Dopo una bella cena con alcune amiche, mi sono ritrovata con Silvia, una di loro, a parlare in macchina sotto casa sua, fino a notte inoltrata. Non era la prima volta che succedeva: dopo più di 20 anni di amicizia, le discussioni notturne in macchina sono stati tra i momenti più intimi e intensi della nostra amicizia. Non era la prima volta che affrontavamo quell'argomento. E già di recente mi ero ripromessa che ci avrei ragionato e, magari, avrei scritto un articolo. Eccoci dunque a cercare di mettere in fila le idee e a riflettere su ciò che appassiona e infervora la mia amica Silvia, tanto da farle gridare nel cuore della notte parole cariche di foga e 'zeppe' di pensieri potenti, anche se talvolta aleatori: il comunismo. O meglio: "Il capitalismo in quanto male assoluto". Così ripete, quasi fosse un 'mantra', ricordandomi quando, ancora studentesse del Giulio Cesare, nel corso dell'occupazione o di tante riunioni politiche e sindacali, sedute in cerchio intonavamo il nostro canto: "Berlusconi non esiste". Il capitalismo è il sistema economico che sta portando alla rovina la nostra società civile. Il 'profitto', parola che fa orrore alla mia amica e che pronuncia con un disprezzo che poche volte le ho sentito nella voce, è il simbolo dello sfruttamento e della schiavitù dei lavoratori. Il profitto è mero appannaggio degli imprenditori, che sfruttano e sottopagano i lavoratori con l'unico obiettivo di guadagnare e accumulare ricchezze a discapito degli altri. L'economia dovrebbe tornare a essere nelle mani del solo Stato nazionale e la libera iniziativa repressa, perché rappresenta il seme della schiavitù e dell'arricchimento sconsiderato. I piccoli commercianti possono continuare a esistere, ma devono in qualche modo ricondurre il proprio lavoro allo Stato, perché i beni, quelli di prima necessità - solo quelli sono previsti nell'ideologia di Silvia, perché gli altri sono solo consumismo e frutto della sovrastruttura imposta dalle multinazionali - devono essere a prezzi calmierati, o addirittura gratuity, per tutti. Tutti i cittadini devono poter accedere a tutto: basta con le diseguaglianze, i redditi devono essere livellati, la casa deve essere un diritto e un dovere per lo Stato nei confronti del popolo. E anche l'abbigliamento si deve "spogliare" dei suoi 'fronzoli', tornando a essere mero strumento per coprire il corpo e riscaldarlo in inverno. I vestiti devono essere gratuiti per tutti, ma di certo non si può scegliere tra modelli e colori, perché la scelta di qualcosa di diverso presuppone l'insorgenza di una sovrastruttura che deriva unicamente dal pensiero consumista e capitalista. Parole simili potranno sembrare deliranti e assolutamente divertenti, se non fossero state pronunciate, o meglio 'lanciate contro', con una tale forza e una tale convinzione da farmi temere quasi dell'irrazionalità dei pensieri dell'amica Silvia. So che lei, quando vuole, irrazionale non lo è affatto: è troppo intelligente per esserlo. Ma la sua vita e il suo pensiero hanno preso una piega sull'orlo dell'utopia. Provavo a dire la mia, a ribattere che se da una parte è vero che il capitalismo assoluto rappresenta una distorsione economica pericolosa per alcuni aspetti della società, dall'altra appiattire tutto a un 'becero' comunismo di massa, dove vengono negate le libertà fondamentali dell'essere umano, assomiglia più a una dittatura grigia e pericolosa, che spaventa e preoccupa assai. Non potevo rinunciare a immaginarmi Orwell o Kafka, o la Berlino est prima della caduta del muro, ma io voglio poter scegliere di indossare la mia camicetta a pois e la mia sciarpina di seta. "Quella sciarpina è fatta da uno schiavo", ha ribadito la mia amica. Non necessariamente. E se decidessi di iniziare a realizzare sciarpine di seta? "Diventeresti anche tu", mi ha replicato, "uno di quegli imprenditori che fanno profitto e che schiavizzano i lavoratori. Non lo capisci? Quando c'era l'Unione sovietica, in Romania - Paese che la mia amica Silvia conosce bene, perché ci ha preparato la tesi di laurea nei primi anni duemila - tutti avevano un posto di lavoro! È stato solo dopo il crollo del muro che la gente si è ritrovata senza niente: licenziata, disoccupata e le fabbriche in mano agli speculatori americani. Perché oggi tutto, anche l'economia biologica, è nelle mani dalle società finanziarie (quali?) che speculano sulla vita degli altri e gestiscono l'economia mondiale per il solo profitto individuale". Ah! Il profitto: se la parola fa tanta paura e scatena tanta rabbia, perché non proviamo a cambiarla? Il problema sembra una semplice questione di 'nomen juris'. Un po' come quelli di sinistra che sì, sarebbero favorevoli alle unioni omosessuali, però di sentir parlare di matrimonio fra gay proprio non ce la fanno. Benissimo: cambiamo il nome al 'profitto' e cambiamo il nome al matrimonio. Se è solo una questione linguistica, si può sempre trovare un accordo. Anche se nel caso della mia amica Silvia, il problema, nel termine 'profitto', credo abbia radici profonde. Così ho provato ad azzardare un'ipotesi: e se invece riprendessimo in mano quel discorso già fatto qualche anno fa quando nel mio libro ipotizzavo la nascita di un'economia islamica? Certamente, oggi il temine 'islamico' fa 'drizzare' i capelli e sovvenire i pensieri cupi della nera bandiera dell'Is, ma spogliando quella dottrina economica del retaggio religioso e ripensando solo alla struttura e alle relazioni economiche che quel sistema economico, di matrice islamica, suggerisce: una società equilibrata, dove la proprietà privata è stimolata e auspicata, ma in cui, al contempo, la mera accumulazione è osteggiata, perché ogni individuo è esortato a redistribuire e condividere parte delle proprie ricchezze. Ognuno è chiamato a partecipare economicamente alla vita sociale per quello che può, per quello che sono le proprie capacità (art. 53 Cost.), ma l'iniziativa imprenditoriale individuale è libera (art. 41 Cost.), anche se non può svolgersi arrecando danno agli altri o non rispettando quei limiti imposti, nel caso del pensiero islamico, dall'etica, dalla morale e da quel principio di fondo che è la solidarietà sociale. "Non va bene nemmeno questo," replica Silvia, "primo: perché nasce da un sistema 'religioso'; secondo: perché prevede la libera iniziativa privata e questa ha, come conseguenza, l'inevitabile processo di capitalizzazione, dove l'imprenditore accumula e fa profitto mentre i lavoratori sono schiavizzati". E allora si torna al comunismo? "Certo", ha ribadito con assoluta certezza, "perché i rumeni o i russi mica emigravano in Italia o in occidente, negli anni dell'Unione Sovietica. Il flusso migratorio è iniziato dopo". E questo, cosa vuol dire? "Che prima stavano bene e non avevano bisogno di cercare altrove un posto con migliori prospettive lavorative o di vita. Perché prima, in Romania, tutti i cittadini avevano tutto quel che serviva". Una casa, un lavoro, un reddito, il cibo,...una tessera del Partito? Azzardare un'ipotesi simile avrebbe segnato il protrarsi di una discussione senza fine, con 'picchi' di toni sempre più elevati. Tuttavia, la letteratura dell'est ci ha raccontato e ci racconta un'altra versione dei fatti (tant'è che, alla fin fine, il modello comunista sovietico non ha retto). "Quella è tutta propaganda", riprende la mia amica, "ti stanno ingannando: svegliati! Ti vogliono far vedere una cosa diversa da quella che era, perché hanno paura che la massa possa risvegliarsi dal suo torpore e pensare alla rivoluzione. Anche la letteratura come quella che leggi è una sovrastruttura, come il tuo 'bisogno indotto' di possedere una camicetta a pois e una sciarpetta di seta. Vai all'istituto di cultura rumeno; vai in biblioteca. Io ci sono andata e ho trovato una realtà inaspettata: la caduta del muro di Berlino ha distrutto la vita di tantissimi rumeni che, solo allora, quando si sono ritrovati senza più nulla perché tutto era finito nelle mani degli speculatori americani, hanno preso le valigie e hanno varcato il confine...". E non è che prima non potessero farlo? Non è che le valigie erano già pronte sotto il letto da anni, ma non avevano la possibilità di emigrare? La discussione non avrebbe mai avuto un termine se, causalmente e in maniera del tutto inaspettata, un pullman turistico non avesse deciso di percorrere in piena notte la stretta stradina di Montesacro in cui abita la mia amica con marito e figlio. Il segnale che il capitalismo, con il suo turismo di massa aveva raggiunto anche quel tranquillo quartiere della piccola borghesia romana.