Carla De LeoL’immagine del ‘vero maschio’ è da secoli identificata, nella società occidentale, con l’uomo forte, prestante e coraggioso. E la sessualità è l’atto che dà la conferma di una mascolinità da ostentare, pena l’etichetta di ‘femminucce’. Ma a una comparazione temporale e sociale, questo ideale non regge e si scopre che non è stato sempre così. Cosa significa, dunque, essere un ‘vero uomo’? A partire dagli ultimi due secoli, l’ideale che si è imposto nella società occidentale è strettamente legato a caratteristiche fisiche e a codici comportamentali. Avere un corpo prestante, una voce profonda e un folto ‘vello’ sul petto sono attributi che sicuramente ‘aprono la strada’ verso la definizione di virilità. Ma questo non basta. Per suggellare lo status di ‘maschio vero’, la società si aspetta soprattutto che l’uomo assuma atteggiamenti che lo distinguano dalla condotta delle donne. Chi non è coraggioso, chi non riesce a dominare le proprie emozioni, chi non afferma la propria ‘esistenza’ con la forza e chi non si butta nella mischia alla conquista di una femmina è condannato a non essere considerato virile. Figuriamoci un uomo che si prende cura del proprio corpo, o che svolge mansioni considerate consone al ‘gentil sesso’. Con il termine virilità, inoltre, si fa riferimento alla prestanza e alla potenza sessuale dell’uomo: il numero e la durata dei rapporti sessuali sono considerati indici indispensabili per stabilire ‘quanta’ virilità ci sia in un determinato maschio. Ma questo prototipo di ‘maschio-macho’ di cui è intrisa la nostra cultura corrisponde a un ideale piuttosto recente, che si è diffuso perché, a un certo punto, la virilità è stata confusa (e assorbita) con la mascolinità biologica, appellandosi, di conseguenza, a tutta una serie di attributi fisici. Studi antropologici ed etnoantropologici dimostrano, invece, che la virilità è un concetto mutevole nel tempo e nello spazio, strettamente connesso alle tradizioni e alle necessità di una determinata comunità sociale. Potrebbe essere utile ricordare che, nella sua etimologia, il ‘vir’ latino - con il quale si indicava un essere umano adulto di sesso maschile, ma che significa anche marito, maschio ed eroe - ha dato sì origine all’aggettivo ‘virile’, ma accanto ad esso ha generato anche il sostantivo ‘virtù’. E l’età virile, che corrisponde al periodo successivo alla transizione da ragazzo ad adulto, è sempre stata considerata, in tutte le civiltà, il momento più importante nella vita di un individuo. Importante, ma affrontato in modi distinti di civiltà in civiltà. Perciò, se in occidente il David di Michelangelo rappresenta uno dei maggiori modelli di bellezza maschile e virilità, ciò potrebbe non essere valido in altri luoghi. L’antropologia culturale ha evidenziato, infatti, come il concetto di virilità maschile si sia dimostrato differente, nei tempi e nelle culture, rispetto al semplice concetto di mascolinità anatomica. E ha altresì ‘avvertito’ che non è mai bastato nascere maschi per essere considerati veri uomini, perché, per essere considerati tali, non è sufficiente aver raggiunto la maturità sessuale (che si rivela spontaneamente con la maturazione biologica). Ciò che, invece, è necessario è che questo ‘status’ venga conquistato attraverso il superamento di alcune ‘prove’, che saranno la dimostrazione di un acquisito posto nella società.

La virilità nel tempo
Nelle società arcaiche, avere molti figli era sinonimo di virilità e garantiva il successo sociale. Per far questo era indispensabile attirare le donne. Questo modello di virilità faceva quindi riferimento a forza e prestanza fisica, caratteristiche che suggerivano l’idea di un uomo capace di provvedere al sostentamento della donna e della sua prole.

Nel mondo ellenico e nell’affine civiltà cretese, il passaggio all’età della virilità avveniva, per ogni cittadino, tra i 12 e i 15 anni sotto la protezione di un maestro, che lo istruiva in filosofia e in matematica e che intratteneva con l’allievo una relazione omosessuale (lungi dall’essere concepita con la moderna accezione di omosessualità). Questo periodo era considerato di iniziazione e, al suo termine, il giovane poteva sposarsi e iniziare la sua vita sessuale con le donne.

Per i romani, le prestazioni sessuali erano strettamente connesse alla virilità. ‘Vir’ erano solo i maschi che avevano compiuto la prima esperienza sessuale e ‘virili’ erano coloro che sapevano fare l’amore con le donne, ma che riuscivano a sedurre anche giovani uomini. Relazioni omosessuali con adolescenti di entrambi i sessi non suscitavano scalpore, né indignazione, mentre l’esibizione e la cura del proprio corpo era considerato un atteggiamento da donne. Con i romani inizia a farsi strada il modello dell’uomo ‘duro’, capace di sacrificarsi per la Patria. Perciò, caratteristiche della virilità romana erano anche prestanza fisica e coraggio.

Nel Medioevo si passò dal modello virile di uomo guerriero a quello di maschio ‘intellettuale’. La potenza era contenuta anche dalla ragione e la vittoria si poteva ottenere anche con l’abilità. Modello che, nei secoli successivi, portò all’ingentilimento delle corti di tutta Europa, sostituendo l’uomo istintivo con quello sapiente.

Fino al XVIII secolo, il vero maschio poteva essere solo aristocratico. In seguito, fu considerato virile anche chi conquistava lo status di soldato o chi avesse servito la Patria e il proprio re. Ma nella vita privata, il vero uomo doveva divertirsi senza coinvolgimenti affettivi, condizione che cambiava dopo il matrimonio, con il quale l’uomo doveva ‘frenare gli entusiasmi’ (almeno pubblicamente) perché una certa dignità veniva riconosciuta anche alle donne.
Con l’Ottocento si afferma il concetto di dominazione accanto a quello di virilità. Uomo e donna erano considerati gli esatti opposti: se la donna era il sesso debole e non era adatta ai rapporti sociali, l’uomo si configurava come dominatore e, per sua natura, portato all’azione.

Il Novecento è stato il secolo delle guerre mondiali (soprattutto, ma non solo) che, mutuando il modello di virilità ottocentesco, ha imposto l’immagine dell’uomo imperturbabile e impenetrabile. La virilità è stoica accettazione delle punizioni, trattenere e ricacciare lacrime ed emozioni. Lo status si conquista attraverso la ‘potenza’ sessuale e l’erezione. Ma l’uomo deve anche suggellare la sua virilità assolvendo ai suoi compiti: il vero uomo è colui che da alla sua sposa la possibilità di avere figli.

La virilità a confronto con lo spazio
I popoli nordeuropei avevano, rispetto alle civiltà contemporanee, una concezione totalmente diversa della virilità. I Franchi, per esempio, per quanto ambissero a somigliare a Fro, il loro dio della fertilità, raffigurato con un enorme fallo, consideravano atteggiamenti e scelte virili anche la temperanza, l’astensione dall’adulterio e il valore e il coraggio dimostrati sul campo di battaglia. Il concetto di virilità era, pertanto, completamente distaccato da quello di sessualità. E lo conferma il fatto che anche le donne (anch’esse guerriere), qualora si dimostrassero impavide e temerarie, potevano anch’esse essere considerate ‘virili’.

In Nuova Guinea, il popolo dei Sambia ha una concezione ‘curiosa’ del processo iniziatico di mascolinizzazione. Il rito di passaggio all’età adulta e virile culmina nella ‘fellatio’ omosessuale tra il neofita e un anziano. Presso i Sambia, infatti, si ritiene che lo status virile non sia insito nell’individuo e che, quindi, occorra introdurlo artificialmente. La centralità dell’atto omosessuale nella costruzione di veri uomini non è fine a se stessa, ma si configura come rito necessario perché, mentre la femminilità è un dato biologico, la mascolinità, invece, si può raggiungere solo per acquisizione, cioè per trasmissione, o meglio, per ‘inseminazione’. Ingerendo sperma, l’essenza del ‘vero uomo’, i giovani Sambia spingono il loro corpo a virilizzarsi.

Per i Guayachi,
popolazione nomade del Paraguay, la trasformazione in veri uomini avviene, in primis, attraverso una trasformazione del proprio corpo mediante perforazioni, incisioni e scarnificazioni. La perforazione simboleggia, in questa cultura, la rottura con il mondo dell’infanzia. Soltanto dopo questi processi di mutazione fisica, lo status di uomo può definirsi completamente raggiunto e al giovane è consentito diventare cacciatore e di avvicinarsi alle donne comportandosi come gli altri uomini del gruppo.

Tra i Mehinaku del Brasile centrale,
l’uomo per essere considerato virile deve avere un corpo atletico e muscoloso. Ma attributi indispensabili nella definizione del vero uomo sono altri due: l’uomo deve essere alto e deve muoversi con grazia. Un individuo basso e privo di eleganza viene disprezzato e considerato poco desiderabile sessualmente. L'uomo basso non è virile e non merita rispetto: sua moglie può essere corteggiata dagli altri uomini senza alcun problema e pudore.

In Giappone e nelle civiltà dell'estremo oriente,
la definizione del vero uomo non ha a che fare né con la statura, né con l’imponenza fisica. L’uomo virile e l’eroe sono infatti, assai spesso, uomini piccoli, ma dotati di grande agilità. Non è la potenza del corpo a trasmettere il senso di virilità, bensì la sua elasticità muscolare. Valori di fedeltà, devozione, rispetto, coraggio e altruismo sono gli aspetti culturalmente più tradizionali di completamento definitivo della virilità mascolina.

Fra i Samburu,
popolazione di pastori del Kenya settentrionale, la virilità di un uomo è valutata in base alla competenza nel gestire le mandrie. Un vero uomo Samburu, oltre alla propria famiglia, deve saper accrescere la sua mandria.  

Per i Tahitiani
la virilità non è un valore da ostentare in pubblico. Anzi, gli uomini che la esprimono attraverso l’uso della forza sono considerati ‘stranieri’. I tahitiani non amano competere, non praticano la vendetta, non condannano la timidezza e non proteggono le loro donne. Gli uomini si dedicano sovente alla cucina perché non esiste, nella loro cultura, una ferrea divisione del lavoro. La virilità non è concettualizzata come ‘status distinto’ dalla femminilità, poiché non rimanda ad alcun comportamento o ad alcun ambito ‘simbolico’ specifico.

Questi esempi sono solo un piccolo compendio del diverso valore e significato che un ‘concetto-pilastro’ della sensibilità maschile può, di volta in volta, assumere nella stessa società o in società diverse. Ciò che viene considerato l’assunto e l’essenza del vero maschio risulta, insomma, soggetto a forti ‘oscillazioni’, strettamente connesse al folklore e all’identità di una determinata civiltà in un determinato momento storico. Già nel mondo occidentale, per esempio, in seguito al processo di democratizzazione, abbiamo assistito a uno spostamento di accento e di toni nella definizione di vero uomo, il quale non ha più coinciso con l’ideale del maschio-dominatore. La democratizzazione degli ideali consentirebbe l’affermarsi di rapporti maggiormente ‘paritari’ tra uomini e donne. Abbandonando la strada del ‘dominatore’, dovrebbero essere presto superati certi stereotipi che identificano gentilezza, cortesia ed eleganza come tipicamente proprie del modo di fare femminile. Ma è davvero così? Antropologi e sociologi scorgono, invece, alcune tracce di un ‘ritorno ciclico’ dell’uomo ‘selvaggio’, quello che, per sentirsi virile, sente il bisogno di confrontarsi con le debolezze femminili. Probabilmente, in un mondo in cui le donne hanno potuto finalmente esprimere le loro capacità - e mostrarsi spesso al pari degli uomini - si è ingenerato un ‘vuoto’ e una ‘crisi’ dell’universo maschile, che era solito considerarsi ‘superiore’ - e che affermava questa superiorità attraverso la forza – il quale non sempre è in grado di trovare nuovi ‘simboli’ per la ridefinizione della virilità. In assenza di nuovi ‘modelli’ torna dunque ‘comodo’ compiere un ‘passo indietro’. Non a caso, oggi molti giovani dichiarano di ‘divorare’ film nei quali ci sono belle ragazze che piangono, perché la vista delle lacrime delle donne torna a farli sentire potenti, virili, aumentando la loro autostima. Se molti uomini vivono crisi di prestazione sessuale o ansia da conquista, assistere alla debolezza femminile li fa sentire di nuovo sulla cresta dell’onda. Perché, per i maschi, dietro l’apparente riconosciuta parità sessuale, rimane spesso fondamentale, nel rapporto con una donna, sentirsi più forti di lei. Ed è anche per questo che molti uomini, nel tentativo di affermare la loro superiorità e adeguarsi all’ideale di uomo, sono vittime di disturbi psicosomatici causati dall’ansia e dalla pressione di raggiungere il tanto agognato ‘status’. Il peso del retaggio dei tempi non è riuscito a scalzare una concezione ‘selvaggia’ dell’uomo. Se solo si comprendesse che essere virili non corrisponde né ad intimorire gli altri, né ad affermare superiorità con la forza, forse ci sarebbero molti più ‘uomini veri’.


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Giorgio - Roma - Mail - mercoledi 16 ottobre 2013 22.8
Alla fine, però, non si comprende quali dovrebbero essere le caratteristiche “buone per lei” dell’uomo di oggi, se non una generica forma di parità. Forse è quello che i nostri ragazzi non riescono a capire senza segnali validi da parte del mondo femminile (validi per loro, naturalmente, cioè in grado di essere recepiti e accettati nonostante la loro limitatezza). Tra parentesi: dissento dall’affermazione che «certi stereotipi che identificano gentilezza, cortesia ed eleganza» non fossero anche perseguiti dagli uomini; per fare solo un esempio, nel momento del corteggiamento. A meno che, anche questo, non lo veda come una bieca azione machista per riaffermare la debolezza della donna, concedendosi al suo livello; se avesse questo pensiero, mi lasci dire che del mondo maschile forse non avrebbe compreso molto (pensiero ipotetico del secondo tipo).


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