Gaetano Massimo MacrìIl Partito socialista italiano si avvia verso il suo terzo congresso nazionale, che si terrà a Venezia dal 25 al 27 ottobre 2013. Ci è sembrato pertanto giunto il momento per fare il punto sulla situazione di questa forza politica, che presidia orgogliosamente il fronte delle forze laiche e riformiste del nostro Paese e che, alle recenti elezioni politiche, è riuscita a rientrare nelle istituzioni parlamentari eleggendo una componente di sei senatori a Palazzo Madama. Non si può dire che gli eredi di Treves e Turati godano di una condizione di salute ‘smagliante’, ma nemmeno che si ritrovino nelle difficoltà del recente passato, poiché alla fine il marasma mediatico della seconda Repubblica ci ha riconsegnato un movimento politico armato di buone idee che continua, con grande coerenza, a rappresentare uno degli avamposti più avanzati tra le tradizioni laiche, progressiste e riformiste del nostro Paese. Abbiamo dunque incontrato Bobo Craxi, membro della Segreteria nazionale e responsabile della politica estera del Psi, al fine di approfondire l’attuale fase interna e internazionale che stiamo vivendo.

Onorevole Craxi, il Partito socialista italiano rimane una forza orgogliosa e vitale del centrosinistra italiano: quali sono, oggi, i suoi obiettivi futuri?
“È vero: il Psi è orgoglioso delle proprie radici e della sua tradizione. Purtroppo, è improprio definirla una ‘forza’: noi continuiamo a lavorare per determinare condizioni diverse e siamo passati da uno status extraparlamentare a una nuova presenza nelle istituzioni. Ci eravamo collocati come elemento importante della coalizione ‘Per il bene comune’, ma la sconfitta di Bersani si è rivelata negativa anche per noi. All’orizzonte ci sono le elezioni per il parlamento europeo: la fondamentale presenza dei socialisti in Europa può trascinare verso l’alto, dopo tanto tempo, anche la nostra formazione politica. Non è velleitario immaginare un effetto rimbalzo verso i socialisti in Italia: noi lavoreremo per questo. Siamo, d’altronde, i più legittimati a rappresentare la grande famiglia del socialismo europeo in Italia. Noi chiederemo un voto europeo per l’Italia. E il Psi deve mettersi nelle condizioni di poterlo fare al meglio”.

Quale deve essere la funzione del Psi all’interno delle tradizioni progressiste italiane e della maggioranza che sostiene il Governo Letta?
“Il Psi intende svolgere una funzione di stimolo positivo sul terreno dei diritti, delle libertà e delle scelte pubbliche necessarie per far uscire il Paese dal suo stato di crisi. Ci siamo già mossi, sul piano parlamentare, con delle proposte di legge mirate, per l’occupazione e in materia di diritti civili. C’è stato un ottimo attivismo promosso dalla parlamentare socialista Locatelli, ma più in generale devono farsi strada le possibilità di promuovere legislazioni coerenti con i Paesi più avanzati d’Europa. Difendere la sovranità dei Paesi dell’Unione anche di fronte ai propositi di riduzione delle competenze dei singoli parlamenti nazionali dovrà essere il comune impegno di tutti i progressisti europei”.

Lei come giudica l’operato dell’esecutivo attualmente in carica? E’ d’accordo con le critiche di ‘indecisionismo’ che da più parti sono state sollevate nei confronti del Governo Letta?
“Dopo soli tre mesi, richiedere un giudizio complessivo sull’azione del Governo è ingeneroso e financo pretestuoso. Non naviga in acque facili, non è sorretto da un consenso popolare largo ed è oggetto di molti pregiudizi, nonché di incidenti di percorso ripetuti, alcuni prevedibili, altri evitabili. Detto questo, il quadro politico è ‘necessitato’. Ciò che non possiamo escludere è il probabile aumento delle 'fibrillazioni'. Il rallentamento delle procedure congressuali del Pd e la questione del ‘passo indietro’ del Cavaliere hanno reso la navigazione poco tranquilla”.

I problemi giudiziari di Berlusconi rischiano di accelerare improvvisamente la caduta del Governo?
"Certamente: possono avere effetti devastanti sulla sua tenuta. Il prossimo 30 luglio non sarà una giornata come un'altra: siamo di fronte alla fine della parabola 'berlusconiana', a meno che il capo dello Stato non intenda procedere a una messa in sicurezza di Berlusconi attraverso la sua nomina a senatore a vita. Probabilmente, siamo tutti coinvolti in un processo di destabilizzazione che coinvolge l'intera area del Mediterraneo, Italia compresa. Silvio Berlusconi ha commesso svariati errori, in questi ultimi due decenni: quello più grave non è tanto di aver voluto, a suo tempo, 'scendere in campo', quanto di non aver previsto per tempo la propria 'uscita' dal campo...".

Ma se a un certo punto divenisse inevitabile dover 'salvare' la legislatura, sarebbe così impensabile l'ipotesi di dar vita a un Governo sostenuto da una maggioranza meno ‘zavorrata’ da quelle ‘distanze’ che sembrano paralizzare l’attuale esecutivo di ‘larghe intese’?
“Le intese sono tanto larghe, quanto distanti sono le posizioni. E l’ipotesi di un allargamento ai ‘grillini di buona volontà’ può apparire, a molti, una visione suggestiva, benché non rappresenti, né più e né meno, che una riedizione del vituperato trasformismo italico. Gli italiani ci hanno consegnato una situazione ‘autoparalizzante’: perché si vada verso una soluzione bene ordinata bisognerà comunque richiedere un loro parere. Naturalmente, se il Governo, a sua volta, non riuscisse a procedere di un millimetro per i vari ‘veti’ e ‘controveti’, è chiaro che l’allargamento della sua base parlamentare e della composizione stessa dell’esecutivo potrebbe diventare un fatto inevitabile. Allo stato, i parlamentari socialisti lo sostengono senza farne parte. Mi domando fino a quando si possa tollerare una situazione di questa natura: meglio una posizione chiara e aperta che un sostegno responsabile ignorato e umiliato”.

Passiamo alla politica estera: può fornirci il suo parere intorno ai teatri di crisi interna che stanno attraversando molti Paesi che si affacciano sul Mediterraneo? Quali fattori li hanno scatenati e che tipo di alternativa propongono le popolazioni in protesta o le varie fazioni di ribelli che si stanno rivoltando ai propri rispettivi regimi?
“Le crisi aprono problemi e conseguenze comuni, ma hanno genesi e ragioni diverse. Quella turca è una crisi di ‘crescita’: uno sviluppo economico non può esserci senza un adeguato e simmetrico mantenimento di un equilibrio politico che riconosca il pluralismo nella società turca, attraversata da secoli dalla divisione ‘laici-religiosi’. Quella siriana, invece, è determinata dal logoramento del modello ‘ba’athista’, della convergenza di interessi politici, economici e religiosi diversi, ma uniti dalla volontà di sbarazzarsi di un regime che, se non altro, dimostra una capacità di resistenza militare notevole, nonché una solida e rafforzata alleanza con il vicino Iran e, per ragioni storiche e geostrategiche, con il gigante russo”.

Secondo lei, esiste un problema di oligarchie da riformare, oppure l’avvento dei cosiddetti social network, che stanno svolgendo un ruolo decisivo di ‘raccordo’ e di denuncia internazionale, ha finito col destabilizzare ogni genere di rapporto tra Stato-Governo e Stato-comunità?
“Si è molto parlato del rapporto fra le insurrezioni popolari e i nuovi sistemi di comunicazione. E’ evidente che i regimi ‘chiusi’, in una società moderna non hanno più ragion d’essere, né capacità di resistere. Ciò che naturalmente i mezzi di comunicazione non possono fare è di sostituirsi all’andamento democratico stabilito dai mandati elettorali, che devono mantenere piena e ampia, nei Paesi che applicano leggi bene ordinate, la loro funzione di indirizzo politico e governativo. Diversamente, assisteremmo mensilmente a cadute di Governi. Sottolineo, più in generale, lo svilupparsi di una tendenza globale di partecipazione e di azione della cosiddetta società civile, quando essa non è ‘eterodiretta’ da interessi o gruppi di pressione esterni, siano essi economici o politico-religiosi: nel complesso, questa appare la forma più idonea per garantire un sano contrappeso fra Stato e interessi privati, posto che il ruolo tradizionale di corpo intermedio sono i Partiti e i sindacati. Nelle democrazie più ‘giovani’ questo corpo intermedio non è ancora andato a formarsi, mentre nelle democrazie più antiche è entrato in un ‘cono d’ombra’ di crisi che, mi auguro, sia solo di carattere congiunturale”.

Non crede che certe rivoluzioni, in generale, siano il segnale dell’esigenza di un nuovo disegno alternativo di società più avanzata, un progetto che tuttavia sembra mancare sia da parte di chi protesta, sia di chi governa?
“L’insoddisfazione per l’andamento generale dell’economia e per l’aumento progressivo delle diseguaglianze e della corruzione pubblica ha generato, globalmente, una protesta diffusa, popolare, mediatica, sovente giovanile, per lo più pacifica, ma con settori più estremi e violenti, probabilmente orientati politicamente o legati a centri di destabilizzazione internazionale. Il cuore della protesta non è mai raccolto dalle forze politiche tradizionali di stampo ‘novecentesco’, le quali non riescono a intercettare il radicalismo di questa ‘ribellione senza capi’ che non indebolisce i veri colpevoli di squilibri e ingiustizie - le centrali economiche e finanziarie - bensì proprio le istituzioni che potrebbero regolamentare quegli stessi squilibri. Lo ripeto: è scesa in campo una forza dirompente: quella di una società civile determinata a svolgere un ruolo attivo nelle scelte pubbliche che, tuttavia, stenta a riattribuire una delega piena alle istituzioni tradizionali, siano esse politiche o religiose. Naturalmente, se tale ruolo si contiene in quanto elemento complementare ad altri poteri, ciò non potrà che essere un beneficio; se, al contrario, si rivelasse un ‘cavallo di Troia’ per ‘avventurismi’ di varia natura, è chiaro che ci troveremmo di fronte a una malattia e non a una medicina”.

Lei non ritiene ormai urgente la creazione di un ministro degli Esteri dell’Unione europea? E come la mettiamo con la questione della creazione di un esercito unico dell’Ue? Si potrà fare in tempi brevi, magari entro un ciclo di pianificazione politica relativa ai prossimi anni?
“Il destino dell’Europa è segnato: solo una crescente accelerazione verso impegni e responsabilità comuni ne determineranno la fuoriuscita da questa falsa partenza. Le elezioni generali, da questo punto di vista, rappresenteranno un autentico ‘spartiacque’. Non mancano i buoni propositi e le ragioni, ma le leadership che ne interpretino la direzione di marcia in modo convincente: dobbiamo lavorare per questo. Le grandi famiglie politiche che hanno costruito questo percorso devono riunirsi per determinare la nuova prospettiva dell’Unione, che non potranno che essere gli Stati Uniti d’Europa”.

Quale dovrà essere, in futuro, il ruolo dell’Italia e della stessa Unione europea sul futuro scenario del Mediterraneo?
“Come ho sostenuto precedentemente, gli Stati Uniti d’Europa riconosceranno nell’Italia il ruolo preminente di ‘sponda sud’ del continente e la sua vocazione, naturale e mai abbandonata, tesa a sviluppare una naturale predisposizione allo scambio di merci, culture, saperi e popoli. L’Italia deve accentuare la propria capacità di incrementare la propria offerta turistica e sfruttare la sua collocazione per incentivare un ruolo di base logistica, di transito portuale e aeroportuale. In questo vedo soprattutto il rilancio del nostro Mezzogiorno, sacrificato dalle scelte governative degli ultimi decenni. Sul piano politico, è necessario ripristinare la tradizionale politica di dialogo, abbandonata per  inseguire un’improbabile e velleitaria dottrina dell’esportazione della democrazia, dietro la quale si celavano le ambizioni di influenzare i Paesi nordafricani alla stregua della penisola arabica, incentivando i piccoli ricchi Paesi del Golfo Persico a finanziare movimenti di rivolta che si sono manifestati, successivamente, in tutta la loro dirompente ambiguità, essendo orientati dalle dottrine più oltranziste dell’arcipelago musulmano. La  recente ‘controrivoluzione’ egiziana o la prova di resistenza del popolo tunisino verso le pretese egemoniche del movimento islamico  ‘H’nada’, finanziato dal Quatar e protetto dagli Usa, dimostrano che ci sarebbe la volontà di non dare sbocchi conservatori e arretrati alla rivoluzione civile araba. L’Italia deve restare in prima fila nel dialogo e nella cooperazione euro-mediterranea: è il ruolo che le spetta e non da oggi”.

Un ultimo parere sulle recenti proteste esplose anche in Brasile: che idea si è fatto di quest’ultima vicenda? E l’America Latina, nel suo complesso, in quale modo potrebbe avviarsi verso una nuova fase di crescita senza necessariamente dover passare per la ‘cruna dell’ago’ di lunghe e controverse destabilizzazioni interne?
“Il Brasile era un Paese attraversato da contraddizioni vistose, che la lunga permanenza al potere di Lula e del suo Partito non hanno risolto. Il successo innegabile del nuovo Brasile ha tuttavia modificato la percezione, rendendo chiaro a tutti che il Paese è sempre stato in condizioni di riequilibrare le proprie diseguaglianze se le classi dirigenti non abusano del proprio potere e incentivato a dismisura la presenza straniera nei gangli vitali dell’economia, tollerando l’oligarchia economica che, di fatto, controlla il Brasile anche sotto il dominio del Pt di Lula, con il quale ha costituito un patto di potere. La retorica avviata in vista dei Campionati mondiali di calcio e delle Olimpiadi, assieme agli aumenti dei prezzi nel settore dei trasporti, hanno acceso una miccia che ha fatto riesplodere una protesta clamorosa. Il Pil incomincia a decrescere e l’inflazione troppo alta determina rischi economici e sociali altrettanto preoccupanti: l’età dell’oro non è finita e il campanello d’allarme aiuterà a correggere gli errori politici commessi”.




(intervista tratta dal sito www.periodicoitalianomagazine.it)
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