Valentino Manfredi

Non verrà ricordato come un presidente costruttivo e lungimirante. Oggi, non avendo più il controllo del Congresso, tenta la carta della politica estera attraverso una improbabile positiva conclusione del vertice di Annapolis. George Bush verrà ricordato come il presidente che non è riuscito a governare le difficoltà globali, né nell’essere riuscito a dare un’immagine degli Stati Uniti pacifica e disponibile al dialogo. Dopo la tragedia delle Torri Gemelle Bush ha sbagliato ogni mossa: dalla lotta al terrorismo, all’Iraq, all’Afghanistan, al Medio-Oriente, riuscendo, contemporaneamente, ad affossare la credibilità degli Stati Uniti quale nazione democratica attenta ai diritti umani ed all’ambiente. Un disastro. Ci vorrà del tempo prima che gli Usa potranno tornare ad essere considerati affidabili e capaci di risolvere i guasti causati dalla presidenza Bush. Per non parlare dei rapporti difficili venutisi a creare in molti Paesi dell’America Latina. Ad un anno dal termine del mandato, l’attuale Amministrazione americana cerca una via dignitosa per essere ricordata quale fautrice di pace attraverso il vertice di Annapolis in cui si discuteranno i rapporti tra Israele e Palestinesi, con un occhio all’Iraq, all’Iran e all’Afghanistan. Sarà molto difficile che Bush riesca a risolvere i nodi diplomatici tra Israeliani e Palestinesi e che questi ultimi due, rappresentati da Ehud Olmert e dal presidente palestinese Mahmud Abbas (Abu Mazen), entrambi deboli al proprio interno, possano camminare fianco a fianco per realizzare in breve tempo ciò in cui tutti sperano. Le questioni sul tappeto sono molte e di non facile soluzione: Gerusalemme, il rientro dei profughi palestinesi, l’acqua, i territori occupati, la reciproca sicurezza e sovranità. Questioni che nel tempo si sono aggravate e per le quali la diplomazia internazionale non è riuscita, dopo tanti vertici, ad offrire soluzioni credibili. Se gli scandali interni e la divisione della Knesset hanno indebolito Olmert, Hamas e l’occupazione della striscia di Gaza fanno di Abbas un presidente dalla flebile voce. L’unico dato positivo da rilevare è la presenza dei Paesi arabi (quale ruolo si riserverà l’Arabia Saudita?), della Lega Araba e, soprattutto, della Siria, nonostante la forte pressione esercitata dall’Iran per sconsigliarne la partecipazione alla Conferenza. La Siria, pur non avendo relazioni diplomatiche con Israele, è interessata, almeno a livello ufficioso, a cercare una strada diplomatica per risolvere il conflitto israelo-palestinese, a cui è legato l’esito dell’occupazione israeliana delle alture del Golan. Tutti, comunque, hanno un altro interesse comune: da una parte non far precipitare la situazione in Libano, dove la Siria ha un peso politico rilevante, e dall’altra cercare di condizionare l’arroganza della classe dirigente iraniana. Se sino ad oggi c’è stato chi, per accreditarsi quale fedele amico dell’una e dell’altra parte in causa, ha sempre negato che la crisi israelo-palestinese fosse la principale causa della destabilizzazione del Medio Oriente e del conseguente rafforzamento del terrorismo su scala mondiale, attraverso la conferenza di Annapolis, la vasta partecipazione delle nazioni Arabe e i temi che si intrecciano tra loro in un gioco che richiede un’unica soluzione, può iniziare a ricredersi e prepararsi a leggere gli avvenimenti con un occhio diverso. Il gioco delle parti e gli interessi esclusivi di una parte sono sempre stati di ostacolo a qualunque soluzione avanzata. Ciò non solo ha provocato rigidità politiche e sofferenze alle popolazioni interessate, ma ha affossato il ruolo dell’Onu, rendendo inutili tutte le risoluzioni approvate. La pericolosa politica di Bush, il quale non ha mai nascosto di non credere all’Onu, e la realizzazione della conseguente ‘via americana’ alla soluzione ‘personalizzata’ dei problemi globali ha portato l’amministrazione americana a considerare Israele parte di sè evitando critiche all’operato militare e limitandosi a timidi richiami. La via ‘personalizzata’ della risoluzione dei problemi ha portato il mondo ad un vicolo cieco, nel quale né la Russia, né tanto meno la Cina intendono coabitare con quegli Stati che troppo velocemente si sono allineati dietro l’Amministrazione americana credendo di poter svolgere un ruolo internazionale di comprimari. La realtà è diversa: in Afghanistan il territorio è controllato per due terzi dai Talebani e da altre formazioni non vicine all’Occidente. La coltivazione dell’oppio, dall’inizio delle operazioni belliche, è enormemente aumentata offrendo ai Talebani una autonomia finanziaria mai conosciuta prima. L’unica parte del territorio controllata dal discusso Karzai e dalle truppe alleate è Kabul, con un costo in vite umane non giustificato da alcuna strategia politica. In Iraq, dopo sei anni di guerra, la situazione non appare migliore. I morti si sommano quotidianamente e i terroristi controllano anche qui vaste aree del Paese. Peraltro la crisi turco-curda non lascia spazio all’ottimismo. Il Pakistan, diretto interessato agli avvenimenti afghani, traballa sotto una presidenza discussa al proprio interno e discutibile sul piano internazionale. La strategia di Bush di esportare la democrazia con le armi si è rivelata (come non poteva essere altrimenti) disastrosa sul piano politico, militare e umano. Sicuramente in questi anni gli americani hanno tratto un grande vantaggio sul piano economico, un vantaggio però che per i limiti politici manifestati non durerà così a lungo come era nella logica politica di Bush e degli uomini d’affari che lo hanno affiancato in questi sette anni di presidenza. L’Amministrazione americana, in sintesi, non è riuscita a creare un consenso ampio sulle azioni che ha intrapreso, non avendo saputo sconfiggere l’unico nemico dichiarato apertamente: il terrorismo. Entro la fine del mandato presidenziale gli americani si troveranno soli anche nei teatri di guerra: la Svizzera ha già dichiarato che entro marzo 2008 lascerà l’Afghanistan e così ha dichiarato il neo-premier polacco. Bush ha già iniziato il lungo viaggio lungo il viale del tramonto e molti altri lo seguiranno. Cosa fare? Occorre, da alleati, cercare di convincere l’Amministrazione americana ad iniziare un nuovo percorso politico, convincerla che la soluzione dei problemi non va riposta nelle ‘armate’ ma nella politica. Non dialogare con i Talebani è un errore, così come lo è stato non dialogare per anni con la Siria. Non comprendere le ragioni degli altri si è rivelato, per la pace globale, una chiusura politica ingiustificabile. Se il mondo non è più diviso a metà, ma in molte parti diverse, allora occorre dialogare con tutte, creare un modello di convivenza che certifichi la qualità della pace sul piano del rispetto dei diritti umani e dei reciproci interessi economici, ma che non travalichi la libera scelta istituzionale di cui ciascun Paese intende dotarsi. Deve riaprirsi la stagione del dialogo, riposizionando l’Onu al centro della scena politica internazionale così come tutte le altre istituzioni internazionali che da questa politica hanno dovuto subire penalizzazioni, i cui effetti negativi si sono riversati su popolazioni inermi e non in grado di costruire una minima pur autosufficienza economica e politica. La globalizzazione imposta con le armi appartiene ad una visione politica morta e che non potrà mai più risorgere dalle ceneri di un colonialismo sconfitto dalla Storia. Se da Annapolis partirà un dialogo costruttivo tra i paesi Arabi ed Israele, in particolare tra Isreale e la Siria, allora la Conferenza avrà avuto una propria utilità e risulterà importante anche per i futuri rapporti con l’Iran e l’Afghanistan. Ma se ad Annapolis le posizioni dell’amministrazione Bush e di Israele dovessero essere rigidamente ribadite, allora dovremo prepararci al peggio. Sarà necessario per gli altri Paesi democratici, Europa per prima, iniziare ad operare dei distinguo senza restare risucchiati in quella logica internazionale che ha dimostrato tutta la sua violenza e inutilità sul piano politico, impedendo, di fatto, la possibilità di creare una pace condivisa. Dalla conferenza di Annapolis, probabilmente, uscirà il solito documento israelo-palestinese pieno di buone intenzioni che potrebbero, questa volta, essere prese sul serio grazie al diverso ruolo della Siria, la cui partecipazione non è apprezzata né da Hamas, nè da molti filo-siriani del Libano (anche se, in queste ultime ore, all’interno di Hamas vi è chi chiede posizioni meno radicali verso al-Fatah e verso gli Stati Uniti). Bush ha forse l’ultima possibilità, prima di lasciare la casa Bianca, per essere ricordato quale Presidente che ha favorito il dialogo tra siriani ed israeliani, il che non azzererebbe il saldo negativo, ma renderebbe più facile il raggiungimento del pareggio.




(articolo tratto dal sito web di informazione e cultura www.diario21.net)
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