Gaetano Massimo MacrìQuanti 'no' pervadono la nostra quotidianità? Sette ragazzi in tuta si dimenano sul palco, illustrando i divieti che limitano la vita di tutti i giorni. Ma esiste un limite al limite stesso? Gli attori si muovono creando una giostra di legacci e impacci, per evidenziare un problema che spesso sottovalutiamo. Al di là del sorriso che suscitano, oltre quei gesti e quelle parole passa una riflessione seria e motivata: ‘Non urlare’; ‘non litigare’; ‘non controbattere’; ‘non sporcare’; ‘non giudicare’; ‘non vestirti male’; ‘non trattarmi male’ e via dicendo. L'elenco dei ‘no’ è lungo, come quello dei divieti più assurdi e impensabili vigenti in molti Paesi. In Francia non ci si può baciare sui treni; in Florida è vietato addormentarsi sotto il casco del parrucchiere; in Alaska è vietato gettare un alce vivo da un aereo in corsa; in Inghilterra ai deputati è fatto divieto di morire nella Camera dei Lords. Una lista di assurdità sciorinata come il dettaglio della spesa. Ma nel supermarket dell’inverosimile, conviene portare a casa tutti quei no? Quale utilità potrebbe derivarne? A volte sarebbe meglio ‘saltare la corda’, proprio come fanno gli attori in scena, prima che per la stessa si finisca con l'essere fustigati. L'antidoto? Prendersi cura. Queste le parole magiche contro ogni legaccio. Uno spettacolo veramente divertente: un modo per sorridere dei limiti imposti, tanto assurdi, quanto inutili. Insigniti del premio della critica dalla testata ‘Periodico italiano magazine’ al Roma Fringe Festival 2014, questo spettacolo suggerisce un messaggio libertario basato sul buonsenso, contro i tanti divieti imposti dalla società. Limiti spesso grotteschi e inverosimili, presenti nelle leggi di quasi tutti i Paesi del mondo. Una perfomance artistica irriverente e solo apparentemente scanzonata, molto applaudita dal pubblico e portata in scena da una compagnia di adrenalinici e giovanissimi attori dei Castelli Romani, il ‘Collettivo Controcanto’, diretti da una regista geniale: Clara Sancricca.

Clara Sancricca, come ha preso forma questo spettacolo?
“Mi trovavo sotto la metropolitana e, in attesa che passasse il treno, ho dato un’occhiata al regolamento in cui c’era scritto: ‘Vietato cantare’. Sulle prime, la cosa può anche far ridere, poi ti rendi conto che, in qualche modo, siamo ormai giunti a una deriva. Perché se tenti di regolamentare tutto in negativo, poi non sai mai dove puoi arrivare. E ci sarà sempre un comportamento che sfugge alla casistica, per cui devi creare un altro divieto. Ecco che alla fine arrivi al ‘vietato cantare’: è evidente che quella norma cerca di impedire di cantare a quelle persone che lo fanno ‘di mestiere’. Però, allo stesso tempo, si traduce in un divieto per tutti. E se ‘canticchio’? Cosa succede? Da lì siamo partiti. E ci siamo accorti di quanti divieti fossero nascosti nel nostro quotidiano. Ci esprimiamo spessissimo in questa forma negativa”.

In effetti citate parecchi divieti: dove li avete trovati?
“Siamo stati bravi e abbiamo studiato tanto. Per l’Italia, basta considerare quel che è successo col ‘pacchetto sicurezza’ del 2008, che ha dato ai sindaci la possibilità di legiferare. Per cui, nei vari comuni sono emersi i divieti più assurdi. Tantissimi sono americani, perché col fatto che da loro vige il ‘common law’, qualunque precedente giuridico diventa legge”.

In totale, quanti ‘No’ vengono pronunciati?
“Mah, ci sono personaggi che, in alcune scene, si esprimono solo con dei ‘No’. Per cui, penso siano un migliaio in totale”.

Quale difficoltà hai incontrato a dirigere sette ragazzi che portano avanti lo spettacolo con un grandissimo ritmo?
“È già il secondo lavoro che facciamo così. E ci piacerebbe continuare in questo modo. Lavoriamo in maniera collettiva, nel senso che l’opera nasce da una ‘stratificazione’ di improvvisazioni successive. Ci abbiamo messo un anno a giungere a compimento. In pratica, io dò una situazione, si improvvisa su quella e loro propongono le battute. E così, pezzo dopo pezzo, si va avanti. I ragazzi sono bravissimi a mettersi al servizio di una mia idea, ma alla fine della meta ci arriviamo tutti insieme”.

La soluzione ai vari 'legacci'?
“Prendersi cura: abbiamo scelto questa espressione. Non volevamo che fosse un monito, tipo ‘abbi cura’. Questa scelta ci è sembrata la più semplice, poiché in qualche modo neutralizza tutti i divieti”.

Un parere sul Roma Fringe Festival?
“Sapevo della sua esistenza, ma non c’ero mai stata. Il Fringe, a nostro modo di vedere, non è, in realtà, un evento, come spesso viene fatto passare. Con esso gli organizzatori hanno saputo creare un bisogno. Abbiamo visto molta gente recarsi al botteghino per chiedere: ‘Che c’è stasera’? Una ‘roba’ che si fa al ristorante. Siamo molto felici di questo”.

Il pubblico vi ha sicuramente premiati: doppia soddisfazione?
“Abbiamo già un nostro seguito, molto appassionato. Però, in platea erano molti di più dei soliti ‘nostri’. E questo non ce lo sappiamo spiegare. Siamo commossi per il gran numero di spettatori. Crediamo ci sia stato un buon passaparola”.

Il pubblico pare che vi abbia capito meglio di alcuni critici…
“Nessuno ci ha stroncato. Ma alcuni, pur salvando la regia e la bravura dei ragazzi, ha puntato l’indice sul messaggio che volevamo mandare. Un messaggio che, secondo costoro, risente un po’ del clima ‘sessantottino’. La morale è stata quella per cui i ‘no’ servono, aiutano a crescere. Invece, è evidente, credo, il nostro intento di giocare col senso comune. Lo diciamo pure nelle note di regia: si tratta solo di un’autocritica che ci siamo fatti tutti. Io stessa, durante la costruzione dello spettacolo, ho scoperto quanti ‘no’ si possono pronunciare. Non volevamo rappresentare nessuna posizione anarchica”.

Però l’anarchia è presente nello spettacolo?
“Certo: ci siamo ispirati anche all’anarchico Kropotkin, che è un po’ il nostro ‘padre spirituale’, se si vuole. Lui dice che puoi fare a meno delle regole solo se hai un esubero di amore e di cura. In genere, si parla sempre male dell’anarchia, ma la stessa può essere valida in determinate condizioni. Tutti, ovviamente, abbiamo letto la sua ‘Morale anarchica’, che è stato uno dei materiali usati nella preparazione. Ma poi ognuno portava qualcosa: in una stratificazione di lavoro così lunga, ti puoi permettere di buttarci dentro qualsiasi cosa…”.




(intervista tratta dalla rivista 'Periodico italiano magazine')
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Roberto - Roma - Mail - lunedi 15 settembre 2014 16.43
Oh! Finalmente un servizio sul sano buon senso anarchico. Questo è il tipo di laicismo che apprezzo di più.


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