'Piccolo è bello' è un paradigma ormai superato. Obsoleto e inadeguato, per l'attuale panorama globale del mondo imprenditoriale. Stare al passo con gli altri Paesi, essere all'avanguardia, saper penetrare un mercato fortemente competitivo significa che non ci si può più permettere di guardare nel proprio 'recinto', o distretto regionale. Soprattutto, alla luce di una crisi troppo prolungata, che ha piegato le imprese, paralizzato l'economia, bloccato la crescita del Paese. Il futuro delle aziende dipende, invece, dalla loro capacità di aprirsi al mondo, cioè di internazionalizzarsi. Anche perché, il nostro mercato interno, ancora alle prese con la 'digestione' di una crisi che si sta portando dietro pesanti strascichi, non può rappresentare una risposta efficace per la ripresa economica. L'Italia ha bisogno di un rilancio d'immagine, di visibilità e, soprattutto, di business, prendendo atto di quali siano stati i suoi limiti ed errori in questi anni, riorganizzandosi con occhi nuovi e spirito rinnovato. Il problema del nostro Paese non è nella sua mancanza di attrattiva, ma all'opposto nella propria 'chiusura'. Occorre, cioè, un cambiamento mentale e culturale: puntare all'aumento delle esportazioni, dal momento che la domanda interna non sembra crescere e la crisi ha profondamente cambiato il mondo, trasformando il nostro modo di fare industria. Mirare ai mercati esteri può essere una scelta valida e fruttuosa, se strutturata in maniera politica e non affidata alle iniziative di singole imprese. Da questa 'intuizione' è nato l'incentivo, da parte del Governo, alla creazione di una rete di imprese che puntino sull'altissima qualità dei prodotti e si affidino alla guida di personale altamente qualificato e specializzato in materia di internazionalizzazione e managment. Questa è la soluzione per essere all'avanguardia, fronteggiare la crisi e diventare fortemente competitivi sulle piazze straniere. Una 'risposta' che contempla anche un supporto soggettivo e mirato, per accompagnare le aziende - siano esse micro, piccole o medie - in un percorso di crescita e di affermazione sui mercati esteri. Secondo il
Segretario generale del ministero degli Affari esteri e la Cooperazione internazionale, Michele Valensise, che abbiamo incontrato di recente,
"in questa fase di forte competizione globale diviene fondamentale che l'Italia reagisca in maniera forte, dando il via a una ripresa sempre più visibile". Questo 'spirito' è ciò che sta alla base di una collaborazione, che vede il
Maeci (ministero degli Affari esteri e la Cooperazione internazionale) e
Mise (ministero dello Sviluppo economico) in 'squadra', con l'obiettivo di offrire alle imprese che intendano internazionalizzarsi supporti logistici e finanziari, finalizzati a favorire nuovo sviluppo economico attraverso iniziative propulsive all'estero: ovvero, tramite progetti che promuovano l'altissima qualità dei prodotti e delle eccellenze del
'Made in Italy'. Per favorire questo percorso, le imprese potranno usufruire di diversi strumenti: in primis, il contratto di rete, attraverso il quale sarà possibile avvalersi della rete di uffici che l'Italia dispone fuori dai suoi confini nazionali (ambasciate, consolati e via dicendo); accesso ai finanziamenti, poiché il piano straordinario varato per il 'Made in Italy' mette a disposizione 260 milioni di euro (una cifra che, finalmente, si avvicina a quella degli altri Paesi esteri); affiancamento alle imprese per favorirne l'inserimento, poiché in migliaia realizzano prodotti di buona qualità, ma in poche riescono a inserirsi da sole. Il tutto secondo l'ottica 'selettiva' della politica industriale: le aziende, i loro prodotti e i loro progetti verranno selezionati, al fine di finanziare solo chi può realmente aspirare ai mercati internazionali. Le istituzioni garantiscono la loro presenza nelle province italiane e nelle strutture adibite alle tematiche di internazionalizzazione, al fine di offrire alle aziende assistenza individuale (sono previste anche forme di assistenza privata, in cui verrà effettuato un 'check-up' dello stato e dei progetti dell'impresa) e un punto di riferimento per un eventuale processo di internazionalizzazione. Nel piano è contemplata anche l'obbligatorietà della figura dell'export manager, che, troppo esosa per le aziende, sarà finanziata per il primo anno dal
Mise (20 milioni di euro sono già stati stanziati proprio a tale scopo). Nessuna azienda può esportare se non ha una persona qualificata che lo aiuti.
"Il fine di questi sforzi", ci ha detto il
Viceministro allo Sviluppo economico, Carlo Calenda, "corrisponde alla volontà di formare persone dedicate alle reti di impresa, perché esse sono la risposta più moderna ed efficace, allontanandoci dalla logica del distretto e aprendoci le porte al mondo. Dobbiamo contattare queste realtà, ma ragionando su ogni singola attività in modo diverso e opposto". A supporto di questa sua analisi, il Viceministro ha tenuto a rassicurarci sul fatto che l'Italia avrebbe tutte le 'carte' in regola per farcela:
"Il tasso di crescita annua delle imprese italiane, seppur flebile (si attesta attorno al 2%), si mantiene costante. Mentre il dato riferito alle aziende francesi, per esempio, è in ribasso. Proprio la Francia, che ha sempre rappresentato un 'modello' di internazionalizzazione. Questa situazione è la riprova che, laddove la piccola impresa francese è scomparsa, quella italiana, invece, ha resistito e si è internazionalizzata, facendo ricredere una folta schiera di economisti e di specialisti del settore che davano per 'spacciato' il nostro Paese. Ma bisogna puntare più in alto. E ciò significa insistere su una serie di riforme, ma anche far comprendere alle aziende quanto sia indispensabile la presenza di un'attività di micro-management". Sviluppare l'assistenza diretta alle imprese non si prefigge, come scopo, solo quello di renderle sempre più presenti sui mercati esteri, ma anche quello di razionalizzare la loro presenza, affinché non esportino 'a caso'. Per questo motivo, sono previsti anche master e corsi di specializzazione in commercio estero, strettamente connessi alla formazione e dedicati ai giovani. Al momento, l'Italia ha 12.500 imprese perfettamente integrate all'estero. E il 59% di queste sta tecnologicamente migliorando in strategie di business: negli ultimi anni sono emersi, infatti, i settori farmaceutico, biomedicale e aerospaziale, accanto ai più tradizionali come quello della meccanica, dell'innovazione e dell'agroalimentare. Ma c'è un mondo di 59 mila imprese che non esportano, o esportano poco (la nostra quota di esportazione è pari al 30%), dunque 'sbilanciate' verso i mercati esteri. Cosa che va a evidenziare un'enorme differenziazione in termini di qualità delle esportazioni. L'internazionalizzazione, per queste 59 mila imprese è una sfida, ma anche uno dei pochi spiragli di sopravvivenza. Costituirsi in rete, usufruendo del supporto e degli strumenti finanziari messi a disposizione dal Governo, nonché intercettando con criterio i luoghi 'migliori' deputati alle esportazioni (non si può andare all'estero in maniera indifferenziata) è ormai una scelta quasi obbligata. Il contratto delle reti di imprese, in tal senso, può essere un'ottima strategia con le imprese, poiché, come ci ha spiegato anche il
Vicepresidente di Confindustria, Stefano Dolcetta, "costringe a dichiarare quali siano i reali programmi, spinge gli imprenditori a chiarire un 'business plan' e ad andare oltre la dimensione regionale e sovra-regionale. Inoltre, la 'governance' dei contratti di rete è molto semplice e non circoscritta dalla legge in 'troppa burocrazia' ed è un riferimento normativo nazionale, uguale cioè per ogni regione, che diventa, quindi, un riferimento più coerente per gli imprenditori, coinvolgendo qualsiasi tipologia di impresa, senza differenziazioni settoriali, né di dimensioni". Ultimamente, sono stati superati 2 mila contratti di rete e coinvolte oltre 10 mila aziende. La qual cosa dimostra come il 'trend' sia in crescita. Probabilmente, perché le imprese hanno intuito quante possibilità in più si possono intercettare: il contratto di rete permette di condividere contatti e conoscenze di mercati lontani; genera alleanze e progetti; incrementa le opportunità di business: consente di formare personale qualificato. E, a renderlo ancor più allettante, è la sua peculiarità di raggiungimento di un obiettivo condiviso, mantenendo intatta e inalterata l'autonomia delle imprese e la centralità del loro progetto. Anche la fattispecie giuridica sta approdando sempre più velocemente nelle questioni internazionali, tentando di capire in che modo il diritto possa essere utilizzato come strumento economico; attraendo investimenti stranieri ed esportando il nostro modello all'estero. Anche il diritto può essere uno strumento, che può contribuire al rilancio dell'economia italiana. A oggi, dei sei 'gruppi di lavoro', operativi nella creazione di 'leggi modello' per la ratifica e l'adozione da parte di tutti i Paesi membri delle Nazioni Unite, il ruolo dell'Italia non è affatto marginale. In particolare, si riscontra un fortissimo interesse, relativo alle Pmi, verso il nostro modello e la nostra disciplina normativa per esportare il più possibile. Il nostro modello diviene cioè un modo per favorire l'imprenditore italiano, qualora le nostre discipline fossero accettare anche negli altri Paesi.
"L'obiettivo del Governo è quello di portare a 50 miliardi di euro le esportazioni, puntando sul supporto delle istituzioni alle imprese e sulla consapevolezza che il 'brand' italiano all'estero è molto forte. Anche perché, viene 'avvertito' come sinonimo di innovazione", afferma il nostro
ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni. Ma la strada verso la ripresa a nostro avviso rimane ancora troppo lunga. Soprattutto perché, fin quando continueremo a preoccuparci esclusivamente del nostro 'orticello', resteremo sempre invisibili agli occhi degli altri.