Cinzia Salluzzo RovitusoIl ‘femmicidio’ è la conseguenza estrema delle forme di violenza esistenti contro le donne. Queste morti non sono isolati incidenti che arrivano in maniera inaspettata e involontaria, bensì l’ultimo efferato atto di violenza che pone fine a una serie di brutalità maschili continuate nel tempo. Un’analisi serrata su cause e conseguenze di una politica che fa ancora troppo poco per eliminare le disparità di genere. E una valanga di ‘raccomandazioni’ a cui l’Italia, in genere, si sottrae: una legge specifica contro la violenza sulle donne; una struttura governativa che tratti solo la parità e la violenza; finanziamenti di case rifugio e centri antiviolenza per mantenere quelle esistenti e aprirne di nuove; ratificare la Convenzione di Istanbul per la prevenzione della violenza, la protezione delle vittime e la condanna dei colpevoli, che l’Italia avrebbe dovuto a firmare ad aprile. Prevenzione, protezione delle vittime e punizione dei colpevoli sono i ritardi dell’Italia. Una violazione dei dritti umani? Di fatto, regole poco chiare consentono di giungere a esplosioni di violenza che culminano con l’uccisione di donne per il solo fatto di essere tali. “Dall’inizio degli anni novanta è diminuito il numero di omicidi di uomini su uomini, mentre il numero di donne uccise da uomini è aumentato”, ha ricordato di recente Rashida Manjoo, relatrice speciale per conto delle Nazioni Unite di un rapporto sulle violenze contro le donne. “I numeri ormai li conosciamo: una donna su tre – in una età compresa tra i 16 e i 70 – è stata vittima di violenza. Circa un terzo delle vittime non presenta denuncia, mentre solo una minoranza chiede aiuto per stalking. L’allarme sociale di questa situazione complessiva non lascia dubbi: la violenza contro le donne rimane un problema significativo in Italia. Affrontarlo è un obbligo internazionale. Non a parole, ma con leggi e con azioni reali. L’Italia”, ha aggiunto la Manjoo, “deve impegnarsi a eliminare atteggiamenti stereotipati circa i ruoli e le responsabilità delle donne e a modificare quello degli uomini nella famiglia, nella società e nell’ambiente di lavoro. Non è sufficiente che le donne restino le ‘centrocampiste del welfare’ per la loro capacità a conciliare lavoro e famiglia con il carico ‘casalingo’. Esse trasportano un pesante fardello in termini di cura delle famiglie, mentre il contributo dei maschi italiani è tra i più bassi nel mondo. Storie e dati portati ‘a galla’, di volta in volta, da cronache, statistiche, ricerche, rapporti e relazioni predisposte dall’Onu mettono sempre più in relazione l’incapacità di riconoscere alle donne posizioni e ruoli pari agli uomini e l’incapacità a rispondere con strumenti adeguati a proteggere le vittime”. Il quadro italiano, in effetti, appare desolante: in un contesto sociale antiquato e obsoleto, dove la violenza domestica non sempre viene percepita come un crimine, persiste la percezione che le risposte dello Stato non siano appropriate e sufficienti. Ed è all’economia che si dovrebbe fare appello, come strumento di prevenzione al fine di rimuovere gli ostacoli che incidono sull’occupazione femminile, quelli che permettono la disparità retributiva e di rafforzare il sistema di previdenza sociale, per superare i limiti all’integrazione delle donne nel mercato del lavoro. La situazione economica e politica in Italia non giustifica la mancanza di attenzione e la diminuzione delle risorse per combattere la violenza contro le donne. Le leggi per proteggere le vittime ci sarebbero. Queste non sono, tuttavia, sufficienti: dipendenza economica, inchieste malfatte, un sistema di istituzioni e regole frammentato, lungaggine dei processi e inadeguata punizione dei colpevoli le rendono poco efficaci. In Italia persistono attitudini socio-culturali che condonano la violenza domestica e l’alto numero di donne uccise dai propri partner o ex partner può indicare il fallimento delle autorità dello Stato nel proteggere adeguatamente le donne vittime dei propri partner o ex partner. Ritardi dell’Italia che contribuiscono al silenzio delle vittime e lasciano che il fenomeno resti invisibile. D’altronde il ‘diritto’ degli uomini a picchiare le donne non è arcaico. È storia dei nostri nonni. Ce ne siamo dimenticate: la legge che lo ha abrogato è solo degli anni ’70 del secolo scorso. Solo trent’anni fa a un marito o a un padre era consentito picchiare in quanto mezzo per ‘correggere’ il comportamento delle donne. Glielo riconosceva il codice penale e civile, a patto che non ne abusasse. Ma il limite poche volte era stato chiarito, cronicizzando nel dna della società e della cultura italiana l’abuso delle botte e la disattenzione ai diritti delle donne. Creare una singola struttura governativa dedicata a trattare esclusivamente la questione della parità e la violenza era stata la prima raccomandazione fatta dalla Comunità internazionale al Governo italiano all’inizio di quest’anno. Un ministero specifico e non una ‘seconda carica’ come quella attribuita a Elsa Fornero, più concentrata sul ministero del Lavoro, che sulle Pari Opportunità. Al Governo Monti, il cui obiettivo principale è stato quello di concentrarsi sulle riforme strutturali, economiche e del mercato del lavoro per affrontare la crisi economica nazionale, l’Onu aveva chiesto di intervenire sulle cause strutturali della disuguaglianza di genere e della discriminazione. E sui fenomeni stessi di violenza identificandoli, per esempio, nella loro reale entità, riunendo i codici civile e penale, formando i giudici per rafforzare le loro competenze, sostenendo economicamente i centri antiviolenza. Politiche più attente e reattive debbono sviluppare azioni legislative coerenti. Tra le più urgenti, affinché si riconosca il reale peso e si facciano norme conseguenti, c’è la raccolta omogenea dei dati. Vitali come l’invito a ratificare la Convenzione di Istanbul per la prevenzione della violenza, la protezione delle vittime e la condanna dei colpevoli. Avrebbe dovuto essere firmata ad aprile 2012, ma il Governo italiano è rimasto silente. Le nostre istituzioni, insieme alla società civile, dovrebbero inoltre rielaborare un ‘piano nazionale’ contro la violenza entro il 2013. Non considerare queste urgenze, che ora sono sostenute anche dall’Onu, significa rinunciare alla modernizzazione del nostro Paese. Finché non si considera la violenza sulle donne un costo economico che erode il Pil e l’economia, oltre che l’equilibrio della società, l’Italia riuscirà a garantire i diritti solo a metà. Difficile per una donna che ha subito maltrattamenti in casa tornare al lavoro il giorno dopo. La vergogna di mostrare i segni: come potrà procurarsi un certificato medico? E quanto tempo impiegherà per tornare ad avere un reddito? Come non farla sparire nell’economia sommersa? In ogni caso, il fenomeno dei ‘femminicidi’ può considerarsi un vero e proprio ‘genocidio nascosto’, culturalmente e socialmente occultato da mass media, accettato, tollerato o giustificato, mentre sotto il profilo penale l’impunità rimane la regola generale. Con riguardo agli omicidi basati sul genere è veramente carente l’assunzione di responsabilità da parte degli Stati nell’agire con la dovuta diligenza per la promozione e protezione dei diritti delle donne.


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