Apericena, aperitivo cenato, cotoletteria: dietro molti neologismi si cela un alto grado di confusione mentale. L’italiano ‘sporcato’ piace, fa ‘figo’, ma denota un’inculturazione imperanteCi facciamo un’apericena? Aperi che? Sì, un ‘aperitivo-cena’. C’era una volta la lingua italiana, chiara, semplice e inequivocabile. Riflesso di abitudini altrettanto cristalline e ben definite. Col tempo si vede che la moda e altri fattori hanno inquinato quelle abitudini. Di conseguenza, anche la lingua è mutata, per adeguarvisi. L’aperitivo, per esempio, partiamo da qui. È un termine squisitamente italiano (di origine latina, da aperio, aperire, nel senso di aprire, preparare lo stomaco al cibo) legato a un’abitudine nata proprio in Italia. Significa che la cena ha un momento tutto suo, ben distinto dal precedente in cui, se si vuole, si può bere qualcosa per stuzzicare l’appetito. ‘Apericena’ cosa vuol dire, allora? O è cena, o è aperitivo (per quanto sostanzioso possa essere il buffet). Il termine confonde momenti e abitudini. Li confonde perché sono già confusi essi stessi, nella realtà. Se volete accrescere lo stato di confusione, ecco servito un altro termine: ‘aperitivo cenato’. Cenato? Si mangia da solo? Siamo fuori da ogni regola logico-grammaticale, non solo abitudinaria. ‘Cenato’ potrebbe lasciar intendere che uno è già ‘a posto’, ha già fatto. Ancora devo iniziare, che già ho consumato? Il dubbio continua a permanere. Con l’estate che avanza, gli ‘aperisummer’ o gli ‘aperi’ e qualche altra cosa, non si contano. Anche i ‘vegani’ hanno il loro: ‘aperiveg’, ovviamente. Potremmo inventarci un ‘aperipress’ in redazione. E la domenica, il parroco potrebbe raccogliere fondi per una giusta causa, con un ‘aperitivo della Madonna’. Chissà che Matteo Renzi non inviti Grillo per un ‘aperigov’ prima della discussione sul ‘democratichellum’ (altro termine orripilante…). Tartine di ddl, insalata ‘Di Maionese’ e drink di benvenuto a base di voto segreto. Al contrario, si stanno diffondendo luoghi in cui non è possibile equivocare. ‘Cotoletteria’, per esempio. Cosa volete che faccia, se non cotolette in ogni declinazione? E perché, ‘spiedineria’ vi suona male? Quella che abbiamo visitato noi, tra l’altro, è specializzata solo in spiedini di gamberi e calamari. Insomma, chi vuole mangiare deve procedere per tappe: dall’antipasteria, alla (questa è nota) caffetteria, ci sono tutti i gradi della tavola. Ogni portata ha i suoi luoghi di culto, dove la materia prima si trasforma sempre e solo nello stesso oggetto, il tipo di cibo per cui si è scelto di impegnarsi. Fuori, nelle nostre città inquinate, c’è un mondo specializzato nei sapori, puliti, di una volta. Ultraspecializzato, a dire il vero. Sì, perché il mangiare per strada, all’occorrenza, non è più questione risolvibile con un panino ‘crudoemozzarella’ al negozietto di alimentari: il cibo per strada è diventato un’arte. Intanto si chiama ‘food street’, scusate se è poco, ma i nomi contano, l’apparenza in questo caso non inganna. Un food street, che un po’ richiama un generico ‘food art’. Il tocco artistico, dunque, è assicurato. In nome della buona cucina ‘della nonna’, si arrostisce, si frigge, si inforna secondo antiche ricette, seguendo (nuovi) metodi vecchi. Tutto in diretta, per strada. Il prezzo, certo, non è più quello di una volta, ma come si può pretendere diversamente? Quei food maker difendono una tradizione! Quei nomi che leggete sulle loro insegne (appunto frittateria, bracioleria, cotoletteria, ecc…) rappresentano la più alta specializzazione culinaria. Quelle parole, che a molti suonano insolite, sembreranno sinonimo di qualità. Il sigillo di garanzia che in quel dato luogo, pardon, ‘location’, tutto è buono, perché non fanno altro che quello. Le nuove parole ci ammorbano. “Scusi, per caso ha qualcosa da stuzzicare? Non so, qualche patatina… O magari un po’ di affettati?”, “Noi facciamo finger food”. E sul food va bene, ci arriviamo, ma su quel finger si infrange ogni certezza. Cosa vorrà dire? Lo ignoriamo, ma quel “Noi facciamo” suona rassicurante. Ci rimettiamo nelle mani del locale, scusate ancora: della location, al massimo cocktail bar. Anzi, non sia mai, quella è espressione vetusta, è ritornato di moda l’italiano dal sapore un po’ futurista: cocktaileria. Suona meglio, non c’è che dire. Ancora una volta, come si diceva, il nome è garanzia di qualità. Vuoi un buon drink? Vai alla cocktaileria. Vuoi cenare? Sempre lì, fanno una cena, o meglio un’apericena. Se, ogni tanto, tornassimo a casa della mamma, della zia, della nonna, potremmo veramente gustare le cene coi sapori di una volta. Magari con un buon aperitivo fatto di vino chinato, seduti in una cucina che odora di ricordi, oltre che di sapori veri. Invece, preferiamo una ‘location’ ‘figa’ dove non si cena, né si fa aperitivo. Dove il maschile (aperitivo) e il femminile (cena) si incontrano per dar vita all’ibrido ‘apericena’. Persino l’Accademia della Crusca è in dubbio sul ‘genere’: pare che il termine sia ambivalente, l’ennesima stortura di tempi rinnovati. Questi neologismi, da un lato sembrano nati per confonderci; dall’altro, sono stati generati da idee che noi stessi abbiamo, al momento, alquanto confuse. Il vocabolario, come una carta di identità, esprime i nostri connotati. Ma cosa abbiamo fatto a scuola durante questi anni, anziché arricchire la terminologia? Perché qui di ricco è rimasto solo il buffet dell’aperitivo. Anzi, la cena. E allora, apericena sia. Col mondiale di mezzo, poi, pare tutto un aperitalia. Povera Italia: vi prendesse un’aperitonite, con tutto questo uso e abuso di neologismi.