Al di là delle recenti polemiche relative alle elezioni primarie svoltesi per la scelta del candidato del centrosinistra a sindaco di Roma, Ignazio Marino rappresenta indubbiamente il miglior esponente, per professionalità e competenza, che il Partito democratico potesse mettere in campo. Egli, infatti, incarna al meglio la figura del classico professionista che non si ispira a un laicismo di carattere ideologico, bensì propende per una concezione scientifica della realtà imperniata su una moderna razionalità empirica, attenta alle culture ‘altre’ e alle distinte sensibilità dei cittadini romani. Un esponente preparato, un vero e proprio colpo di fortuna per la futura conduzione politica della capitale d’Italia. Gli annosi problemi della ‘città eterna’, come sappiamo, sono numerosi, nonché legati a una serie di scelte storiche che hanno finito col creare un’area urbana estesissima e, quindi, assai mal collegata, soprattutto per ciò che riguarda il trasporto pubblico di superficie. Per non parlare delle sue linee di metropolitana sotterranea, che rappresentano un segnale di arretratezza reale per una città che ogni hanno viene letteralmente invasa da turisti provenienti da tutto il mondo. Roma continua a evidenziare una serie di difficoltà strutturali croniche, un’incapacità ad autorganizzarsi che finisce col confinarla in una mera posizione di metropoli sud-europea. La sua ‘dolce vita’ stordita e corrotta, la pigra indolenza, il paganesimo provinciale sono stati troppo spesso trattati con indulgenza, quasi fossero gli stravaganti elementi di una surreale ‘filosofia’. Tutto ciò non è altro che il risultato storico di una lunga serie di errori, dovuti alla più totale mancanza di lungimiranza urbanistica e sociale. Roma possiede il più grande patrimonio storico, culturale, monumentale e archeologico del mondo intero. Ma proprio per questo motivo essa ha subito una lunga serie di scempi devastanti, poiché da sempre rappresenta un esempio del tutto atipico di megalopoli totalmente priva di una vera e propria ‘area metropolitana’. Il territorio di pertinenza comunale si estende per più di 150 mila ettari: un’enormità rispetto ai 19 mila di Milano e ai 13 mila di Torino, un’area mai dotata di una ‘frangia semiurbanizzata’ e da sempre affetta da un parassitismo incurabile, totalmente priva di infrastrutture economiche o di autonome capacità produttive. Sin dai tempi dello Stato pontificio, la città vive di redditi importati e non conosce praticamente nulla del capitalismo moderno. Dopo averla circonfusa con un ‘goffo’ alone di maestà, il regime fascista, ormai allo stremo, mediante una legge emanata nel 1941 tentò di dotarla di una zona industriale formata dai comprensori di Tor Sapienza (lungo la via Tiburtina) e di Grotte Celoni (sulla Casilina). Ma tutto rimase sospeso a causa del conflitto mondiale e, nell’immediato dopoguerra, quando il Consiglio comunale di allora decise di riprendere in mano la questione, dopo lungaggini interminabili riuscì finalmente a varare un piano particolareggiato di opere pubbliche. Quella decisione arrivava con un ritardo tale, che i termini delle agevolazioni fiscali tesi a favorire nuovi investimenti risultavano ormai scaduti. E nessuno si ‘sognò’ più di rischiare danaro in favore dell’urbanizzazione e l’industrializzazione di lande desolate, che tali rimasero per altri lunghissimi decenni. A causa di ciò, Roma non ha mai potuto possedere delle vere industrie in grado di assorbire il proprio irrimediabile tasso di disoccupazione. Sin dal 1870, l’area è stata investita da possenti ondate migratorie. Ma essendo totalmente sprovvista di ogni ‘valvola di sfogo’, tutto ha finito col ricadere irrimediabilmente sulla città, che ben presto divenne la vittima designata del ‘piccone’ e della ‘cazzuola’: ogni metro quadrato di suolo è stato considerato fabbricabile, case e palazzi hanno iniziato a protendersi verso l’alto nella più totale assenza di vincoli urbanistici e nella più allegra inosservanza delle poche norme vigenti, provocando un’assurda dilatazione a ‘macchia d’olio’ dell’abusivismo. Già durante il fascismo, quando gli ‘sventramenti’ di Marcello Piacentini avevano espulso brutalmente i ceti popolari dal centro storico, iniziarono a sorgere, lugubri e malsane, le ‘borgate’, quelle descritte con tanto dolore da Pier Paolo Pasolini. Seguendo il modello di Acilia, scaraventata nel 1924 all’interno di una ‘sacca malarica’ lungo la via Ostiense, tra il 1930 e il 1940 l’Istituto per le case popolari e altre società immobiliari hanno in seguito costruito i quartieri di Villa Gordiani, Valmelaina, Tufello, Tiburtino III, Pietralata, Quarticciolo, Trullo, Primavalle, tutti arcipelaghi sconnessi e urbanisticamente incoerenti, ai quali sono stati in seguito affiancati i reclusori, assolutamente abusivi, di San Basilio, Prenestina, Tor Pignattara, Tormarancio e Centocelle. Deputate ad accogliere gli immigrati più poveri, queste borgate non vennero affatto ‘addossate’ alle ultimi propaggini della città, bensì risultavano separate da lunghe strisce di verde ‘brado’, terreni che poi, nel dopoguerra, improvvisamente cominciarono a salire di prezzo, scatenando una speculazione edilizia devastante e senza scrupoli. Se si considera che, tra il 1945 e il 1975, Roma è stata invasa da circa due milioni di italiani provenienti da ogni parte del Paese, in particolare dalle regioni del Mezzogiorno, si può ben comprendere come certi suoi ‘acciacchi’ abbiano finito col generare una situazione complessiva assolutamente invivibile, che ha totalmente privato la città di un proprio preciso ‘quadro’ identitario e sociale effettivo. Ogni rione è stato trasformato in un satellite a sé stante. E le periferie rappresentano solamente degli enormi ‘quartieri dormitorio’. I due milioni di nuovi romani giunti dall’Abruzzo, dalla Campania, dalla Calabria e dalla Sicilia dovettero perciò adattarsi all’offerta di lavoro propria di una megalopoli di burocrati, di consumatori, di impiegati e di turisti: il 60% entrò nell’amministrazione dello Stato; il 16% venne inserito nei settori del commercio e dei trasporti; il restante 24% non poté far altro che lasciarsi assorbire dai sempiterni e onnipresenti cantieri edilizi. L’arretratezza delle attività terziarie ha permesso loro, talvolta, di perpetuare l’artigianato delle regioni di provenienza. Per cui, gli abruzzesi sono diventati calzolai, i molisani arrotini, i sardi pasticcieri e così via. Ma se si eccettuano coloro che sono entrati a far parte della pubblica amministrazione - in larga parte siciliani - la maggioranza di quegli immigrati ha potuto solamente adeguarsi alla precarietà stagionale del mestiere di muratore. Una città come Roma, ricca di un ghiotto bottino di parchi privati e con un patrimonio senza eguali di beni artistici e archeologici da salvaguardare, necessitava di un piano regolatore che ne salvasse le ultime vestigia dagli artigli di costruttori senza scrupoli. Anche perché, sin dagli anni ’50 del secolo scorso orrendi agglomerati ‘intensivi’ la stavano letteralmente afferrando ‘alla gola’, mentre una lottizzazione selvaggia delle aree prospicienti l’Appia antica segnalava come molti ricchi della ‘Roma bene’, ormai stanchi e disamorati dei Parioli, si fossero fatti costruire ville lussuosissime incastonando tra le pareti numerosi ruderi archeologici ritrovati in mezzo ai prati. Perciò, nel 1954, il Consiglio comunale decise finalmente di incaricare un Comitato tecnico - formato da ottimi urbanisti quali Ludovico Quaroni e Luigi Piccinato - con il compito di anticipare i nuovi lineamenti di una razionale ‘capitale del futuro’. Nel novembre del 1957, il nuovo piano era pronto: per rompere l’accerchiamento delle speculazioni, arrestare la macchia d’olio dell’abusivismo edilizio e alleggerire il peso insostenibile della mole di servizi che grava, da sempre e quasi interamente, sulla ‘città vecchia’, esso prevedeva un’espansione verso sud-est, da realizzarsi attraverso una grande arteria di scorrimento munita di centro direzionale. Inoltre, allo scopo di dirottare un traffico, in entrata e in uscita, interamente scaricato - esattamente come oggi - sulle strade consolari, quel piano disegnava un sistema viario imperniato sulla costruzione di un primo tratto dell’attuale Grande Raccordo Anulare. E, nell’intento di porre un freno al saccheggio dei parchi massacrati (Villa Chigi, Villa Savoia, Villa Torlonia, Villa Doria Pamphili) imponeva una conservazione rigorosa di tutto il centro storico, oltre a una serie di espropri di pubblica utilità. Quel ‘piano’ non era stato nemmeno presentato ufficialmente che subito alcuni esponenti degli ‘interessi lesi’ inscenarono una mezza sommossa: i commercianti gridarono alla spoliazione, la Società generale immobiliare si ‘stracciò le vesti’ accusando il Comitato tecnico di attentare alla proprietà privata, gli enti ecclesiastici, che da secoli possiedono alcuni propri ‘feudi’ nella periferia occidentale (in particolar modo i Salesiani) spronarono i loro ‘protettori’ in Campidoglio. Risultato: l’allora maggioranza consiliare, guidata dal sindaco Urbano Cioccetti e costituita da democristiani, liberali, monarchici e missini negò a quel piano la propria approvazione e, nel giro di due anni, ne fece predisporre un altro, redatto da docili funzionari, che avviò uno sviluppo urbanistico verso sud-ovest, in ‘direzione mare’, mantenendo una strutturazione monocentrica della città, nonché riducendo il progetto di costruzione dell’anello autostradale a mero segmento della ‘Autosole’, approvando altresì un sostanziale accrescimento della città per ‘addizioni spontanee’ che finirono col ‘santificare’ definitivamente la crescita a ‘macchia d’olio’ grazie a una gigantesca sanatoria di tutti gli scempi compiuti. Dopo un decennio di massacri inauditi e solamente ‘all’alba’ del 1962, una nuova amministrazione di centro-sinistra riuscì ad approntare un piano regolatore finalmente ragionevole, che introdusse criteri sino ad allora sconosciuti alla storia urbanistica della città dei 7 colli: il principio della ‘destinazione d’uso’, con il quale si obbligarono i piani particolareggiati a specificare le attività consentite nelle diverse zone (centro storico, trasformazione edilizia, ridimensionamento viario e così via); il parametro della ‘superficie utile’, che permise di eliminare gli innumerevoli ‘trucchi’ legati al cosiddetto ‘rispetto dei volumi’ prescritto nel 1959; il concetto di una progettazione unitaria per comprensori, da attuarsi mediante consorzi fra i proprietari in ossequio a precise norme riguardanti la densità e la percentuale dei suoli assegnati a residenza o a servizi quali scuole, strade, verde, asili, ospedali e parcheggi. Ma anche quei buoni propositi valsero a poco: il ricorso continuo a uno stillicidio di varianti, la macchinosità delle procedure, una sfacciata violazione delle regole fondata sul convincimento che nulla di ciò che era stato costruito potesse essere demolito vanificò quel nuovo ulteriore ‘piano’ e, nel 1964, i romani furono costretti ad assistere alla devastazione del parco di Castel Fusano e alla trasformazione in zona residenziale perfino del recinto della tomba di Cecilia Metella. Ecco quali vicende hanno trasformato Roma in una città ostica e invivibile, in cui attraversarla per andare da un suo capo all’altro diviene un’impresa praticamente epica, dove le sue vecchie linee ferroviarie sotterranee hanno dovuto attendere, in media, 25 - 30 anni per essere realizzate e quelle nuove vengono generalmente considerate, da sempre, solamente un lontano ‘miraggio’ che forse andrà a vantaggio delle future generazioni. Se Ignazio Marino o lo stesso Gianni Alemanno intendono governare veramente i necessari cambiamenti, assolutamente urgenti, di questa metropoli dovranno dimostrarsi maggiormente consapevoli di dover rappresentare una lucidità che discende direttamente dalla ‘rabbia’, perché siamo tutti stanchi di vedere una folla anonima che si accalca sugli autobus nelle ore di ‘punta’, che mangia nelle tavole calde a orari prestabiliti, che cammina spedita per la strada a passo militare, che alla sera ha solamente il tempo di guardare un po’ di televisione o che fa all’amore frettolosamente negli abitacoli delle automobili. Perché la coazione a consumare, a consumare soprattutto noi stessi, significa sciupare l’unita del nostro ‘io’ interiore, corrisponde a una forma di dissociazione che ci condanna alla solitudine di massa, perché una nuova forma di ‘socialità collettiva’ rappresenta un valore, spirituale e materiale, che deve essere assolutamente mantenuto e difeso.