Carla De LeoIl 16 ottobre 2013 è stato consegnato alla ‘Monsanto’, multinazionale che si occupa di biotecnologie agrarie, il premio Nobel per l'agricoltura per aver creato gli Ogm. Tale riconoscimento ha destato numerose polemiche: sono molte le prove, infatti, che gli organismi geneticamente modificati rappresentino un rischio per la salute umana e che non garantiscano i benefici promessi. Protetti da brevetti industriali, essi sono la causa della scomparsa di antichissime tradizioni culturali e costituiscono una seria minaccia per la tutela e la conservazione della biodiversità. Una verità che coloro che sono impegnati nella ‘controinformazione’ cercano di diffondere da qualche anno, denunciando anche quella che, di fatto, è la più grande sfida finanziaria mai esistita. Secondo il dottor Gilles Séralini, esperto della Commissione Europea sui transgenici recentemente intervistato dal sito www.rebellion.org, “ci sono quattro piante che alimentano il mondo in modo intensivo: soja, mais, riso e grano. Le compagnie registrano brevetti sulle piante di questi alimenti grazie agli Ogm. Chi ha il brevetto e riceve ‘royaltis’ ogni volta che qualcuno li mangia o li coltivi nel pianeta sarà il re del mondo. Per questo, le grandi case farmaceutiche hanno cominciato a fare gli Ogm. Le 8 più grandi case farmaceutiche sono le 8 compagnie di pesticidi e di Ogm. Monsanto possiede l'80% della bioteconologia mondiale” (intervista completa tradotta su Voci della strada: http://www.vocidallastrada.com/2009/04/gli-ogm-sono-dannosi-per-la-salute.html). Al di là di tutto ciò che si legge sul web in merito all’imperialismo americano e al controllo dei popoli (come diceva Henry Kissinger: "Se controlli il petrolio controlli le Nazioni, se controlli gli alimenti controlli i popoli"), quella degli Ogm è la storia di una ‘rivoluzione mancata’. Vediamo perché. Con l’avvento delle biotecnologie genetiche è stato possibile creare esseri viventi il cui Dna è stato manipolato. In laboratorio l’uomo è stato in grado di ‘inventare’ specie vegetali e animali che in natura non esistono, mescolando cellule embrionali di diversa provenienza, ricombinando il Dna e dando vita a processi di clonazione. Gli organismi geneticamente modificati sono, pertanto, il risultato del trasferimento di geni da un organismo all’altro. Scopo della ‘ricombinazione’ è quello di inserire una determinata proprietà in un nuovo organismo vivente, al fine di renderlo maggiormente produttivo o resistente a determinate temperature, insetti, batteri, parassiti e via dicendo. Utilizzati prevalentemente dall’industria farmaceutica e agroalimentare, alle loro prime ‘apparizioni’ gli Ogm vennero presentati al mondo come la soluzione al problema della fame e della malnutrizione nei Paesi poveri (molti prodotti venivano arricchiti con quelle vitamine che risultavano carenti nelle ‘magre’ diete alimentari di numerose popolazioni). L’agricoltore che decide di passare dall’agricoltura tradizionale a quella transgenica viene allettato da una serie di promesse: rese più elevate, minori costi di gestione, resistenza delle piante agli attacchi parassitari, che sono tra le principali cause della compromissione dei raccolti. L’utilizzo di sementi ‘Gm’ ha effettivamente consentito agli agricoltori di ottenere rendimenti maggiori. Ma il prezzo da pagare, nel lungo periodo, si è rivelato troppo alto: nelle aree più povere del mondo sono considerate la prima causa dell’inasprimento dei divari sociali, poiché solo i contadini più ricchi possono permettersi l’impiego delle ingenti risorse idriche e dei prodotti chimici che queste sementi richiedono (i semi transgenici sono venduti in pacchetti insieme ai prodotti chimici necessari per farli crescere, quindi a un costo già di per sé elevato). Inoltre, l’abuso di queste componenti alimenta un considerevole impatto sugli ecosistemi accrescendo i processi di erosione, di desertificazione e di inquinamento delle acque superficiali e sotterranee. Fenomeni che, alla lunga, conducono inevitabilmente alla perdita di biodiversità. Infatti, l’impiego generalizzato di varietà ad alta resa, che in molti luoghi si è gradualmente sostituito alle migliaia tipologie di riso, grano, frumento e mais prima utilizzate, hanno causato una perdita di biodiversità e diversità culturale di inestimabile valore. Al momento, non è possibile conoscere quali potrebbero essere, in futuro, gli effetti  dell’introduzione di Ogm sugli ecosistemi. Ma qui ricordo che, già nel 2003, l’Idp (Indipendent science panel) con la collaborazione di illustri scienziati elaborò un rapporto in cui si ‘avvertiva’ la popolazione mondiale sui possibili rischi connessi alla coltivazione di organismi geneticamente modificati, sottolineando come queste colture, oltre a non mantenere i benefici promessi, ponevano (e continuano a porre) l’agricoltura di fronte a nuovi problemi determinati, in primis, dall’impossibilità di coesistenza tra agricoltura ‘Gm’ e ‘non-Gm’ (è stata ampiamente dimostrata l’inevitabilità della contaminazione transgenica). Inoltre - continua il rapporto - le coltivazioni transgeniche non si dimostrano sicure e sussistono evidenze scientifiche tali da suscitare serie inquietudini intorno alla sicurezza per la salute umana e per l’ambiente (inquietudini che, se ignorate, potrebbero provocare danni irreversibili). Esiste, in effetti, il pericolo che gli Ogm possano facilitare ricombinazioni genetiche di virus e batteri i cui esiti non possono essere previsti, né controllati. Il Dna transgenico, poi, è in grado di superare i processi digestivi nell’intestino e di raggiungere direttamente le cellule dei mammiferi. Ciò significa che si potrebbero innescare potenziali processi cancerogeni, riattivare o creare nuovi virus. È segnalata anche la resistenza degli Ogm agli antibiotici (poiché in essi, oltre al gene desiderato, vengono inseriti altri geni, detti ‘marcatori’, che contrastano l’azione antibiotica). Oltre a ciò, occorre sottolineare come le manipolazioni genetiche si effettuino tra specie vegetali e animali diverse, cui alcuni individui potrebbero essere allergici, come confermato in diversi casi. Uno dei più drammatici fu quello del Triptofano (un integratore alimentare contro l’insonnia) derivato da un ‘batterio Gm’ che causò allergie a migliaia di persone, delle quali 1500 sono rimaste colpite permanentemente da una malattia del sangue e 37 sono decedute. Altro caso noto è quello del gene della ‘noce brasiliana’ inserito nei semi di soia, che ha causato reazioni allergiche in tutti quei soggetti sensibili alla noce. Ma le piante transgeniche sono presenti anche nei mangimi animali. Dunque, la reazione allergica si può presentare anche mangiando la carne di un bovino nutrito con varietà di soia geneticamente modificata. Sta di fatto che il considerevole aumento dei casi di allergia riscontrati a livello planetario è sempre più associato alla diffusione di ‘pollini Ogm’ e alle sostanze contenute nei prodotti alimentari che consumiamo ogni giorno. Ulteriore causa di ‘perplessità’, infine, deriva dalla non adeguata sperimentazione degli Ogm circa la valutazione dei potenziali danni sull’ecosistema e sulla salute umana: le società produttrici, infatti, giovano di una generica dichiarazione di ‘sostanziale equivalenza’ tra piante ‘Gm’ e ‘non-Gm’, affermando che non esiste alcuna differenza dal punto di vista nutrizionale, organolettico e tossicologico rispetto ai corrispettivi prodotti ottenuti da colture convenzionali. E negli Stati Uniti - madrepatria delle imprese biotech e maggiori produttori di Ogm - è previsto che l’impresa fornisca una semplice autocertificazione sulla innocuità e salubrità dei suoi prodotti alla ‘Food and drug administation’ (l’organismo di controllo competente più autorevole del mondo). Anche i prodotti chimici che accompagnano gli Ogm sono risultati altamente tossici negli studi di laboratorio (disturbi neurologici, respiratori, gastrointestinali, difetti di nascita in esseri umani e mammiferi). Questo il quadro generale del rapporto dell’Isp. Ma a simili conclusioni era giunto anche il rapporto della Fao del 2008. Non dimentichiamo, inoltre, che il settore delle biotecnologie è nelle mani dei colossi della chimica e dell’agroalimentare, per cui è facile intuire l’entità degli interessi economici in gioco ed è chiaro che il loro operato non può essere improntato alla beneficenza. Un caso esemplare in tal senso, che suscitò scalpore e indignazione, è quello di un prodotto immesso nel mercato proprio dalla società ‘Monsanto’ diversi anni fa. Per chi non ne avesse memoria, l’azienda produsse dei semi, detti ‘Terminator’, progettati per fornire un solo raccolto. A differenza delle sementi normali, quindi, che possono essere reimpiegate per una nuova semina, queste, una volta giunte a maturazione, non erano più utilizzabili. In ogni caso, chi decida di fare agricoltura geneticamente modificata deve acquistare le sementi ogni anno (e relativi prodotti chimici) dalle multinazionali. Quest’ultime non vendono i semi, ma ‘affittano’ all’agricoltore, per l’anno di semina, le caratteristiche geneticamente modificate che ‘sono’ e rimangono di proprietà dell’industria. Per la semina successiva, l’agricoltore non potrà quindi utilizzare i frutti del raccolto precedente, se non pagando nuovamente l’affitto dell’informazione geneticamente manipolata. Gli Ogm, infatti, sono protetti da brevetto industriale e rientrano, pertanto, nella categoria dei ‘Trip’s’ (Aspetti economici relativi al commercio dei diritti di proprietà intellettuale), regolamentati nell’ambito della World trade organization (il brevetto ha una validità di 20 anni). Ciò significa che chi li utilizza deve riconoscere all’industria produttrice un diritto di proprietà intellettuale, contenuto nell’Ogm stesso. E per i contravventori, le penali imposte dalle multinazionali sono salatissime. In questo modo, gli agricoltori di mezzo mondo si ritrovano inestricabilmente legati ai colossi dell’agro-alimentare, poiché è evidente che qualsiasi problema sorga dalla coltivazione di una pianta transgenica, bisognerà rivolgersi all’industria che l’ha creata. Nel frattempo, i semi Ogm costano, i contadini più poveri si indebitano sempre più e le promesse non vengono mantenute: i costi di gestione risultano più elevati (a causa della necessità di ingenti risorse idriche e di prodotti chimici) e, soprattutto, le coltivazioni geneticamente modificate non garantiscono, in realtà, quei tanto sognati raccolti più fruttuosi. Anzi, l’andamento di queste coltivazioni si è rivelato, spesso, inaffidabile. Com’è accaduto in India e in Andrha Pradesh dove, nel 2006, i contadini sono stati testimoni del totale fallimento dei raccolti. La questione dei diritti di proprietà intellettuale riguarda anche piante e animali presenti in natura: se le industrie farmaceutiche riconoscono a determinati esseri viventi ‘proprietà’ medicinali, le piante o gli animali verranno studiati in laboratorio per la creazione di farmaci (risultanti anche da combinazioni genetiche di specie diverse). Da quel momento, su questi organismi verrà apposto un brevetto che vieterà a chiunque altro di raccoglierli o utilizzarli, se non pagando il relativo diritto di proprietà all’impresa che li ha brevettati. Ora, il problema diviene anche etico, perché la distribuzione di piante e animali con proprietà curative privilegia le aree più povere del pianeta e la questione dei ‘Trip’s’ sta determinando la progressiva scomparsa di tradizioni culturali antichissime. Le industrie, infatti, brevettano organismi utilizzati da immemore tempo dalle comunità locali del sud del mondo, le quali conoscono le loro proprietà curative, così come i procedimenti di estrazione e somministrazione. Queste comunità, a causa dei brevetti, vengono perciò private di una parte integrante ed essenziale della loro cultura, poiché, pur volendo, non hanno la possibilità di pagare le spese per brevettare l’uso di una pianta o di un animale. La storia degli Ogm risulta, quindi, assai complessa. E non servono dimostrazioni scientifiche per constatare che si tratti di una pratica contraria a quei principi di ‘prevenzione e precauzione’ che, almeno teoricamente, sono entrati a pieno titolo nelle politiche ambientali internazionali già dal 1992. Tra gli obiettivi elencati ne ‘La Convenzione sulla biodiversità’, sottoscritta da buona parte dei Paesi del mondo (Stati Uniti esclusi) all’Earth summit di Rio de Janeiro del 1992, quello di “Regolamentare, gestire e controllare i rischi associati all’uso delle biotecnologie” rivestiva un ruolo di primaria importanza. E, all’articolo 14 della Convenzione venivano elencate anche diverse ‘valutazioni’ che ciascun Paese membro (e firmatario) avrebbe dovuto adottare per valutare e minimizzare gli ‘impatti’ che possono nuocere alla biodiversità. Stessi ‘buoni propositi’ furono proposti alla Conferenza delle parti di Cartagena, dove venne approvato un Protocollo sulla biosicurezza nel quale erano descritte misure e indicazioni volte alla protezione della biodiversità e della salute umana dai rischi potenziali degli organismi geneticamente modificati e delle biotecnologie. Ma tra i grandi assenti dalla ratifica della Convenzione troviamo proprio tutti quei Paesi con l’industria biotech più attiva e avanzata su scala globale: Stati Uniti, Canada, Australia, Uruguay, Argentina, Russia e Israele.

E l’Italia?
Negli ultimi vent’anni, diversi Governi, a partire da quello guidato da Giuliano Amato, hanno tentato di bloccare l’introduzione di Ogm non applicando le direttive emanate dalla Cee, anche a fini sperimentali, scatenando l’ira degli scienziati. Nel 2003, la legge italiana ha però dovuto assorbire la direttiva europea 2001/18/CE, con la quale si sancì il permesso di effettuare sperimentazioni a tutti i livelli di ricerca. Il decreto ha anche stabilito che, se nei semi utilizzati per i mangimi animali e per le coltivazioni la presenza di Ogm non supera la soglia dello 0,049%, la semenza sia da considerarsi ‘tollerabile’ sotto il profilo della sicurezza alimentare. Prima del 2003, invece, l’Italia aveva adottato una politica di ‘tolleranza zero’ ed era, perciò, vietata anche la più bassa percentuale di Ogm in semi e mangimi, mentre in Europa il margine di tolleranza era già dello 0,5%. Per la produzione alimentare, invece, la percentuale di Ogm consentita è lo 0,9% (le aziende hanno l’obbligo di segnalarla sull’etichetta). A luglio di quest’anno, infine, a Palazzo dell’agricoltura si è svolto un incontro tra il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, il ministro delle Politiche agricole, Nunzia De Girolamo e il ministro dell’Ambiente, Andrea Orlando, i quali, prendendo in esame la questione della coltivazione degli organismi geneticamente modificati, hanno emanato un decreto attraverso il quale si è sancito il ‘blocco’ delle coltivazioni ‘Gm’. Secondo le indagini della Coldiretti, la decisione del Governo avrebbe il sostegno di 8 italiani su 10. I ministri sostengono che tale decreto sia necessario non solo per tutelare la diversità biologica, ma anche la ‘distintività italiana’. Il ‘Made in Italy’ rappresenta, infatti, una grande risorsa competitiva sui mercati internazionali per il futuro del Paese. Inoltre, vietare gli Ogm significa opporsi all’omologazione, esseri liberi da minacce per la sicurezza ambientale e alimentare, affermare un modello di sviluppo sostenibile. In Italia, attualmente, non ci sono colture Ogm, se non a livello sperimentale. Con questo, tuttavia, il nostro non è per nulla un Paese ‘Ogm free’, dato che la maggior parte dei mangimi utilizzati negli allevamenti italiani è composta da soia e mais geneticamente modificati importati da Stati Uniti, Canada e America Latina.



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Carla De Leo - Roma - Mail - lunedi 21 ottobre 2013 12.25
RISPOSTA AD ANDREA: la ringrazio per il dubbio sollevato, che mi ha permesso di riscontrare l'assenza di una precisazione (che adesso ho inserito). Ad ogni modo, per essere più chiari: al di là di qualsiasi percentuale concessa dalla legge, il prodotto Ogm free praticamente è inesistente, dal momento che non è possibile controllare la provenienza dei mangimi utilizzati negli allevamenti italiani.
Vittorio Lussana - Roma - Mail - lunedi 21 ottobre 2013 11.56
RISPOSTA AL SIGNOR CARLO: gentilissimo lettore, la ringrazio per queste sue interrogazioni, che ci danno modo di spiegare alcune scelte di linea editoriale della presente testata. Al primo interrogativo da lei proposto, le rispondo con la nostra considerazione sui cosiddetti 'a capo' in quanto meri espedienti tecnici per 'allungare' un testo che non è riuscito a raggiungere il numero di battute previste dalla 'gabbia' di un articolo. Dunque, siccome riteniamo di poterci esprimere senza lacune di sorta, nemmeno di carattere tecnico, non amiamo riportare il lettore alla riga successiva, obbligandolo a una sorta di 'salto' della lettura stessa. Più corretta, invece, la sua seconda obiezione, ovvero quella relativa a una divisione in 'blocchi' delle diverse parti di un articolo, soprattutto quelli derivanti da una vera e propria inchiesta, come quello presentato questa settimana in apertura di pagina. Tuttavia, alcune volte le inchieste si prestano naturalmente a una divisione per paragrafi da separare mediante appositi titoli, altre volte no. Tuttavia, faremo tesoro dell'indicazione da lei fornitaci per il futuro, al fine di rendere meno 'faticoso' lo sforzo di lettura di coloro che ci seguono. Cordiali saluti e distinti ringraziamenti. VL
andrea - italia - Mail - lunedi 21 ottobre 2013 11.35
Articolo molto interessante, grazie, solo verso la fine trovo un dubbio: se in Italia è approvato un contenuto di OGM inferiore allo 0,5% nei mangimi per animali per ottemperare a direttiva CE (mentre per la "produzione alimentare", quindi umana, è maggiore?), può essere che negli stessi mangimi sia poi presente per la maggior parte soia o mais transgenico proveniente dall'estero come detto in fondo? O le due affermazioni sono in conflitto o non ho capito del tutto: il limite tratta della produzione nostrana, mentre l'acquisto / consumo è libero? Grazie ancora se potrà chiarire
carlo - italia - Mail - lunedi 21 ottobre 2013 6.31
OK come contenuto, ma ho avuto difficoltà nel leggere. Non chiedo di mettere titoletti sui vari temi trattati, ma perché non andate mai a capo o fate un piccolo spazio ogni tanto? Leggere un pezzo tutto di un blocco è molto faticoso. A un certo punto della lettura sono saltato all'ultimo paragrafo, che peraltro dava informazioni interessanti.


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