Dal rapporto
'Io sono cultura 2018', sembrerebbe arrivare la notizia che con la cultura si può
mangiare e, addirittura, lavorarci per più di
1 milione e mezzo di persone. Può apparire un'idea grottesca, dal momento che il sentire comune ed eminenti uomini della politica
(Giulio Tremonti su tutti) continuano a esprimersi in controtendenza con il report in esame. Ma prima di analizzare questo rapporto, appare importante porsi un interrogativo di partenza:
la cultura paga? Il comparto del sistema produttivo culturale e creativo ha partecipato con un
6% alla ricchezza prodotta in
Italia. Si tratta, dunque, di
92 miliardi di euro, che significa il
2% in più rispetto all'anno precedente. A guardar bene tali cifre, bisogna considerare che, per cultura, si fa riferimento non solo in termini di
gallerie, musei, beni culturali, letteratura e
cinema, ma anche di attività produttive che partono dalla creatività per generare un prodotto ed essere competitive sul
mercato. Una trasformazione e uno sviluppo che coinvolge un vasto comparto della
cultura stessa. E che vanta
accademie italiane tra le prime dieci migliori scuole di moda in tutto il mondo. Le ragioni di questo successo possono essere molteplici, anche se vi è un filo comune che unisce i diversi modelli imprenditoriali e culturali: l'idea dell'esperienza e del
prodotto centrato sull'individuo, che diviene sempre più parte integrante del processo creativo. Il preside vicario della Scuola del design del Politecnico di Milano,
Francesco Zurlo, parla di
"culturalizzazione dell'economia", in riferimento alla particolare rilevanza data alla creatività, frutto di un continuo aggiornamento e di una sete di innovazione supportata da obiettivi concreti. Appare chiaro che, il patrimonio culturale può produrre valore solo nel momento in cui i privati e le imprese decidano di puntare su di esso, investendo oltre che sulle grandi competenze, anche in termini di grosse somme di denaro. È il caso delle
regioni terremotate, alle quali lo Stato ha deciso di consegnare
l'8 per mille per un investimento decennale, volto al ripristino dei
beni culturali danneggiati durante l'evento sismico. Paradossalmente, imprese e grandi istituzioni si preoccupano sempre più di aumentare la dematerializzazione delle opere d'arte, promuovendo grandi campagne di digitalizzazione. Dallo scorso anno, un
'restyling' del
'Made in Italy' ha promosso l'introduzione di importanti novità:
a) la riforma per il consolidamento di un sistema nazionale dei musei;
b) la prima legge organica sul settore audiovisivo;
c) la creazione del tanto atteso
'Codice dello spettacolo', per razionalizzare gli interventi di sostegno dello Stato agli enti territoriali. La visione sulla cultura del rapporto
'Io sono cultura 2018' è supportata da un
'grandangolo' esteso a campi e saperi trasversali e alle modalità in base alle quali concorrono a trasmettere una nuova concezione di sviluppo. Non più solo il mantenimento dello stato delle cose: la cultura esce dalla gabbia della conservazione per essere rigenerata e, una volta sul mercato, produrre quell'indotto da vera e propria industria. Certamente,
l'Italia è un mercato trainante in termini di arte e turismo. Ed è al primo posto nel ruolo di
'influencer culturale'. Se questo dato, in fondo, ci stupisce, per le tante emergenze alle quali siamo abituati ad assistere quotidianamente, le tante ricerche negli
Stati Uniti sul rapporto tra cultura e quotidiano in
Italia riportano una realtà dagli occhi diversi, per quella felice combinazione tra competenze di livelli diversi. In conclusione, il rapporto in esame sembra evidenziare che i limiti allo sviluppo del nostro potenziale culturale vengono posti solamente
dall'Italia stessa, pigra e sfaticata nel valorizzare i propri talenti e nel capitalizzare energie e risorse.