Chiara ScattoneSiamo assolutamente certi che l'agricoltura biologica sia il futuro dell'umanità? Andiamo controcorrente e poniamoci una domanda: perché 8 italiani su 10, come dichiara la Coldiretti, sono contrari agli ogm (organismi geneticamente modificati)? Tutti e dieci quegli italiani sono realmente a conoscenza di cosa siano gli ogm? Abbiamo seri dubbi. E non certo perché crediamo che quei dieci italiani siano sciocchi, tutt'altro. Piuttosto, perché forse non tutti si sono fermati a riflettere su cosa siano o possano essere (e quindi provocare, nel bene o nel male) gli organismi geneticamente modificati in campo agricolo. Se si va sul sito di Greenpeace - l'associazione  sostiene tra le altre campagne anche quella denominata: 'Agricoltura sostenibile' - si può leggere che un organismo geneticamente modificato è "un organismo vivente (microrganismo, pianta, animale) modificato in laboratorio per fornire caratteristiche genetiche che la natura non ha assegnato". E che "questa operazione si chiama 'transgenesi'. Essa produce nuovi organismi viventi, spesso brevettati e, dunque, di proprietà privata di un'azienda e consente, teoricamente, tutte le combinazioni immaginabili". Questa è la spiegazione. Ma noi siamo veramente certi che gli ogm possano essere di ostacolo per un'agricoltura sostenibile? Cosa si intende con la dicitura "agricoltura sostenibile"? Un'agricoltura si può definire sostenibile quando privilegia quei processi naturali che le consentono di preservare la 'risorsa ambientale', economicamente vantaggiosa per gli agricoltori, rispettosa dell'ambiente e socialmente giusta. L'agricoltura sostenibile, quindi, si contrappone alla cosiddetta 'agricoltura intensiva', che invece sfrutta il territorio senza alcun rispetto - umano, sociale, ambientale - e usa sostanze chimiche nocive, quali pesticidi, ormoni e via dicendo. Qualche giorno fa, parlando con alcuni amici, è emerso l'argomento ogm versus agricoltura biologica. I miei amici si sono mostrati dei fortissimi sostenitori dell'agricoltura biologica e sostenibile, ma a me il dubbio è rimasto: siamo certi che un'agricoltura basata su criteri sociali ed economici solidali - e quindi biologica - sia il futuro agricolo dell'umanità? Sarà il biologico a soddisfare il bisogno di cibo che c'è nel mondo? La Fao stima che attualmente nel mondo vi sia un'eccedenza di cibo pari a una volta e mezzo la quantità necessaria per garantire a tutti una dieta adeguata e nutriente. Tuttavia una persona su sette soffre la fame: come mai? Tra le prime cause vi è probabilmente quella della povertà e della mancanza di accesso alle risorse produttive indispensabili, come la terra, l'acqua, il mare, le sementi e così via. Secondo alcuni dati di Greenpeace, il 75% di chi soffre la fame vive in zone rurali ed è politicamente emarginato. Inoltre, sembrerebbe che la ricerca in campo agricolo sia attualmente orientata verso modelli di cultura industriale, piuttosto che verso modelli di piccola agricoltura locale. Sicuramente, tra le prime cose da mettere in atto per cercare di limitare questo crescente bisogno di cibo - la crisi economica italiana ha portato più di 7 milioni di famiglie in condizioni di povertà - vi è quella di garantire una redistribuzione dei cibi in eccesso e non venduti presso la grande distribuzione organizzata. Quanti alimenti vengono buttati via dai supermercati pochi giorni prima della loro scadenza, o perché non raggiungono i requisiti estetici stabiliti dall'Unione Europea? Quanto cibo viene gettato nella pattumiera a fine giornata dalle mense di scuole e uffici? In Italia, esistono numerosi progetti volti al recupero dei prodotti alimentari non venduti. Primo fra tutti: la sperimentazione realizzata dal 2003 dall'associazione 'Last minute market' e la Facoltà di Agraria dell'Università di Bologna con la 'Coop Adriatica', denominata 'Brutti, ma buoni' e che, nel 2014, ha donato 1.113 tonnellate di alimenti a circa 137 onlus, di cui la maggior parte assiste persone in difficoltà o accudisce animali. Senza voler fare una promozione alle attività solidali della Coop o di altre società cooperativistiche, il dubbio espresso all'inizio di questo servizio rimane lo stesso: siamo sicuri che gli ogm siano così dannosi per l'agricoltura, la salute dei cittadini e la natura? Nel 2012, il ministero dell'Ambiente ha disposto su richiesta della Fondazione 'Diritti genetici', la distruzione dei campi di ogm coltivati da più di 30 anni dall'Università della Tuscia di Viterbo. In poco più di una giornata, le ruspe hanno smantellato l'appezzamento di terreno, che comprendeva olivi, ciliegi e kiwi transgenici e che veniva coltivato e studiato sin dal 1982, con l'intento di trovare varietà di piante resistenti ai patogeni, come funghi e batteri, così da contenere l'uso dei pesticidi e sviluppare varietà di dimensioni ridotte, adattabili alla coltivazione anche in zone particolari od ostili. Insomma, i biotecnologi della Tuscia, guidati dal prof. Eddo Rugini, non cercavano certamente di coltivare mais o soia geneticamente modificata con lo scopo di arricchire le multinazionali dell'industria biotech. Al contrrario, l'intento della ricerca italiana era quello opposto: studiare ed eventualmente individuare delle piante normalmente utilizzate nell'agricoltura mediterranea, come gli ulivi, capaci di resistere a funghi e batteri - magari anche alla xylella, il batterio che in queste settimane sta distruggendo migliaia di piante di ulivo nel sud della Puglia. L'Italia è, dunque, tra i primi sostenitori del 'no' agli organismi geneticamente modificati, adeguando - stranamente in anticipo rispetto al recepimento della direttiva europea, forse proprio per l'imminente apertura dell'Expo di Milano sull'alimentazione - la normativa italiana a quella comunitaria con l'emanazione di un decreto con la firma congiunta del ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, il ministro delle Politiche Agricole, Maurizio Martina e il ministro dell'Ambiente, Gian Luca Galletti, per mettere al bando il mais 'MON810'. Il mantenimento di un profilo molto severo nei confronti degli ogm rappresenta, per la Coldiretti un ottimo biglietto da visita per il made in Italy in vista dell'Expo, perché a detta dell'associazione dei coltivatori diretti, gli organismi geneticamente modificati pongono un serio problema di sicurezza ambientale e perseguono un modello di sviluppo alleato all'omologazione delle potenti lobby che producono gli ogm. Siamo certamente contrari anche noi allo sviluppo di politiche agricole massive devastanti, sia per il territorio e l'ambiente, sia per la salute di tutti gli esseri umani - e animali... - ma non possiamo altresì osservare due aspetti: il primo riguarda l'agricoltura biologica e i costi, evidentemente non sostenibili, che ne fanno un prodotto di 'nicchia', per poche élite di persone, le stesse che non avrebbero comunque problemi ad acquistare un prodotto alimentare di qualsivoglia provenienza; l'altro, è un problema più politico: mettendo da parte le lobby dell'agricoltura ogm, perché non non sostenere una ricerca scientifica che indirizzi la propria attenzione sullo sviluppo di piante e sementi transgeniche, tipiche dell'agricoltura mediterranea, capaci di resistere ad agenti patogeni altrimenti deleteri per il raccolto e la sopravvivenza dip ante e coltivazioni? Perché cioè non ricominciamo daccapo nel nostro approccio nei confronti degli ogm, guardando la questione da un diverso punto di vista e pensiamo a quale opportunità la ricerca biotecnologica potrebbe fornire nei prossimi anni all'agricoltura anche nel campo dei piante transgeniche, con lo studio di organismi vegetali capaci di sopravvivere all'attacco di elementi patogeni e di produrre frutti senza l'uso massivo di pesticidi o altri erbicidi? Che male ci sarebbe nell'ipotizzare un futuro dove sia possibile diffondere le coltivazioni in ambienti altrimenti ostili o poco ospitali e garantire, in tal modo, l'accesso alle risorse anche a coloro che ogni giorno ne restano esclusi e, magari, abbattere alcuni costi della produzione per un prodotto che non sia necessariamente 'bello', ma ugualmente nutriente?


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