prendere consapevolezza, per arrivare a una redenzione: sarebbe un passo in avanti. Manca, infatti, una coscienza collettiva che porti alla prevenzione.

Il rispetto delle norme
La corruzione s'insinua nelle pieghe della burocrazia, là dove le cose non funzionano e si 'aggiustano' con le 'bustarelle', favori retribuiti e tutto ciò che le leggi non prevedono. E le leggi sono proprio uno dei motivi che, paradossalmente, sospingono il fenomeno corruttivo/evasione fiscale: "Perché dovrei vendere un persiano da 100 mila euro", si chiede un venditore di tappeti, "se poi devo versare quasi la metà del guadagno allo Stato"? Malauguratamente per lui, il potenziale acquirente apparteneva alle Fiamme Gialle: "Non avrei potuto fare il 'nero': non che lo faccia di solito, ma potendolo fare, lo avrei fatto". E' solo un esempio come tanti, che rende l'idea di come la fraudolenza sia difficilmente estirpabile, quando proprio le leggi che dovrebbero impedirla ne forniscono un motivo. "Le tasse sono belle", dicevano Mario Monti e Tommaso Padoa Schioppa, ma vaglielo a spiegare al venditore di tappeti. Ma non c'è solo questo: il rispetto della legalità è ostacolato, in molti casi, dal 'mare magnum' normativo: le imprese vorrebbero essere 'sane', ma spesso le leggi che dovrebbero conoscere sono troppe e poco chiare. Un 'pantano' di articoli che sviluppa un sostrato, il quale alimenta la corruzione, che a sua volta spinge all'evasione. Il problema è maggiore nelle Pmi, le piccole e medie imprese che costituiscono una buona parte del tessuto imprenditoriale italiano, perché al loro interno non sempre è agevole identificare un atto di corruzione. Si fa fatica a emarginare il problema, poiché non si dispone né degli strumenti giusti, né di competenze individuate. E il rischio è che si finisca per 'accettare' una situazione divenuta insostenibile: tutti sappiamo, ma nessuno fa nulla. Siamo un Paese di corrotti, ma questo lo sapevamo anche prima di 'Tangentopoli'. Il fenomeno è entrato a far parte dei nostri costumi a tal punto che anche la sua percezione è elevatissima. Recenti studi (Gallup, 'Cubbing corruption') dicono che la corruzione viene percepita dal 90% della popolazione. Tutto ciò ha una ricaduta sulla fiducia nei Governi e, più in generale, nelle istituzioni. In Svezia, con una percentuale molto più bassa, il 15%, quella fiducia è al 55% contro la nostra, che ormai 'ristagna' al 33%. Insomma, vediamo ladri ovunque, anche dove forse non ci sarebbero. E le 'guardie' come reagiscono? La magistratura cosa fa? Abbiamo il minor numero di condanne per corruzione in Europa: per l'indolenza dei giudici o perché i furbi sono 'troppo furbi'? Nessuna delle due: le indagini vengono compiute ma, come conferma l'Istat, il 48% finisce in archivio per sopravvenuta prescrizione. Il dilagante fenomeno corruttivo, più che punito 'a cose fatte', andrebbe prevenuto con un incisivo monitoraggio di tutti i settori interessati. Il comune di Milano, per esempio, si è appena dotato di una piattaforma informatica, attraverso cui ogni dipendente può segnalare un illecito. Il rischio di delazioni si corre, certo. E infatti la cosa è ancora in fase di 'testing' ed è previsto un organismo 'terzo', che vigili sulle denunce tenendo conto della buona fede dei dipendenti denuncianti. Appare comunque una buona pratica da attuare, ma quanti sono i comuni a compiere un monitoraggio simile? Solo il 39%; ben più alto quello delle Province (83%); non male le università (70%); i ministeri così così (50%). Sono dati descritti nell'ultima relazione annuale dell'Anac.

I rischi nel denunciare una corruzione
Quest'ultima forma di controllo appena descritta è quella prevista e auspicata dall'Anac, l'Autorità nazionale Anticorruzione guidata da Raffaele Cantone. Ed è la risposta ultima del Governo per combattere la corruzione. Nata nel 2014, il suo scopo è quello di vigilare, monitorare e orientare i comportamenti e le buone pratiche della Pubblica amministrazione. E' ancora troppo presto per vedere dei risultati concreti: le denunce sopra citate non sono ancora molte e, secondo gli esperti, ci vorrà del tempo per riscuotere la fiducia dei segnalanti. In gergo tecnico, la loro azione di denuncia si chiamano: 'whistleblower' e 'whistleblowing'. Figure utili, certo, ma almeno un terzo delle nostre amministrazioni neanche li ha previsti. E gli stessi cittadini che vogliono segnalare una 'mala-gestione' non lo fanno quasi mai all'amministrazione direttamente interessata, ma passano per l'Anac. L'idea che "tanto non faranno nulla" prevale: un ragionamento che si riflette in quella percezione del 90% che abbiamo in Italia. Giova ricordare che l'Anac non punisce i corrotti: questo è il compito dei magistrati. L'Anac, per usare le parole di Cantone: "Mette in circolo gli anticorpi" anticorruttivi. In parlamento, qualcuno ha proposto di premiare i 'whistleblowers' con un incentivo economico, come fanno negli Usa. Il problema non è semplice, perché chi denuncia, anche se in forma anonima, qui da noi non ha piena tutela. L'Anac sta cercando un'intesa con la magistratura per individuare una 'formula' che ampli la durata della tutela del denunciante, perché nella normativa vigente, quando la segnalazione giunge a un magistrato, non esiste nemmeno la tutela alla riservatezza dell'identità. Negli Stati Uniti, invece, questa pratica è ben nota: la prima legge a tutela di una 'gola profonda' risale addirittura al 1863. Nel 1989 è stato approvato il 'Whistleblower Protection Act' a protezione da qualunque ritorsione per tutti i dipendenti che segnalino illeciti. In Italia, questa 'figura' è stata prevista solo nel 2012 dalla Legge anticorruzione n. 190. Essa prevede che il dipendente non possa essere licenziato, discriminato o sanzionato, ferma restando la calunnia ovviamente. Il problema riguarda l'anonimato: chi segnala un corrotto, da un lato rimane anonimo, ma se la contestazione si fonda, completamente o in parte, sulla segnalazione, allora l'identità dev'essere svelata, per permettere alla persona incolpata di impostare una linea di difesa.

La Legge anticorruzione
La legge n. 190/12 prevede un responsabile della prevenzione della corruzione (Rpc) nella Pubblica amministrazione, scelto tra i dirigenti amministrativi di ruolo di prima fascia. Ogni anno, entro il 15 dicembre, l'Rpc pubblica sul sito della sua amministrazione i risultati della sua attività. Attualmente, questi responsabili sono circa 6 mila e ogni Ministero, Regione e Camera di commercio ne ha nominato uno. Lo hanno fatto la quasi totalità degli Enti pubblici, Province e Asl. Sono i Comuni quelli meno virtuosi, anche se il 'segno' è in crescita. Secondo gli ultimi dati raccolti dall'Anac nella relazione di Cantone alle Camere, solo il 53,6% dei Comuni ha un Rpc. Sono esclusi i grandi Comuni (15 sui 15). Ma su cosa fa i controlli l'Rpc? Soprattutto, sull'affidamento di lavori, servizi e furniture, anche se solo un 9% riguarda i controlli sulla acquisizione di personale. Comunque, quello che emerge leggendo i vari 'report' è che il modello di anticorruzione previsto a monte vada sempre adattato alle singole amministrazioni. A volte, è troppo complesso o non considera nuove aree di rischio. L'analisi dei rischi è fondamentale per poter applicare misure efficaci e adeguare la norma alla specifica amministrazione. Sul piano della formazione, invece, si parla ampliamente di 'gestione del rischio', così come di 'codice etico', incompatibilità d'incarichi, di 'whistleblowing' e, soprattutto, di norme anticorruzione. Dirigenti e dipendenti della Pa sono dunque bene informati. Tuttavia, la strada per ottenere delle buone pratiche tra imprenditori, enti e istituzioni, attraverso formazione e controllo, sembra ancora lunga. A tutto ciò si aggiunga che la corruzione, come l'evasione, indebolisce il tessuto socioeconomico, rendendolo un terreno fertile per le mafie. Colpiscono le parole del Procuratore nazionale Antimafia e Antiterrorismo, Franco Roberti, davanti alla commissione parlamentare Antimafia di un anno fa, che alla domanda se in Italia si è combattuta la corruzione, ha risposto, laconicamente: "Mai". Attenzione, però, a non equiparare sempre mafie e corruzione: a volte, esse viaggiano separate. Ci sono 'lobbies' di corrotti che non hanno nulla a che vedere con gli ambienti mafiosi. E, in tal senso, gli eventi corruttivi avvenuti prima dell'Expo di Milano 2015 sono un esempio. Quelli di 'Mafia capitale', invece, sono l'esatto opposto.

I danni economici
E' stato calcolato che per ogni punto percentuale di crescita della corruzione, il tasso di crescita della nostra economia cala dello 0,72%. La corruzione frena l'economia, perché è un disincentivo agli investimenti esteri, già rallentati da molti 'lacci' burocratici, disincentivando anche la concorrenza tra imprese interne. Gli imprenditori italiani, infatti, preferiscono affacciarsi fuori dai confini, piuttosto che impantanarsi in una gara di appalto truccata, o che percepiscono come tale. Basta anche la sola percezione di un'irregolarità per disincentivare e abbassare la media di imprenditori 'buoni' sul mercato. Infine, lo stesso atteggiamento colpisce i 'cervelli' nostrani, che sfuggono a un ambiente di 'finta concorrenza', che immaginano corrotto. Risalire nelle classifiche sarebbe un indicatore incoraggiante, che segnalerebbe che qualcosa, in questo campo, si è mosso. Che si tratti del buon operato dell'Anac o della misericordia del Papa non avrebbe alcuna importanza: il popolo italiano dei 'non corrotti' ne saprà rendere merito, comunque.


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