Silvia MattinaCome ogni estate, in occasione del Roma Fringe Festival, le redazioni di ‘Periodico italiano magazine’ e ‘Laici.it’ si scatenano in una competizione a chi raccoglie il maggior numero di recensioni degli spettacoli teatrali da noi ‘visionati’. Una ‘gara nella gara’, inventata dalla ‘fertile mente’ del nostro direttore responsabile, Vittorio Lussana, a cui tutti noi ci dedichiamo con passione e amore nei confronti del teatro indipendente e verso quel mondo giovanile che cerca di porsi in evidenza. Anche per l’orgoglio di riuscire a ‘segnalare’ per primi dei sicuri talenti artistici, come negli scorsi anni ci è capitato di fare in molti casi, per esempio con Daniele Parisi, recentemente premiato al Festival del cinema di Venezia come ‘Miglior attore emergente’, intervistato sul canale Youtube di ‘Periodico italiano magazine’ sin dall’estate 2014. In ogni caso, la ‘gara delle recensioni’ durante il Roma Fringe Festival ormai vede un vero e proprio ‘Albo d’oro’ in cui ogni anno si è segnalato un nostro redattore: nel 2013 fu il caso di Carla De Leo; nel 2014 vinse nettamente Gaetano Massimo Macrì; nel 2015 è stata la volta di Michele Di Muro, che collezionò più di una dozzina di spettacoli visionati in poche settimane; infine, quest’anno è emerso il ‘fiuto’ e l’entusiasmo di Giorgio Morino, l’amico e collega che è riuscito a individuare e a recensire addirittura i due spettacoli finalisti di quest’anno: ‘9841/Rukeli’, che ha vinto di un ‘soffio’ quest’edizione 2016 e ‘La fanciulla con la cesta di frutta’. Ma ecco qui di seguito l’elenco completo del nostro lavoro, di cui siamo particolarmente orgogliosi.

I tormenti del signor K
(Giorgio Morino)

Il Roma Fringe Festival 2016 ha visto andare in scena il debutto dello spettacolo ‘I tormenti del signor K’, scritto, diretto e interpretato da Daniele Gonciaruk, con Francesco Natoli, Gerri Cucinotta e due allievi della scuola sociale di teatro: Antonio Previti e Gabriele Celona. La 'pièce' va a esplorare il difficile rapporto che si è andato a delineare tra l’uomo e la società moderna, caratterizzata con sempre maggiore frequenza da una totale perdita dell’identità individuale. Il ‘signor K’, protagonista della vicenda, è infatti un ‘poveraccio’ che, senza una ragione reale, né apparente, si ritrova con le manette ai polsi, in galera. Quello sarà solo l’inizio di un calvario emotivo che porterà il protagonista a confrontarsi con ben 8 differenti personaggi, che entreranno improvvisamente nella vita di ‘K’. Ma, al contrario dei tre 'fantasmi del Natale' che hanno aiutato ‘Scooge’ nel cammino della redenzione, questi 8 incontri affosseranno definitivamente l’identità del protagonista. Si assiste, in scena, a un teatro in cui è l’accusa a farla da padrona: la denuncia a regole e convenzioni della società, che trasformano la vita quotidiana in un’altra prigione, in cui non esiste in alcun modo il rispetto per l’identità della persona. Daniele Gonciaruk interpreta istrionicamente gli otto ruoli che rappresentano i vari ‘tormenti di K’, dimostrando che il Male, quello vero e con la ‘Emme maiuscola', può presentarsi sotto diverse spoglie e avere, al contempo, sempre lo stesso volto. Lo spettacolo, ben congegnato e molto ben scritto, alterna momenti ironici, sempre in bilico tra la satira sociale e il grottesco, ad altri ben più seri e riflessivi, in pieno ‘stile Fringe Festival’.

Palmina
(Michele Di Muro)

Sono passati 35 anni da quell'11 novembre del 1981, quando Antonio Martinelli, tornando presso l’abitazione di famiglia nei casermoni popolari del comune di Fasano, in Puglia, trova sua sorella Palmina avvolta dalle fiamme sul piatto della doccia, ove si era rifugiata nel vano tentativo di sottrarsi agli effetti dell’incendio. Ne seguì una terribile e lunga agonia, che si è poi conclusa col decesso della quattordicenne, avvenuto il 2 dicembre dello stesso anno. Questo è il soggetto dello spettacolo scritto e diretto da Giovanni Gentile, il cui intento è quello di raccontare e denunciare la drammatica storia di cui fu, suo malgrado, protagonista la giovanissima ragazza, ‘colpevole’ di essersi opposta a un imminente futuro nella prostituzione al quale, peraltro, era già stata avviata la sorella Franca. Un caso irrisolto, di cui ancora malvolentieri si parla e per il quale non si sono ancora individuati i responsabili. Una diffusa connivenza e omertà, nonché la cecità dei giudici di fronte all’evidenza delle prove, sono indicati come causa della mai giunta condanna. Il testo, ben interpretato in forma di monologo da Barbara Grilli, opera quindi una ricostruzione dell’intera vicenda, umana e giudiziaria. Il tutto avviene in una Fasano, assolato entroterra campestre in provincia di Brindisi, non ancora raggiungibile dalla superstrada a quattro corsie. Un territorio nel quale la famiglia Martinelli risiede in un appartamento donato dal comune. Padre, madre e undici figli: troppi. L’infanzia di Palmina viene tinteggiata come violenta, priva di affetto, culturalmente arretrata, difficile e senza prospettive. Unica consolazione: la religione e il miraggio di una possibile fuga. Con stile ‘giornalistico-televisivo’ alla Carlo Lucarelli vengono presentati al pubblico i singoli protagonisti, attingendo alle testimonianze dell’epoca, che vengono fedelmente riportate, inflessioni dialettali incluse. Conosciamo così la signora Lorè, la quale, insieme ai figli Enrico Bernardi e Giovanni Costantini, gestiva a Locorotondo un giro di prostituzione in una chiesa sconsacrata. A essa è legato Cesare Ciaccia, cognato di Palmina. Tra le figure ‘positive’ troviamo il medico Pasquale Di Bari e Nicola Magrone, il pubblico ministero che ha condotto le indagini, giungendo a raccogliere la testimonianza della stessa Palmina, la quale, in punto di morte, riferisce i nomi dei suoi aguzzini: i figli della signora Lorè (tale registrazione viene trasmessa durante lo spettacolo). Con punte di amara ironia si passa, quindi, al crudo racconto dell’assurda vicenda giudiziaria, che vedrà infine gli imputati assolti in Cassazione con ‘formula piena’. Oltre al danno giunge così la ‘beffa’: avvallando l’ipotesi di un suicidio sono da ritenere ‘calunniose’ le accuse di Palmina. L’autore ha così voluto evidenziare tutta l’ingiustizia perpetrata nei confronti della giovane pugliese, la cui voce è rimasta inascoltata per tre decadi. Fino a oggi. A seguito, infatti, di nuovi rilievi scientifici e ricorsi, il caso verrà sottoposto alla Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo. Nel 2012, la piazza antistante il comando della Polizia municipale di Fasano è stata intitolata alla memoria di Palmina Martinelli: un gesto di parziale risarcimento, ma soprattutto di forte opposizione a un atteggiamento di ‘omertà collettiva’, che vorrebbe ‘sotterrare’ la memoria della giovane sfortunata. Il pezzo si conclude con l’esecuzione ‘a cappella’ del brano ‘Amara terra mia’, cantata da Domenico Modugno. Lo spettacolo propone una ricostruzione degli eventi fedele, minuziosa e attenta. Tramite anche il ricorso alle tipicità fonetiche del parlato pugliese, lo spettatore è trasportato all’interno del dramma e viene, infine, a trovarsi in rapporto naturalmente empatico nei confronti della vittima. Mirabile l’interpretazione fornita da Barbara Grilli nell’esaltazione dell’elemento fortemente drammatico. Il testo ha insomma il pregio di riportare alla luce i comportamenti abbietti, tipici di un degrado culturale che favorisce il proliferare dell’atteggiamento ‘mafioso’, che più che indignare, spaventa e verso il quale, normalmente, si reagisce col silenzio. Tutto questo appartiene certamente a un passato, che non è poi così lontano. Toccante.

Noi che vi scaviam la fossa
(Michela Zanarella)

Che cos’è la normalità? E’ una domanda ricorrente nell’opera teatrale ‘Noi che vi scaviam la fossa’, diretta da Vania Castelfranchi. La prima per la compagnia ‘La Crisalyde’, formata da allievi attori appena diplomati alla scuola di EsoTeatro ‘Ygramul’. Un’opera ispirata e tratta dal ‘Marat/Sade’ di Peter Weiss del 1964. Sul palco del Roma Fringe Festival 2016 la messa in scena di una rappresentazione sull’assassinio di Jean Paul Marat, ordito dal marchese De Sade, regista e drammaturgo, nel manicomio di Chatenton. Il teatro nel teatro, dove la pazzia muove i fili di tutta l’impalcatura testuale. Un teatro di ricerca e sperimentazione, molto apprezzato negli anni settanta, che oggi non incontra più di tanto i gusti di un pubblico reso, paradossalmente, meno sofisticato dalla televisione e dall’inculturazione di massa. La messa in scena è originale e va comunque seguita con attenzione. Prima di accedere alla ‘prison dei giullari’ al pubblico viene consegnato un foglietto informativo sulla schizofrenia: si è obbligati, cioè, a leggere una sorta di regolamento prima di passare la porta della cella. Siamo tutti schizofrenici. E’ vietato parlare e relazionarsi con i pazienti. Una volta entrati, inizia lo spettacolo, anticonvenzionale, dove Luca Lollobrigida, Mirco Orciatici e Matteo Paino, indossando abiti lerci, da internati, ci accompagnano a capire i personaggi. Marat, martire rivoluzionario, si presenta in preda al prurito, con la pelle giallognola, coperto di stracci, nella sua utopia visionaria, mentre De Sade, nella sua disarmante anarchia individualista, è il trasgressivo e il perverso. A mediare il loro confronto, il ‘banditore’ Jean Roux, che è un po’ il ‘trainatore’, colui che in qualche modo fa interagire il pubblico con gli attori rendendolo parte attiva. In un gioco di pensieri e riflessioni che si susseguono tra le pareti del manicomio, poiché “la morte trova sempre il suo corso” come la vita stessa. E si passa a parlare del “brutto vizio della libertà” e la normalità diventa un falso, perché alla fine non si è mai veramente liberi dalle convenzioni e dalle leggi sociali. Chi crede nella famiglia è un fallito, perché l’unica strada è quella del singolo. Il manicomio diventa ambientazione ideale per raccontare le inquietudini, le illusioni e le angosce di chi è considerato diverso e viene escluso dal cerchio della società. La scenografia, molto curata, di Domenico Latronico ci mostra un trono eretto su una montagna di volti e organi maschili scolpiti, uno scrittoio e un letto insolito. Tra questi elementi non casuali si muove la trama, in cui i tre personaggi scavano la fossa alla ‘normalità’, ché non esiste nulla di così selvaggio e crudele come la gente normale. Dalla rivoluzione francese, le parole libertà, fratellanza e uguaglianza danno forma, nella contemporaneità, a immagini mostruose, dove emergono la violenza, la sofferenza e la divisione tra i popoli. La parola “Bataclan” ci riporta all’attentato terroristico avvenuto a Parigi. Il pubblico che osserva viene stimolato a disobbedire alle regole: i protagonisti si fanno dipingere il volto, si fanno toccare, portano le persone presenti a compiere azioni, ad afferrare oggetti. E questo contatto diventa una particolarità costante di tutto lo spettacolo. L’uso delle maschere, invece, ci proietta nello scambio dei ruoli e delle identità: se i malati mentali non vengono considerati come persone, mascherati assumono una familiarità, diventano una realtà più piacevole, che fa sorridere e rende più sottile la linea tra attore e spettatore. E muniti di armonica a bocca, chitarra e un bastoncino di legno, i tre cantano e ballano come ‘buffoni’, ma dietro le loro parole si cela un messaggio profondo, che invita a imparare e ad ascoltare gli altri. S’instaura un nuovo codice di relazioni, dove se le regole sociali non funzionano: almeno, quelle del teatro ci riescono. Alla fine, gli spettatori vengono liberati dalla cella, ma a una condizione: dovranno applaudire e ci sarà un 'capro espiatorio', che dovrà rimanere rinchiuso insieme ai tre personaggi. La normalità, dunque, ha un ‘prezzo’. E spesso incarna la crudeltà. Nel complesso, lo spettacolo ha un buon ritmo e gli attori riescono a far percepire tutte le loro energie emotive e mentali, in un continuo disequilibrio. Alla follia, il compito di tracciare una verità: originale.

Diario elettorale
(Gaetano Massimo Macrì)

E’ la storia di un amore mai nato, morto sul nascere dentro le urne elettorali. Il racconto dello scrutatore innamorato della fantomatica “Donatella di Garbatella”, anche lei scrutatrice, che perde di vista e che ricerca negli anni, elezione dopo elezione, con la speranza di ritrovarla. La sua frustrazione è segnata dal ritmo delle ‘chiamate’ al voto: comunali, amministrative, nazionali, referendum. Lui è là, in attesa che si palesi la donna della sua vita. Una donna che, proprio per via di quelle istituzioni da rinnovare, ha perduto, ma paradossalmente le consultazioni sono l’unico ‘filo’ che ancora potrebbe condurlo da lei. Tant’è che, per poter amare e rincontrare Donatella, finisce con l’amare la democrazia. La sua vita continua, tuttavia, nell’incertezza, come tanti elettori che, come ‘pecore’, si muovono senza sapere dove andare. 'Diario elettorale' è un lavoro semplice, ma spassoso, intriso di linguaggio ‘burocratese’, che accentua il paradosso di un uomo/elettore senza più una 'bussola'.

Adulino va alla guerra
(Annalisa Civitelli)

Gli spettacoli messi in scena dalla compagnia ‘Circomare Teatro’ narrano le vicende di maschere legate alla contemporaneità, adattate, sia nelle vocalità, sia nelle movenze, alla tradizione. Quindi: lazzi, giocoleria e scene paradossali si legano al sociale e alla quotidianità, senza però criticarne il senso. Al Roma Fringe Festival 2016, un altro esempio di commedia dell’arte è approdato grazie ad 'Abdulino va alla guerra', di e con Alessandra Cappuccini, Luisa Ciavattini, Mario Umberto Carosi, Andrea Onori e Mariagrazia Torbidoni, per la regia di Mario Umberto Carosi. Lo spettacolo è introdotto da un gruppo di 'giullari-cantori' che, come in una piazza, in mezzo al pubblico ha intonato il suo primo ritornello. Abdulino è un Arlecchino dei tempi nostri. Egli è immigrato e, in quanto tale, lavora duramente. La nazione di ambientazione (dalla sinossi: un Paese occidentale), che a nostro avviso rimane aleatoria, si appresta a intervenire in una guerra oltremare. Le persone potenti, i politici, gli industriali e i generali dell’Esercito devono comunicare al popolo la loro decisione: quella di intervenire. Colombina, così, viene incaricata dell’organizzazione della ‘conferenza’, mentre Abdulino, al suo primo giorno di lavoro, viene arruolato contro la sua volontà. Una storia, dunque, che ci pone di fronte agli attuali problemi lavorativi e di precariato; a quelli dell’immigrazione; al razzismo; alle decisioni dei poteri più forti; a quelli generazionali alle prese con l’amore, la solitudine e al matrimonio. Una performance assai diversa rispetto a 'La legge dei denari' (già andato in scena al Fringe capitolino di quest’anno), la quale, più cadenzata, emerge per ritmo, storia e forme attoriali. 'Abdulino va alla guerra', d’altro canto, sembra non avere il 'mordente' necessario per catturare l’attenzione del pubblico, sebbene le basi della commedia dell’arte ci siano tutte, anche se in chiave edulcorata. Abbiamo altresì constatato che, proprio in occasione di una rassegna come il Fringe, in cui la possibilità di vedere gli spettacoli più volte può essere necessario, 'Abdulino va alla guerra' viene modificato in brevi passaggi, usando tecniche di improvvisazione teatrale. Il tentativo di musicare delle canzoni c’è e fa emergere un grido di contestazione: “Se continuate a far la guerra…”. Abdulino si domanda, verso il finale: “Chi ha distrutto il mio Paese"? Tanto da pensare di farsi saltare in aria con una bomba. Simpatica è l’interazione con il pubblico: gli attori chiedono quale potesse essere il modo migliore di continuare l’esibizione, se far scoppiare l’arma, oppure, tramite un rewind, ripetere la scena e lasciarla al suo posto, senza farla esplodere. Un lieto fine solleva il pubblico e mette pace tra gli essere umani. La performance è in ogni caso significativa in una ‘chiave’ interpretativa ‘Fringe-style’: bizzarra, colorata, divertente.

La fanciulla con la cesta di frutta
(Giorgio Morino)

Divertente, ironico, istrionico, dissacrante, imprevedibile, geniale. Questa è solo una parziale selezione di alcuni degli aggettivi che hanno accompagnato e fatto seguito alla visione de ‘La fanciulla con la cesta di frutta’, per la regia di Francesco Colombo, con Grazia Capraro, Marco Celli, Adalgisa Manfrida e Michele Ragno. La vicenda si svolge nella Galleria Borghese di Roma e ha per protagonista Mario Minniti, il modello che ha ispirato Caravaggio nella realizzazione del capolavoro ‘Fanciullo con cesto di frutta’. Ora, immaginate di essere nella galleria, circondati dai quadri e da opere d’arte millenarie che se ne stanno lì, immobili e immutabili, a ricambiare il vostro sguardo: e se le opere prendessero improvvisamente vita davanti a voi come nel film 'Una notte al museo'? E se iniziassero a muoversi, a parlare, a raccontare la loro vita e tutti i retroscena dell’opera stessa? Questo è quello che avviene nella ‘Galleria Borghese’ di notte, quando Mario Minniti si sveglia dal suo torpore prendendosela con il suo creatore, Caravaggio, il cui spirito è imprigionato nell’opera. Motivo del dibattito: se lui, il modello dell'opera, è il soggetto dell’arte, allora non è proprio egli stesso l’arte? E quindi: chi è l’opera? Chi è l’artista? Chi ammira il fanciullo, apprezza il genio dell’artista? O è l’opera d’arte stessa a essere l’artista? Che senso ha esser stato ritratto e immortalato? E come mai la gente che ammira il quadro non riesce a capire se il modello sia effettivamente un fanciullo o una fanciulla? Al dibattito si uniscono altre opere: il Cristo con gli angeli protagonisti de ‘Le stigmate’, opera seicentesca dello stesso Minniti, che interrogano il loro ‘padre’ sulla natura dell’esistenza. In particolare, Gesù Cristo è simpaticamente confuso su cui sia il suo vero padre: Dio o Minniti? Si aggiungono alla discussione il Van Gogh del celebre 'Autoritratto', insieme alla ‘Prima ballerina’ ritratta da Degas, alla ‘Ophelia’ di Millais e alla lapidaria e austera ‘Monna Lisa’ di Leonardo. Ogni opera si interroga sul proprio ruolo in un modi inaspettati e spassosi. Impossibile non perdersi nel surreale vortice di battute e riflessioni al limite dell’assurdo. Lo spettacolo è solidamente realizzato e magnificamente interpretato. Il ritmo è incalzante e porta a un finale che ‘chiosa’ perfettamente il messaggio nascosto nel divertimento della rappresentazione: che cos’è l’arte? L’unico modo in cui potrete trovare la risposta a questa domanda è guardare lo spettacolo e lasciarvi trascinare nel suo vortice irresistibile di divertimento. Molto bravi.

Right on!
(Michela Zanarella)

Essere accusati di associazione sovversiva con finalità di terrorismo internazionale e finire 'dietro le sbarre' senza nessuna prova concreta. E’ successo la notte del 13 giugno 2012 a tre amici dell’autrice e attrice, Daniela Marcozzi, che ha scelto di portare sul palco del Roma Fringe Festival 2016, con il supporto artistico di Peter Rose, uno spettacolo performativo, ‘Right on!’, che nello 'slang americano' non è altro che un’esortazione all’azione e significa, appunto, reagire, combattere, nonostante tutto, anche se in preda alla rabbia più profonda, all’incomprensione e alla paura. Ispirandosi a questa realtà complicata, la Marcozzi entra in scena bendata e ci parla attraverso i movimenti del corpo, che bisogna seguire con una certa attenzione per cercare di entrare in sintonia con ciò che vuole farci intendere. Due piatti, o meglio due coperchi rovesciati, uno che sale e l’altro che scende e viceversa, ci danno il senso di una bilancia: in uno c’è una foto, nell’altro una mela e, in questa immagine, l’attrice vuole portarci a riflettere sul concetto di giustizia. Non è un caso, poiché la bilancia, che dovrebbe rappresentare il simbolo dello Stato di diritto, dell’equilibrio giuridico e della ricerca della verità, spesso diventa il 'metro' della colpa e della punizione. Ci troviamo di fronte a un teatro 'simbolista', dove la mela rappresenta la bellezza giovanile che viene divorata e annullata nella sua essenza dall'autorità, che afferra i malcapitati. In tutto questo vi è un adattamento piuttosto personale, liberamente ispirato a ‘La peste’ di Camus. E anche in questo caso, la scelta non è affatto dettata dalla casualità, ma ben ponderata e motivata: è una metafora del male, della negazione evidente della libertà nell’indifferenza. Un male dove è più facile arrendersi che lottare, in cui emerge la violenza e la perfidia dell’animo umano. Quando morde istericamente la mela, o mangia avidamente dal piatto come un cane rabbioso, l’artista ci mostra la brutalità, la bestia trionfante, la drammaticità di questa visione. Una buona parte della rappresentazione si concentra sulla danza. E tutta la tensione viene trascinata nelle linee del volto, nei passi che si fanno nervosi e, spesso, incomprensibili. Non è facile capire il testo, perché la Marcozzi ha scelto l’inglese, anche se ‘italianizzato’, forse per ‘calcare’ ancora di più la propria ‘mano’ su una situazione di 'barriere impenetrabili', dove non c’è nessuna spiegazione logica alla detenzione. Trovarsi improvvisamente in carcere per un anno, senza processo, diventa qualcosa di spaventoso e, allo stesso tempo, disarmante. Non sai più come comportarti, come uscire da quel tunnel infernale. Daniela Marcozzi tenta, insomma, un’operazione difficile e delicata, ma lo spettatore si sente disorientato, sia per le molteplici difficoltà nel cogliere il senso delle scene, sia per la lingua. Tra l’altro, il video che proietta il testo si segue faticosamente. Così, tra un ‘tell the truth’ e un ‘open the door’ è vero che si vive il controllo e la repressione propri del carcere, ma nulla appare così semplice e lineare. Concettuale.

La cena delle verità
(Silvia Mattina)

La vicenda si svolge interamente in un interno che sembra un ristorante, ma non lo è. Un luogo dove è stata allestita quella che sembra essere una cena: una tavola apparecchiata, alcune sedie e dei vassoi. Tutto all'apparenza sembra presagire una tradizionale ‘pièce’ dal classico intreccio narrativo proprio della commedia all’italiana: un uomo e una donna stanchi della loro vita insieme decidono di ricorrere allo psichiatra per mettere in ordine i pezzi della loro esistenza. La convenzione della cena come rivelatore ed 'esplosivo innescante' fa emergere una coppia che appare in disaccordo su tutto e lascia frantumare l'intimità da una serie di litigi, accuse, minacce e silenzi. La vera ‘partita’ si gioca tutta nel binomio tra bugia e verità. E sorgono da subito interrogativi nei due personaggi: è meglio una bugiarda felicità, oppure una dolorosa sincerità? Apparentemente banale, la cena svela, in apertura, il dramma esistenziale dei due protagonisti: essi hanno deciso di affrontare le loro menzogne e, infatti, ognuno di loro deve ‘servire’ all'altro i propri segreti per un ultimo grande atto d'amore e di salvezza. Quando l'esperimento comincia, risulta chiara la difficoltà di ascoltare i ‘brividi della franchezza’, perché non si è abituati al fatto di vedersi servita la verità su un piatto d'argento, in una società irrimediabilmente distorta. L'uomo appare scettico e avanza alla donna una serie di scottanti questioni, che si canalizzano sull'inutilità di avere un perfetto sconosciuto a cena, invocando più volte l'abbandono della psicoanalisi come ennesima prova di un rapporto apatico, logorato dall'inesorabile scorrere del tempo. La donna non si cura dei possibili effetti negativi delle rivelazioni sulla relazione, ma pretende attenzioni e complimenti del marito da inserire in una sterile messa in scena, spiata dal dottore posto dietro il vetro. L'illusione femminile è tuttavia fragile e risponde a una convenzione teatrale tipica delle coppie ‘medio borghesi’, più attente all'apparire che all'essere, (in)consapevolmente protagoniste di un 'grande fratello psicologico'. "Tu pensi di sapere tutto su di me"? Questa è la domanda che introduce l'escalation di verità a cui il pubblico assiste con apprensione. Le sei portate svelano la storia della coppia, dall'ironia del peluche ‘Dumbo’ per le derise orecchie a ‘sventola’ di lei, passando per il danno alla macchina provocato per gelosia, fino alla messa in dubbio della storia stessa da un escamotage drammaturgico finale. Quel che resta è un intreccio fedele alla sua plausibilità e incalzante verosimiglianza, ma anche altamente provocatorio nell'insistente attenzione ai nodi problematici, alle ipocrisie e insofferenze comuni nell'essere umano. I piccoli momenti di silenzio che calano sulla coppia sono sintomatici di un'invincibile antipatia e rancore. I due attori sottolineano le loro posizioni antitetiche sulla vita attraverso un emblematico spostamento di sedie. Si fatica a sincronizzare le lancette dell'orologio sulla crucialità di una scelta risolutiva, basata sulla trasparenza del rapporto, privo di moralismi o costrizioni sociali. La cena delle verità riconduce sul palcoscenico la teatralità messa in scena in film nazionali e internazionali, dallo smascheramento del medio borghese nel 'Carnage' di Roman Polaski, alla paura di accettare il cambiamento nelle dinamiche interpersonali di 'Perfetti sconosciuti' di Paolo Genovese. Insomma, una performance attoriale convincente: Sandro Calabrese e Nora Godano riescono a mantenere fino alla fine l'equilibrio tra inquietudini interne e indefinite minacce esterne. Il delicato  filo di cinica ironia e di tensione drammatica mette in piena luce una scrittura teatrale incentrata su una buona analisi sociale mutuata dalla fusione ‘pinteriana’ fra farsesco e tragico. Un buon ‘pezzo’ di teatro ‘classico’.

Avrei voluto essere Pantani
(Gaetano Massimo Macrì)

Il monologo porta in scena la storia di Marco Pantani, condensando i momenti più salienti della vita del ‘Pirata’, come ciclista e come uomo, con i suoi pregi, difetti e peculiarità. Le linee di ascolto poggiano proprio su questi due ‘piani distinti’, che si intersecano tra loro: quello dell’immagine pubblica e quella privata del compianto sportivo trovato morto in una stanza di un residence riminese. La narrazione procede, inoltre, lungo due linee: in orizzontale e in verticale. La prima è, sequenza dopo sequenza, la rievocazione delle ‘tappe’ del corridore, i successi inanellati, specie dopo incidenti e cadute che avrebbero fatto desistere chiunque, ma non quel ciclista caparbio, ostinato, troppo sicuro di sé da spaventare i più forti avversari. Da scalatore puro, Pantani però è crollato. Ha sopportato ogni fatica, ma la vicenda del ‘doping’, che lo ha visto coinvolto suo malgrado, lo ha annichilito. Ed è proprio il racconto del lato più intimo e privato a suscitare maggiore interesse. Un racconto che sale (la parte verticale) pian piano, con l’ombra del 'doping' sul ciclismo che si palesa, sconfinando nell’intero mondo dello sport in generale. Una ‘macchia’, se rapportata ai canoni etici sportivi. Un ‘sistema’ ormai troppo in relazione col suo marketing. Pantani, come tutti gli altri, in fondo era diventato soprattutto un uomo d'immagine, utile soprattutto a fargli indossare capi e magliette sportive con ‘loghi’ ed etichette. Un’opera nel complesso ben costruita, che ha il merito di ricordare una vicenda nota, ma pur sempre attuale, di fronte alle ‘complessità’ del ciclismo moderno e di altre nostre discipline sportive. Una riflessione matura, per capire il ruolo di vittima e carnefice, all’interno di un sistema da tempo ‘fuori controllo’. Accompagna il monologo un sottofondo musicale di Charlie Parker, definito da un critico: “L’uomo che reinventò la sintassi e la morfologia della musica jazz”. Il paragone con Marco Pantani è eloquente.

M. U. D. – Poeti in trincea
(Giorgio Morino)

Cosa potrebbe succedere se la poesia, l’espressione più antica e raffinata della letteratura mondiale, venisse mescolata all’aberrante ‘pattume’ moderno dei ‘reality’ e dei ‘talent show’? La risposta prova a darla la compagnia ‘Gruppo della creta’ con lo spettacolo: ‘MUD: poeti in trincea’. Una formula semplice, che vede affrontarsi in un ‘contest’ televisivo tre ‘poeti immortali’ della letteratura italiana, che hanno preso parte e scritto poesie durante la prima guerra mondiale: Filippo Tommaso Marinetti, il padre del 'movimento futurista'; Giuseppe Ungaretti, che ha saputo raccontare il male e il dolore della guerra rielaborando, nei suoi versi, il 'simbolismo francese'; Gabriele D’Annunzio, poeta del piacere e dell’interventismo. Un quadro colorito e variegato, che viene sapientemente gestito dagli attori in scena: Cristiano Demurtas, Alessandro Di Murro, Lida Ricci ed Enea Chisci. I concorrenti del ‘contest’ sono infatti chiamati a sfidarsi “in poetica tenzone”, a colpi di versi e componimenti improvvisati, cantando a ritmo di ‘ukulele’ e ‘rappando’ poesie celebri, che vanno da ‘La pioggia nel pineto’ a ‘Bombardamento’, alle ossessive ‘onomatopee’ futuriste, fino ad arrivare alla semplicità ingannevole di ‘Mattina’. Una provocazione in pieno ‘stile Fringe’, quella proposta da questa giovane compagnia: una ‘miscellanea’ stridente di forma e contenuti, che riesce a straniare lo spettatore, incapace di capire se prendere sul serio la ‘poetica’ calata nel contesto moderno del 'talent show'. L’esperimento è efficace, diverte e ‘strappa’ più di qualche risata di gusto, anche grazie all’istrionismo degli attori: Cristiano Demurtas e Lidia Ricci sono due ottimi stereotipi dei presentatori televisivi, ossessivamente ripetitivi e ridondanti; Alessandro Di Murro interpreta, invece, i tre poeti sulla scena, cogliendone pienamente le caratteristiche peculiari e i lati caratteriali sopra le righe, proponendoli agli spettatori in un turbinio di ‘scambi al vetriolo’ e, in alcuni frangenti, inscenando veri e propri atti di ‘nonnismo’ ai danni del povero Ungaretti. Geniale, infine, la trovata iniziale dell’eliminazione di Umberto Saba e le successive sommosse popolari nella città di Trieste. In definitiva, uno spettacolo molto divertente, che provoca lo spettatore portandolo a riflettere su quello che si ritrova a guardare quando fa ‘zapping’ in tv.

Tre once di lana nera
(Vittorio Lussana)

Maria Grazia Tofone interpreta il ruolo di un’astronoma alla quale viene recapitata una lettera, in cui le viene comunicato che il suo lavoro presso l’osservatorio nel quale da anni svolge la propria professione è terminato. La ragazza cerca allora di riordinare gli studi scientifici da lei eseguiti, per passare le ‘consegne’ a chi verrà a sostituirla. Ma una passione così profonda per il proprio mestiere le ha fatto perdere di vista il proprio passato, che all’improvviso viene ‘riletto’ drammaticamente, poiché la solitudine ha isolato la ragazza sino a farle perdere il senso del tempo. Una presa di coscienza improvvisa nell'essere divenuta un 'corpo estraneo’ rispetto al resto del mondo, quasi a ricordarci che guardando sempre ‘col naso all’insù’ si può perdere il contatto con il pianeta sul quale viviamo, mentre sarebbe sempre meglio, ogni tanto, tornare con i piedi ‘per terra’, o sulla Terra (che poi è la stessa cosa…). Lo sviluppo del testo, non semplice, si dipana tra voli ‘pindarici’ e passaggi poetici che la Tofone recita con intensità, senza sbagliare neanche una battuta. Emerge, tuttavia, una sorta di ‘compressione concettuale’ dal sapore vagamente ‘punk’, come se la solitudine della ragazza esplodesse tutta insieme: una ‘polveriera’ la cui lettera di ‘fine incarico’ svolge la funzione di ‘miccia incendiaria’. Non si spiega molto come mai tutte le indicazioni che all’improvviso giungono alla protagonista arrivino in modo così radicale. E come mai non vi sia stata, invece, una graduale presa di coscienza, o di semplice consapevolezza, di un’immersione appassionata, ma eccessiva, nello studio degli astri. Possibile che una personalità così giovane, forte, sensibile e preparata non abbia mai sentito il bisogno, quanto meno, di scendere in paese, giù in fondo alla valle? Possibile un isolamento così assoluto e totale che esplode esattamente come il ‘collasso’ di una stella innanzi a quello che proprio gli astronomi definiscono: “Orizzonte degli eventi”? Tutto ciò è apparso alquanto ‘statico’. E anche un po’ strano. Fotografico.

Chatters
(Annalisa Civitelli)

In questo spettacolo, il potente mezzo della televisione viene messo in discussione grazie all’idea dell’autore–regista, Niccolò Matcovich, coadiuvato da Giacomo Sette e Simone Caporossi, di porre il pubblico di fronte alla ‘scatola magica’. Assistiamo, dunque, a una puntata del ‘talk’: “E invece io ne parlo”. Chatters (dall’inglese ‘chiacchierare’) presentato dalla compagnia 'Habitus', è infatti una forte critica ai programmi televisivi di oggi, al fine di di porre in discussione le attuali forme di ‘appiattimento’ culturale e d’inculturazione di massa che avvengono attraverso lo ‘sproloquio’ dei propri problemi ‘spiattellati’ in diretta televisiva. “E invece io ne parlo” è condotto da Alida Fata (Marialucia Bianchi), la quale ospita in trasmissione gli amici di Andrea, un giovane ragazzo di 27 anni che si è tolto la vita sia a seguito di delusioni familiari, sia a causa di insuccessi artistici. Il fallimento di un ‘flash mob’, che il protagonista della vicenda aveva proposto in rete aprendo un blog specifico; il desiderio della pubblicazione di un libro; il sospetto di una repressa omosessualità. A dare voce ad Andrea è un violino elettrico, suonato da Fulvia Farcomeni. Gli attori, disposti a semicerchio, per la maggior parte del tempo sono seduti su appositi ‘sgabelli’. Presentati dalla conduttrice, ognuno di loro racconta del rapporto che aveva con il ‘convitato di pietra’, dell’ultima serata trascorsa con lui e dell’ipotetica idea del suicidio collettivo. Sandro (Emanuele Marchetti Italo Flaminio) consegna le pizze a domicilio, abita nello stesso stabile di Andrea ed è il suo migliore amico; Paolino (Armando Quaranta), romanziere in 'erba', contatta il protagonista come correttore di bozze; Dario (Valerio Puppo) e Sofia (Agnese Toneguzzo) partecipano attivamente al blog ‘Club27’, creato da Andrea; Romano e Rosa (voci fuori campo di Gianluca Enria e Livia Antonelli) sono i genitori di Andrea. La regia si basa su elementi semplici: la staticità si contrappone ai pochi passi della conduttrice, la quale, muovendosi dalla sinistra al centro del palco, scombina la fissità della scena. Durante la pubblicità, la 'zuffa' degli ospiti genera movimento. Un unico personaggio rompe gli schemi, provocando un’uscita di scena e sfondando la 'quarta parete' per provare a vendere il suo manoscritto e farsi pubblicità, donando all’insieme un momento di vivacità. Provocatoria, dunque, questa performance. Soprattutto quando Rosa (mamma di Andrea), intervenendo al telefono in trasmissione, riesce a declamare tutto il suo disincanto rispetto ai media, andando contro il sistema e denunciando la falsità dei fatti ricostruiti. La recitazione non corrisponde, tuttavia, alle nostre aspettative. Gli attori non emergono in modo marcato, soprattutto Agnese Toneguzzo, la quale fatica davvero, con il suo debole ‘timbro’ di voce (poco udibile) a raggiungere la platea. Marialucia Bianchi mantiene, invece, l’aplomb che si addice alle presentatrici di oggi, facendo affiorare la contraddizione di una personalità 'composta' in trasmissione, ma ‘sguaiata’ fuori dal contesto lavorativo. Emerge un sottofondo di amarezza: tutti noi, succubi e carnefici, potremmo riconoscerci in questo ‘mare nero’ che mercifica le nostre vite. A tratti divertente, possiamo considerare 'Chatters' un gioco malvagio il quale, pesando sulla collettività, ne abbassa le difese. Spietato e amaro.

La legge dei denari
(Silvia Mattina)

Ci sono tutti gli ingredienti tipici della commedia dell'arte italiana, in questo ‘La legge dei denari’. Un canovaccio che si ‘snoda’ in un susseguirsi di dialetti e lingue differenti, tipi 'fissi' e maschere di cuoio, intrecciandosi con i testi classici della letteratura teatrale (Goldoni e Molière). Il lavoro della drammaturgia di Federico Moschetti e Irene Scialanca è tutto incentrato sul ritorno alla purezza degli stereotipi delle commedie classiche del teatro greco e romano, passando per la tragedia ‘shakespeariana’, della quale ne esemplifica le tematiche sociali, culturali ed etiche. ‘Il mercante di Venezia’ di William Shakespeare diventa una tragicommedia in cui i personaggi centrali sono l'usuraio ebreo Shylock nelle vesti di Pantalone e il mercante Antonio, o meglio Antonia. Le figure femminili sostengono e indirizzano il tono di tutta la narrazione, da un punto di vista ironico e 'frizzante': dalla principessa Porzia che gioca con simpatia e delicatezza sui difetti fisici dei suoi pretendenti, coinvolgendo anche il pubblico maschile, alla generosa donatrice Antonia, pronta a sacrificare la sua vita per aiutare il suo amico Bassanio. La narrazione si apre con la tipica scena in cui si presentano il ‘padrone’, lo ‘squattrinato’ Bassanio e il suo servo Graziano (una delle principali maschere, insieme a Pantalone, della commedia del passato) attraverso un dialogo che svela immediatamente il fine della storia: reperire il denaro per conquistare il cuore della bella Porzia. La ricerca di un prestito si trasforma in un ‘botta e risposta’ continuo di equivoci, al ritmo di battute e doppi sensi. Un gioco dialettico ben costruito, che ha il suo culmine nella scena successiva, quando Shylock, al centro del palco, interpreta perfettamente tutto quello che la società ‘benpensante’ stigmatizza e critica, rinchiudendosi in una sordida avidità, o meglio: ‘un reato contro-natura', alla maniera dantesca. La potenza e la ricchezza di Antonia sembrano, in un primo momento, vincere sul viscido ‘strozzino’, che concede a Bassanio un prestito di tremila ducati barattando una libra di carne umana. L'enfatizzazione delle ripetizioni aiuta il pubblico a concentrarsi sulle caratteristiche attoriali, in un gioco tra servi e innamorati, 'flashback' e richiami al presente, funzionale nell'esprimere le peculiarità dei ruoli impersonati. Il vasto repertorio dei canoni tipici della commedia dell'arte prende vita in tutto il suo vigore in occasione della festa organizzata nella casa della bella Porzia, la quale è chiamata a scegliere tra tre diversi pretendenti: il principe del Marocco; il principe d'Aragona; il furbo Bassanio da Montecompatri. Una performance da 'catechesi', in cui i dogmi della commedia dell'arte si susseguono attraverso il ricorso ai consueti ‘frizzi e lazzi', ovvero giochi che fanno apparire l'intreccio entusiasmante grazie a ‘scherzi’ mutuati dall'ambiente circense (il principe d'Aragona sui 'trampoli', per esempio, con uno spiccato accento francese) o all'improvvisazione da interazione. Quest'ultima è solo di facciata e pone in luce il buon fraseggio degli attori. Tra danze e canzoni si arriva all'epilogo finale, in cui l'abile travestimento di Porzia in ‘uomo di legge’ sventa la vendetta di Shylock e salva la vita ad Antonia, ormai caduta in disgrazia. Ed ecco il trionfo di una 'giustizia soggettiva': il rabbioso usuraio non può che piegarsi al volere dei ricchi, perdendo così tutti i suoi diritti sul contratto di prestito, perché come ripete lui stesso: "Le leggi le fanno i nobili". La punizione del vecchio Shylock racchiude una morale imposta dall'alto, in nome dell'economia del lieto fine. La giovanissima compagnia 'TradirEfare Teatro' ha presentato un progetto che mostra un'accurata conoscenza tecnica e storica sulle tradizioni della commedia dell'arte, in cui le specializzazioni dei singoli attori emergono armoniosamente. Una storia buffonesca e istrionica, come il buon manuale della commedia delle origini prescrive. Eccellente.

Donne sfuse
(Carla De Leo)

Cinque episodi, o ‘corti teatrali’ che dir si voglia, in cui 3 amiche raccontano alcuni episodi, tra il ridicolo e il beffardo, della vita quotidiana, sullo sfondo di una società andata, oramai, a 'gambe all’aria'. Stiamo parlando di ‘Donne sfuse’, della compagnia teatrale genovese ‘Sophia Dalla Notte’, per la regia del ‘buon’ Nicola Camurri. La regia, in effetti, c’è. La ‘versatilità’ delle 3 attrici sul palco un po’ meno. O meglio: molto dello spettacolo si ‘regge’ sulla bravura di Paola Vacchelli, un’artista proveniente dalla ‘vecchia scuola’, sperando che ella non si offenda per tale categorizzazione; gradevole, ma poco adatta per alcuni ruoli, la ‘rossa’ Barbara Cavagnaro, troppo ‘sofisticata’ per interpretare la ‘parte’ di una cameriera milanese che prende la ‘comanda’ (anche se il tentativo possiamo considerarlo ‘encomiabile’ sotto il profilo della regia...); carina, ma un po’ troppo ‘sciantosa’, la Nicole Galante, che sembra sempre appena uscita dal parrucchiere, pronta per interpretare un episodio di ‘Sex and the city’. In ogni caso, siamo nel nobile territorio del teatro sociale, quello che tenta di abbozzare alcune analisi di antropologia della nostra vita quotidiana, individuando tematiche certe volte anche un po’ scomode, come per esempio l’omosessualità, ma anche alcuni interessanti episodi di incomunicabilità. In effetti, che i milanesi ogni tanto comprendano certe cose alla ‘rovescia’ lo abbiamo sempre pensato anche noi. Insomma, uno spettacolo sobrio, pulito, ‘diligente’: un buon ‘prodottino’, ma nulla di più. Forse, ‘lavorando’ - in chiave artistica, ovviamente - sulle due ragazze più giovani, si potrebbero ‘rafforzare’ alcune ‘performances’. Discreto.

La città di Nessuno
(Michela Zanarella)

Il gruppo ‘Mòtumus e Talìa’, scuola d’arte drammatica Puglia, porta in scena al Roma Fringe Festival una performance incentrata sul senso di crisi che domina le nostre esistenze. Anna Piscopo è autrice, regista e attrice dello spettacolo ‘La città di Nessuno’, ma si avvale della collaborazione di Roberta Rigano e Gioele Barone. E’ un ‘vomitare’ continuo di situazioni che si nutrono di un senso di oscurità. Non nausee, non angoscia, ma qualcosa che va oltre e che abbraccia la follìa nella verità più assoluta e dissacrante. L’attrice ci racconta incubi, disturbi, ossessioni, una profonda solitudine. Ed è la parola ‘crisi’, alternata alla parola ‘mangia’, a essere ripetuta in ‘loop’, per dare forma a quell’insistenza che s’infila nelle tempie e nell’anima. E si parla dei ‘vegani’ che muoiono di ‘cancro’, di una fame nervosa, che divora e non ha controllo, di una crisi che appartiene al nostro tempo, ma che non è intesa solo come condizione socio-economica, bensì come dimensione ‘intima’, che si spinge verso l’abisso, superando i limiti dell’ordinarietà. E allora non mancano i riferimenti ai disagi della società, al terrorismo e all’Isis, al razzismo, con l’odio e la violenza che mettono radice nell’uomo. Il movimento che rappresenta la condizione dell’umanità senza direzione viene portato in scena con passi di danza, ma questa scelta sembra poco efficace per la dinamicità dello spettacolo, che ne perde il ritmo. L’amore, i sentimenti, il rapporto con il corpo, la morte, vengono centrifugati e rimessi in discussione, a sottolineare come quei valori che ci hanno sempre insegnato, all’improvviso non esistono più: vita e morte si allineano diventando un ‘unicum’. In una sperimentazione interpretativa, in cui la dizione è carente poiché le inflessioni dialettali sono evidenti, la Piscopo ci porta in uno sviluppo narrativo che evoca confusione, contrasti, illogicità: una sorta di ‘crisi nella crisi’. A un certo punto, l’attrice parla della ‘lonza’, ma lo fa ancora una volta in modo provocatorio, riferendosi al sesso con il ‘felino dal pelo maculato’. E qui 'scatta' il collegamento con il canto I dell’Inferno di Dante, dove la ‘lonza’ è simbolo di peccato, di eccesso, assumendo un significato ‘demoniaco’. Anche il ‘mordere i polipi’ in scena, simbolo di ingordigia, avidità e ambiguità, si aggiunge a tutta una serie di espressioni oscure e anche un po’ ‘inquietanti’. Se l’amore è un “treno preso in pieno”, come l’attrice recita in una poesia, inserendo il ‘siccome che’ in quanto ‘licenza poetica’ da far passare con ‘manica larga’, questo nobile sentimento prende le forme di rapporti incestuosi o malati, come il desiderio di sodomizzare la propria madre, o ‘masturbarsi’ fino a ‘scopare il padre’. Difficile capire la funzionalità della proiezione del video della canzone di Gigi D’Alessio, se non quella di aggiungere caos al caos, infilando un po’ di tutto per rappresentare il grande ‘calderone’ della società odierna. Insomma, contenuti anche condivisibili, in qualche caso, ma resi attraverso modalità recitative volutamente estremizzate. E ritorna la fame, quel ‘mangiare tutto’ come in preda a una ‘tenia’ che provoca voracità. Il marciume dell’anima e del corpo riaffiorano pesantemente. E si continua a rigurgitare pensieri nevrotici, isterie che nascondono realtà spesso taciute e nascoste per rientrare nei canoni di un’umanità basata solo sulle apparenze. Sono continue ‘precipitazioni’ quelle proposte al pubblico, in attesa di trovare il coraggio per ricominciare e, finalmente, salvarsi. E’ un processo di ricerca interiore, ma non solo, in cui non esistono certezze. E allora si accorcia la distanza tra il passato e la contemporaneità nella figura di Ulisse, ovvero Nessuno, che incarna tutte le contraddizioni dell’animo umano. Purtroppo, l’impalcatura testuale viene resa secondo uno stile di recitazione ‘underground’ ormai superato dal tempo e alcune scelte di regia non convincono del tutto. Fuorviante.

Shakespeare kills the radio star
(Michela Zanarella)

Una 'performance' decisamente particolare, difficile da ‘inquadrare’, per Alessandro Balestrieri, che porta sul palco del Roma Fringe Festival 2016 le parole di William Shakespeare in forma di concerto. Anzi, una sorta di ‘non-concerto’, nel senso che non è molto definibile ciò che viene rappresentato. Il titolo ci riporta al brano del geniale musicista e produttore musicale britannico Trevor Horn: ‘Video killed the radio star’. E allora bisogna proprio partire dal significato stesso della canzone, che parla della stella della radio che perde ‘smalto’ e popolarità in seguito alla nuova era della ‘musica da vedere’. Ciò si ricollega, forse e in parte, anche al mondo del teatro. Balestrieri proietta ai giorni nostri l’opera di Shakespeare in una chiave insolita, ma lo fa ripercorrendo con minuziosa attenzione i testi, scegliendo una sua personalissima interpretazione. L’attore si presenta in scena come una ‘rockstar’, indossando una maschera d’asino e, per quanto questo possa disorientare lo spettatore, alla fine ci si rende conto che a ogni mossa è legato un significato e che esiste un chiaro riferimento al ‘Sogno di una notte di mezza estate’, dove mito, fiaba e quotidianità s’intersecano senza una continuità effettiva. L’asino che raglia e che con voce stridula pronuncia la frase “ho fatto un sogno che nessun cervello umano riuscirebbe a spiegare” è una precisa indicazione per immergersi nella profondità di espressione dell’opera. Infatti, è posto in relazione al momento in cui il ‘folletto Puck’, per prendersi gioco di alcuni attori improvvisati, tramuta la testa di uno di loro, Bottom, in quella di un asino. In una frammentazione scenica, si sviluppa un intreccio che non è altro che un alternarsi tra ragione e istinto, tra bello e ‘bestiale’. Un vortice di proiezioni e parallelismi tra mente e cuore, dove il tema centrale è l’amore in tutte le sue sfumature. Quando Balestrieri si toglie la maschera e inizia un intenso lavoro di movimenti sul corpo, per mezzo di uno specchio che va a riflettere l’interiorità, si sovrappongono atmosfere d’inquietudine che precedono la veglia e si entra nel complesso mondo della ‘psiche umana’. L’invocazione di fantasmi crea un nuovo ritmo, una diversa fase interpretativa: “Venite, spiriti arbitri dei pensieri di morte: dissuadetemi”, catapultandoci nel ‘Macbeth’. E’ un continuo ondeggiare del corpo, mentre i pensieri e le passioni si susseguono in un vortice, mettendo in relazione la vita reale con quella ideale. Il tempo è un altro ‘elemento-cardine’ dello spettacolo, misurato meccanicamente: si sentono le lancette a scandire le ore. Ma l’unico tempo riconoscibile è quello della morte, che diventa tempo di vita quando si ama, raggiungendo la sua massima espressione. Sono sensualità e debolezza a susseguirsi fino alla fine e, come in un gioco divertente e crudele, fatto di immagini e di suoni da assorbire, tutto diventa un ‘folle ibrido’, che in alcuni passaggi lascia senza direzione. Uno spettacolo che fa emergere i mutamenti della vita, nella verità più assoluta. I sentimenti umani pulsano tra le note, parola dopo parola. E la ripetizione ossessiva di un’inquietudine che preme non fa altro che dare altro ritmo, in cui “la sofferenza è sempre guadagno per qualcuno”. Balestrieri sicuramente ha operato un notevole lavoro sui testi di Shakespeare, ma alcune scelte di movimento sul palco forse non danno il modo di apprezzare appieno l’intenzione recitativa. A volte ci si trova smarriti a cercare una ‘linea illuminante’. E ciò non aiuta lo spettatore. Inconsueto.

Principesse e sfumature
(Vittorio Lussana)

Un monologo intelligente, recitato in maniera spigliata e con le giuste tempistiche da Chiara Becchimanzi: un’attrice spiritosa e di sicuro talento. Il testo presentato da questa simpatica artista ha generato un dibattito importante all’interno della redazione di ‘Periodico italiano magazine’, poiché ha sollevato il tema di un’esigenza culturale impellente per la società italiana: quella di un’educazione sentimentale e sessuale in grado di aiutare le giovani generazioni a decrittare meglio i numerosi ‘segni’ della vita adulta, in particolar modo quelli di non semplice o immediata decodificazione. Il punto di vista proposto dalla Becchimanzi è quello di una ragazza come tante, che proprio non ha avuto la fortuna di incontrare la persona ‘giusta’. Siamo completamente al suo fianco nell'assai opportuna ‘stroncatura’ del best-seller di Erika Leonard ’50 sfumature di grigio’, edito dalla casa editrice tedesca Bertelsmann, che descrive con linguaggio banale ed edulcorato una sessualità ‘Bdsm’ destinata soprattutto ad allargare il ‘target’ di mercato, anziché suggerire soluzioni praticabili di emancipazione femminile. Purtroppo, il lettore ‘medio’ italiano è uno ‘zuccone’ e, intorno a ciò, c’è ben poco da fare: lo sappiamo bene. Invece, sarebbe il caso di esplorare meglio il campo delle ‘ideologie omologative’, ovvero quello dei ‘modelli’ imposti da cinema, televisione e anche da un certo tipo di cultura di massa, al fine di difendere in maniera proficua se stessi e, più in generale, i nostri giovani durante la loro fase di crescita verso la vita adulta. Ciò vale sia per le donne, ancora oggi costrette negli angusti ambiti della sottomissione e degli atteggiamenti ‘dimessi’, ma anche per i ‘maschietti’, i quali vengono ‘formati’ attraverso una serie di repressioni che sfociano, quasi sempre, negli ‘sfizi’ pornografici, oppure verso la scelta, alquanto discutibile, di fidanzate ‘sante’ in pubblico, ma ‘pornostar’ in privato. Quest’ultimo, infatti, è soltanto uno dei percorsi di reciprocità sessuale, ma non l’unico, in un ‘territorio’ in cui dovrebbero esser prese maggiormente in considerazione anche le distinte compatibilità, le diverse esperienze soggettive e le eventuali affinità di coppia. Se le donne ‘soffrono’ quell’egoismo maschile che punta unicamente al godimento individuale, resta pur vero che esse stesse, in virtù dei condizionamenti che ricevono sin dall’infanzia, spesso si ‘autocondannano’ a rimanere nel ‘recinto’ delle ‘eterne Cenerentole’ al servizio del ‘Principe azzurro’ di turno. Insomma, il discorso della Becchimanzi non deve ideologizzarsi, ma dirigersi verso un obiettivo costruttivo e non ‘colpevolista’ nel rapporto tra ‘generi’, poiché ciò rischia solamente di portarci verso continui e inutili ‘tentativi’, incapaci di comprendere, per dirla con Ivano Fossati, “alcuna lezione”. In ogni caso, sinceri e sentiti complimenti a Chiara Becchimanzi per la propria gradevole e riuscita ‘performance’.

Mozza
(Giorgio Morino)

Per alcuni, il mare è semplicemente vacanza e ‘otium’. Per altri, il mare è lavoro e sudore della schiena su una barca. Per tanti, il mare è sacrificio, forza che dona e che toglie senza scrupoli, luogo indefinito dove perdersi e in cui ritrovarsi. Non potrebbe essere altrimenti per chi, come la protagonista del monologo ‘Mozza’, il mare ce l’ha dentro. Questa ragazza, cresciuta con gli insegnamenti del nonno, pescatore e vero uomo, che il mare ce lo aveva “dentro di sé” perché lo aveva 'bevuto tutto' durante la sua vita con orgoglio, decide di vivere su un peschereccio chiamato ‘Briglia d’oro’: come il cavallo di Orlando; come il peschereccio del nonno. Perché questa ragazza la terra non la vuole neanche vedere: lei, il ‘mal di mare’, lo ha sempre sofferto sulla terraferma. Claudia Gusmano, autrice, regista e interprete di questo monologo, intenso e coinvolgente, regala agli spettatori la sensazione di trovarsi davvero in mezzo al Mediterraneo, in compagnia di questa giovane senza nome, la cui unica compagnia è un gabbiano custode dei suoi pensieri, fantasie e ricordi. Tra il racconto delle vicende di Orlando e Rinaldo, la descrizione di una vita a terra che sembra intollerabile e priva di significato. Il mare, se lo si riesce a ‘bere’ fino all’ultima goccia, come ha fatto il nonno della protagonista, è tutto. Un monologo magistralmente interpretato, che 'profuma' di Sicilia e di ‘salsedine’ in ogni sua parola. Una scelta consapevole, quella di vivere in mare e per il mare. Perché soltanto attraverso il mare la protagonista riesce a sentirsi davvero se stessa. Essere Dio. Perché, come era solito dirle suo nonno: “Dio è ovunque e in ogni cosa; Dio è quello che siamo e quello che facciamo: sta a noi scegliere se seguire la nostra ‘rotta’ ed essere Dio per intero, oppure accontentarci ed essere dio solo a metà”.

Il cielo è cosa nostra
(Silvia Mattina)

Una gigantesca 'cabina di regia' diretta dall'ex senatore Giulio Andreotti, pochi eletti nel ruolo di burattinai che dal cielo comandano e dirigono le sorti della Terra e della povera gente, assuefatta alla violenza e incapace di guardare oltre. Trascinante ironia e nonsense conducono lo spettatore direttamente nel cuore riflessivo della questione “camminare e non sapere dove andare: questa è la punizione”, attraverso il cinismo mai eccessivo dei tre personaggi principali, Osso, Mastrosso e Carcagnozzo, resi popolari da un libro scritto da Enzo Ciconte e Francesco Forgione e raccontati da Roberto Saviano nella trasmissione ‘Vieni via con me’. Non si tratta di tre personaggi in cerca d’autore di ‘pirandelliana memoria’: i cavalieri erranti partirono dalla Spagna nel XV secolo per sbarcare in Italia, dove fondarono la mafia, la 'ndrangheta e la camorra. Il vestito bianco e le scarpe, o pantofole, nere donano solo l'illusione al pubblico di trovarsi davanti ai grandi paladini dalla purezza di intenti. E anche la richiesta di un giovane figlio di un boss di intercedere per impedire l'ennesimo attentato di matrice ‘jihadista’, non è un atto di incondizionata generosità, ma una presa di posizione a difesa del potere acquisito, dopo aver disseminato per decenni terrore e stragi in tutta la penisola. Una guerra tra ricchi, in cui a farne le spese sono le povere vittime innocenti, ignare dei ‘capricci’ dei potenti. Il salvataggio di Roma dall'attentato terroristico di Bin Laden si dipana attraverso una narrazione ‘scanzonata’, all'insegna di una leggerezza solo apparente e velatamente ingenua, ma funzionale nel rivelare al pubblico il paradosso di una violenza senza fine. Si scava nel profondo dell'animo tra risate, battute e continui rimandi alle diverse modalità di omicidi o a personaggi purtroppo noti nel campo della malavita, presentati quali semplici marionette guidati dai ‘poteri occulti’ della politica, che tutto sa e tutto decide. Il paradosso degli schemi è portato all'esasperazione in alcuni punti, in cui l'allusione a film o personaggi famosi, provenienti dal mondo del cinema, richiamano a una finzione ancor più ‘spiazzante’, come nel caso di un improbabile don Vito Corleone impegnato a recitare in romagnolo davanti a un Federico Fellini che invoca Marcello Mastroianni, o alla tortura dello sceicco del terrore sotto le note di ‘Stuck in the middle’ degli Stealer's wheel (Tarantino docet...). La narrazione, infine, sembra arrestarsi di colpo con il monologo di un Andreotti ‘sorrentiniano’, interpretato da Riccardo Marotta, un attore istrionico che dimostra anche quest'anno (lo scorso anno aveva partecipato al Roma Fringe Festival con ‘La prova del topo’) la sua spiccata vena comica ed empatica con il pubblico. Uno spettacolo scorrevole e solo apparentemente ‘disimpegnato’, che pecca di una drammaturgia in alcuni punti poco efficace, nella forzata ricerca della risata ‘facile’.

Monologo per uomo e katana
(Annalisa Civitelli)

Presentato e prodotto dalla ‘Compagnia della Mola’ al Roma Fringe Festival 2016, questa rappresentazione ci mette di fronte a un buon esempio di comicità a mezza strada tra la ‘stand up comedy’ e l’improvvisazione teatrale. Manuele Laghi, diretto da Dario Del Vecchio, nella prima mezzora di recitazione riesce a essere frizzante e a manifestare energia, perdendosi un poco nella parte finale della sua performance. Il ragazzo è stato finalista di ‘Facce da palco 2016’ e vincitore del premio 'Earthink Festival 2016'. Dunque, la professionalità e la simpatia non sono in discussione. L’apertura, infatti, risulta buona: un ragazzo dietro a una scrivania e un pc aperto, sommerso dai famosi suoni che ogni giorno segnalano l’arrivo di messaggi su ‘whatsapp’, ‘skype’ ed e-mail varie. Alzandosi in piedi, nello spazio circostante, lo vediamo chiudere virtualmente le numerose 'finestre' aperte sullo schermo del suo computer. E qui inizia un elenco di applicazioni e comportamenti interattivi che, in effetti, il mondo giovanile utilizza in maniera piuttosto disordinata e contraddittoria: dal deep web, in cui “le vie della seta si delineano” e che comprende il 90% del mondo di internet, ai ‘dialogatori’ che ci fermano per strada; dal modo di mangiare sempre più rapido, alla ribellione della natura per la ‘tombinatura’ del Seveso; dal desiderio di possedere tutte le applicazioni gratuite a Youtube, in cui musica e pubblicità convivono. Un uso scorretto delle nuove tecnologie che afferma il senso di sfida e di ‘sfogo’ delle molteplici repressioni che ‘coviamo’ dentro di noi. Una denuncia opportuna circa il qualunquismo del cosiddetto ‘Fb cafè’, da cui sfocia un dilagante allarmismo in quanto derivazione di un caos anarchico, in cui hacker, siti di offerte di lavoro, siti di mercati on-line e di compra-vendita di bambini sono all’ordine del giorno. Quello che perdiamo, però, è il nostro tempo, il quale non risulta ottimizzato e viene altresì sprecato in brandelli di vita personale, divulgati sui ‘social’ alla mercé di tutti i contatti. Interessanti i dati statistici, che ci mettono di fronte a una realtà terrificante, informandoci sulla moltitudine di persone che frequentano il web, sul numero di messaggi che si inviano e si ricevono ogni giorno e, soprattutto, sulla quantità di ‘pollici alzati’ che identificano i 50 mila like al secondo. Dove sono le regole? Esistono? Dov’è quel limite di civiltà che possiamo imporci per non disturbare ‘l’altro’ ed essere più corretti? Qualcosa ci ‘sfugge’. Di certo, vivere con un dispositivo in mano ogni minuto non sempre ha senso. Ma la contrapposizione tra umanità e utilizzo ‘felice’ dei mezzi tecnologici o dei ‘social’ viene a ‘galla’ se considerato come un viaggio, il quale, se vissuto bene, comporterebbe una buona comunicazione di massa. L’attore vuole, con il suo spettacolo, comunicarci come il mondo virtuale intacchi le nostre esistenze e come, prepotentemente, ne stiamo abusando, in ogni luogo e in ogni dove. Una sovraesposizione sui social network dalla quale non riusciamo a liberarci, se non sfoderando una spada, in questo caso la ‘katana’, per colpire tutto ciò che che di incivile troviamo nei comportamenti umani. Micromondi raccontati e concatenati in modo lineare, sebbene l’attore, un po’ acerbo, talvolta abbia ‘incespicato’. Ironico e leggero.

Antonio e Sabatino
(Michela Zanarella)

La compagnia ‘Pescibanana’ porta in scena al Roma Fringe Festival 2016 la storia di due amici dalle personalità completamente diverse, in antitesi tra loro. Antonio (Claudio Caporizzo) e Sabatino (Pierfrancesco Scannavino) sono infatti legati da una profonda amicizia e, per vari motivi, convivono sotto lo stesso tetto. Antonio è uno scrittore superficiale, spesso inaffidabile, con un ego adolescenziale che, tuttavia, lo rende un ‘vincente’, anche se incapace di mantenere relazioni a lungo termine. Sabatino è un depresso, sfiduciato, tradito e abbandonato dalla moglie, vive in una condizione di schiavitù costante proprio per quella fragilità che lo domina. La sua insicurezza si percepisce anche da quel voler perfezionare a tutti i costi la lingua inglese con una miriade di corsi di aggiornamento. Rassegnato a essere considerato uno ‘zerbino’, si lascia esistere tra sensi di colpa continui, ansie e paure. E’ in questo contrasto tra i due personaggi che emergono le caratteristiche di entrambi, tanto che i dialoghi prendono una carica comica con un ritmo piacevole, fatto di battute divertenti e giochi identitari che si rivelano come delle improbabili sedute ipnotiche. Claudio Caporizzo è abile nel catturare l’attenzione degli spettatori, entra nel ruolo facendo emergere l’esuberanza del carattere di Antonio, incarnando il ‘dongiovanni’ che ripete a tutte le donne che incontra le stesse cose. Nel suo modo di agire e col suo parlare ‘ruspante’ è racchiusa una gestualità mai banale o scontata, attenta e precisa, ben studiata. Pierfrancesco Scannavino, per parte sua, non è da meno: la fisicità della sua interpretazione è perfettamente in opposizione a quelle dell’amico. La ‘coppia’ sul palco funziona, perché c’è intesa. E la convivenza forzata tra i due si rivela un percorso di esplorazione e conoscenza, dove ogni certezza viene messa in discussione. Se, in alcuni passaggi, tutto sembra sfiorare l’assurdo, poi alla fine ci si rende conto che tutto questo fa parte della dimensione umana e dei suoi limiti e che i ‘dejà-vu’ che si alternano sono un processo necessario per portare alla redenzione le identità dei due ragazzi. Insomma, con un’ironia equilibrata e una recitazione brillante, i due attori riescono a delineare i caratteri dei due personaggi, tracciando un vero e proprio confronto che arriva a diversi spunti di riflessione sulla vita e la sua complessità. Se Antonio si fa 'specchio' delle turbe di Sabatino, assorbendo nell’ascolto il peso delle sue frustrazioni, il secondo risveglia nell’amico la consapevolezza di una sicurezza, in realtà, artefatta. La commedia, scritta e diretta dall’eccellente Sara Caldana, evidenzia risvolti psicologici corretti, che denotano l’indicaizone di fondo dello spettacolo. Da un fitto scambio di pensieri, emozioni, esperienze nasce una sorta di purificazione delle esistenze. Dalla riflessione interiore, prende forma una nuova coscienza, frutto di una rielaborazione che riesce a mantenere in equilibrio i personaggi in scena. Una storia semplice di uomini che, in fondo, potrebbe appartenere a chiunque. Introspettivo.

Antigone fotti la legge
(Vittorio Lussana)

Lo spessore artistico di Giovan Bartolo Botta e del suo gruppo di attori, la compagnia ‘Produzione nostrane-Ultras teatro’, mi costringe a scomodare la ‘penna’ per sottolineare un momento di cultura di prim’ordine, che ha letteralmente incantato queste prime notti trascorse a Villa Ada in occasione del Roma Fringe Festival 2016. Conoscevamo il ‘talento’ di Giovan Bartolo: già nelle sue esibizioni degli scorsi anni, ci avevano colpito le colte citazioni letterarie e teatrali che egli ‘infilava’, un po’ a sorpresa, nei suoi monologhi satirici. Sembravano elementi puramente ‘nozionistici’, inseriti con l’intento di dare un 'tono’ al genere ‘stand up’. Ma quest’anno, Botta ha voluto prodursi in un lavoro assai più impegnativo, una tragedia vera, dimostrando di nutrire un amore profondissimo nei confronti del teatro: una passione autentica, grande almeno quanto quella per il ‘suo’ Torino. E infatti, Botta prende i suoi attori, inocula loro la parte trasformandoli in interpreti ‘strepitosi’, gli mette addosso la maglia ‘granata’, mescolando in tal guisa le sue due passioni più ‘sfegatate’ e, finalmente, li manda in scena. Fermando il tempo. Regalandoci una rappresentazione perfetta. Incantandoci con una tragedia ben interpretata da ogni singolo personaggio. Di questi tempi e con tutto quel che succede nel mondo, chi ha voglia di assistere a una tragedia? Ebbene, Giovan Bartolo Botta questa ‘voglia’ te la fa venire. Botta è un ragazzo simpatico, con il suo ‘look’ da ‘leoncavallino’ e il suo 'buffo copricapo' sempre in testa. Che non è affatto un berretto, ma la corona di un re. E non ci stiamo riferendo a Creonte, ma proprio a lui: a sua Maestà Giovan Bartolo Botta. Antigone fotte la legge, poiché essa non rappresenta affatto la giustizia, ma soltanto una miserabile, spaventata, preghiera di coloro che ci governano, o che tentano di farlo. Noi siamo la giustizia: altro che Matteo Renzi e ‘menate’ varie. Non può esistere norma giuridica che possa impedire a una ragazza di dare degna sepoltura al cadavere del proprio fratello. E questa è politica, signori cari! Secondo il cattolicesimo, la donna è la regina del ‘focolare domestico’; per il comunismo, è la regina della ‘prole’, ovvero colei che genera il proletariato in quanto ‘classe’; per la ‘vera politica’, invece, la donna è una regina: punto e basta! Questo ragazzo piemontese, stavolta ha fatto il ‘salto’, riportandoci Sofocle in compagnia di Bakunin e Andrea Costa, trascinanondoci sino alle radici più autentiche della cultura socialista internazionale. La quale, non ha solamente generato, madre ‘snaturata’, il socialismo rivoluzionario di Benito Mussolini e il materialismo storico di Antonio Gramsci, bensì ha sempre mantenuto, all’interno del proprio perimetro, anche le correnti più libertarie, laiche, antiburocratiche e umanitarie di tutte le epoche e di tutto il mondo. Antigone disobbedisce al Governo e alla monarchia. Il ‘sistema’ cerca allora di bloccarla, di neutralizzarla, ma lei s’impicca all’interno della grotta nella quale è stata fatta prigioniera, pur di mantener fermo il proprio punto di vista. Che altro non è che un principio, alla cui sommità vi è solamente lei stessa in quanto rappresentante dell’umanità. Un’umanità che, sin dagli albori del mondo, ha sempre portato rispetto nei confronti dei propri defunti. La politica, o torna a basarsi su valori, tradizioni e principi autentici, oppure non è. E’ dunque Antigone ad aver fondato la ‘sinistra’ nel mondo: Sofocle si è semplicemente limitato a stenderne l’atto di nascita con cento anni di anticipo rispetto alla fondazione di Roma e più di 4 secoli prima di Cristo. Ed è dunque lei, Antigone, la donna che noi tutti amiamo, che ci giudica e ci redarguisce ancora oggi, la ‘donna-cannone’ di De Gregori che merita pienamente il titolo di ‘eletta’ del popolo, di ‘eletta’ dal popolo, di ‘eletta’ tra il popolo. L’anarchia combatte ogni forma di governo ricordando agli uomini che essi vengono ‘prima’ delle leggi, prima dello Stato. Soprattutto, quando sono in gioco i nostri valori di umanità, di esseri incolpevoli e sperduti nell’universo. Dobbiamo ringraziare Giovan Bartolo Botta per essere tornato a Roma e averci ricordato tutto questo: per averci ‘scagliato addosso’ questa meritatissima ‘badilata’ di ‘merda’. Che è la nostra stessa ‘merda’, sia chiaro per tutti: la nostra arroganza, la nostra amoralità, la nostra ormai più totale mancanza di valori e di virtù. ‘Antigone fotti la legge’ è senz’altro lo spettacolo migliore di questo primo ‘ciclo’ di rappresentazioni del Roma Fringe Festival 2016.

9841/Rukeli
(Giorgio Morino)

Quanti possono sinceramente affermare di conoscere la storia di Johann ‘Rukeli’ Trollmann? Non si tratta di una vicenda molto nota al grande pubblico, neanche tra gli appassionati cultori della ‘nobile arte’ del pugilato. Rukeli è stato un giovane pugile tedesco di etnìa ‘sinti’. Dunque, con linguaggio poco ‘politically correct’, uno ‘zingaro’ che negli anni ’20 del secolo scorso seppe incantare il pubblico con il suo stile di combattimento innovativo, caratterizzato da finte e schivate che si susseguivano come in una ‘danza’, molti anni prima che il mondo pugilistico s’inginocchiasse ai piedi della ‘farfalla’, Mohammad Alì. Ma nel 1933, con l’ascesa al potere del nazionalsocialismo di Adolf Hitler, le cose cominciarono a cambiare. Per Rukeli, per la Germania e per il mondo intero. Non era possibile, nell’ideologia razzista del ‘Mein kampf’, imperniata attorno a una totalmente supposta ‘superiorità ariana’, accettare che uno ‘zingaro’ fosse il più forte campione tedesco di ‘boxe’. Qui inizia un vero e proprio ‘calvario’, che porterà alla tragica fine di questo atleta così anomalo, ma così forte da sfidare il ‘Terzo Reich’. La compagnia ‘Farmacia Zoo:E’ e il regista/attore Gianmarco Busetto, hanno portato sul palco del Fringe Festival capitolino un monologo toccante sulla vita di questo personaggio straordinario, scegliendo la via dell’immedesimazione del pubblico nella vicenda raccontata. “Tu sei Rukeli”: questo afferma sin dall’inizio Gianmarco Busetto al pubblico di Villa Ada, facendosi non solo attore, ma anche 'tramite' di una memoria dimenticata. L’accurata ricostruzione storica e l’appassionata interpretazione lasciano lo spettatore con un ‘nodo alla gola’ difficile da sciogliere, anche dopo la fine dello spettacolo. Un misto d’incredulità e sconforto, passione ed esaltazione che chiamano un lungo e sentito applauso non soltanto a chi questo monologo lo ha scritto, diretto e interpretato, ma anche a Johann Trollman: al suo coraggio e alla sua determinazione. E’ questo il modo che ha il teatro di proporre i propri ‘scoop’. Lodevolmente. Magnificamente.

Il festival del suicidio
(Giuseppe Lorin)

La dissacrazione totale al limite del ‘borderline’, inteso come confine psichico tra la pazzia e la riflessione, è uno dei presupposti di quanto si rappresenta in questi giorni al Roma Fringe Festival 2016 di Villa Ada. Con lo spettacolo ‘Festival del suicidio’, in particolare, si dissacra la vita e la morte di poeti e letterati che hanno profuso parole per smuovere i sentimenti e il consenso di uomini 'gretti', che li hanno portati o costretti al suicidio. Le immagini iniziali di islamici fucilati dai propri fratelli musulmani danno l’avvio a questa lugubre kermesse di illustri suicidi del passato. Sul palco, i due presentatori: con parrucca bionda e riccioluta Alessandro Lori; di colore viola quella di Camilla Corsi. Lo spettacolo ricalca la struttura demente di un 'contest' alla ‘X Factor’, ma qui non c’è una vera e propria gara, bensì ciò che ‘scocca’ nella mente dei suicidi nel loro momento fatale. La competizione sta nell’arrivare prima nell’oltretomba. Sottolineiamo che i due interpreti sono bravi cantanti lirici e interpretano da soli tutti i ruoli. Ma andiamo a ricordare questi ‘giganti’ della letteratura mondiale, che in modi diversi hanno messo fine al loro 'male di vivere': Vladímir Vladímirovic Majakóvskij, colpo di pistola alla tempia; Alfonsina Storni Martignoni, suicida in mare; Vittorio Reta, un salto nel vuoto; Marina Ivanovna Cvetaeva, morta impiccata; Bernd Heinrich Wilhelm von Kleist, colpo di pistola alla testa; Anne Sexton, intossicatasi con il monossido di carbonio nel suo garage a Boston. Per concludere, Cesare Pavese, che con più di dieci bustine di sonnifero affrontò la morte non prima di aver scritto ‘Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950’: “Questo il consuntivo dell'anno non finito, che non finirò”. E il 18 agosto del 1950 chiuse il diario scrivendo: “Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più”. E si addormentò per sempre. La messa in scena è diretta da Matteo Lolli, mentre le video/immagini, comprese quelle ‘escrementizie’, pesantissime, sono state scelte da Salvatore Insana. Anche questo è un modo per prendere in giro l’arte con uno stile 'cialtrone' che pur segnalando, qua e là, alcuni momenti di buonumore e ilarità, supera in maniera molto ‘italiana’ quell’equilibrio a mezza strada tra stravaganza e ironia che il vero stile ‘Fringe’ pretende e difende. Esagerato.

Lo inferno
(Giorgio Morino)

Difficile trovare le parole corrette, per descrive e parlare di ‘Lo Inferno’, della compagnia torinese ‘Livingston Teatro’. Difficile perché si tratta di uno spettacolo complesso, caratterizzato da un linguaggio volutamente elevato, a volte ermetico, come uno 'splendido fiore' che tende a rimanere con i 'petali chiusi' e si lascia ammirare solo dai pochi che hanno la pazienza di aspettare la piena 'fioritura'. La riflessione della coppia di anziani, protagonisti di ampie riflessioni sullo scorrere del tempo e sulla vita in generale, è un susseguirsi di scambi rapidi e illuminazioni pungenti, sempre in bilico tra Shakespeare e Beckett. Dei protagonisti non sappiamo praticamente nulla, ma riusciamo a seguirli nello scorrere ripetitivo e claustrofobico dei loro stessi movimenti, quasi che il tempo non si fosse mosso, o sia addirittura avanzato reiterando le stesse azioni e gli stessi gesti. I protagonisti, Nathalie Bernardi e Claudio Sportelli, entrambi autori del testo e il secondo anche regista, offrono una prova attoriale di ottimo livello, con movimenti sincronizzati e una raffinata declamazione, che lasciano lo spettatore allo stesso tempo affascinato e destabilizzato. Ecco, se si vuole trovare un aggettivo per descrivere ‘Lo Inferno’, quello giusto sarebbe proprio il termine: ‘destabilizzante’. La morte, tema più volte accennato sul palco, è sempre presente e, in buona misura, si manifesta nello svolgersi degli eventi, la cui accettazione diventa argomento centrale di riflessione. Dov’è, quindi, l’inferno? Si potrebbe dire che esso è già qui, nella nostra esperienza terrena; nella spasmodica ripetizione degli stessi gesti e delle stesse abitudini; nel plasmare la propria visione del mondo su quella di un altro, come una bambola tirata dai fili del ‘male’, vero ‘burattinaio’ di questa nostra ‘valle di lacrime’; infine, nella consapevolezza di non riuscire o non voler proprio cambiare le cose. Un testo non semplice, alle volte volutamente 'criptico', ma proprio per questo intellettualmente affascinante.

Viviamoci
(Annalisa Civitelli)

Lo spettacolo di Giorgia Mazzucato ha aperto la prima serata del Roma Fringe Festival 2016. Un viaggio onirico in cui giochi di parole e suoni onomatopeici si confondono con l’universo delle circostanze della vita. Definito dal premio Nobel, Dario Fo, una pièce “dalla recitazione con tempi puliti e chiari, tipici di una professionista, con un testo paradossale e metafisico, una scrittura puntuale ed efficace”, Viviamoci ha già vinto il premio come miglior spettacolo all’interno della rassegna dello storico teatro veneziano ‘L’Avogaria’, diretto dalla famiglia Poli. Classificatosi al secondo posto al concorso nazionale sul teatro comico ‘Gran Premio dello Spirito’, ha ricevuto una segnalazione e un invito al Festival di Alcatraz dalla famiglia Fo, insieme ad altri attori. Quest’anno, l’attrice si è presentata al pubblico in modo semplice, stupendoci con giochi sintattici all’interno di un ottimo testo, ben articolato. Il caso e le cose si confondono nell’istante in cui ci si sofferma a pensare che esistono infinite e assurde combinazioni per dire: “Ci sono”. La nostra presenza nel mondo, dunque, questo è il vero tema di fondo: dal momento della nascita, a quello degli incontri, delle esperienze, dell’amore, degli sguardi e della perdita. Un insieme descritto mediante un sapiente gioco di parole, che intreccia vari campi: la geometria, l’arte (con alcuni nomi di pittori), la musica e  la medicina (per la conoscenza del corpo umano). Tre personaggi prendono vita sul palco: una mamma, Francesca; la figlia, Aurora; un meccanico, Maicol. Le loro vicende si intrecciano facendoci vivere, grazie a un ritmo di voce versatile, i diversi personaggi: gioia, ricordi, paure e dolore sono le emozioni sempre accompagnate e sostenute da un orsacchiotto di peluche, Capitan Vento, silente, ma sempre presente. Le poche gestualità dell’attrice non inducono, con chiarezza, a spronare il pubblico a riflettere sul testo e il suo significato, almeno in profondità. Tuttavia, si comprendono assai bene gli stati d’animo e ciò che la vita riserva attraverso le scelte che si fanno, o quando ci si chiede sempre se il ‘momento giusto’ possa esistere. Dai giochi di parole si passa, con ironia, alla realtà, per sdrammatizzare quello che impariamo dalla vita, mentre il sottofondo musicale di Roberto Vallicelli accompagna la recitazione con suoni giocosi, ‘tecno’ e ‘metallici’, concentrandosi sullo stupore della nascita, al percorso che ci capita di compiere nella vita. Lo spettacolo è onesto e coraggioso nel chiedere scusa per gli errori che si commettono, aiutandoci a ritrovare la nostra reale identità rispetto a quei sogni ‘piccolo borghesi’ che ci illudono come ‘allocchi’ di fronte a un’insegna luminosa. E lo ‘spaccato sociale’ che emerge è quello di un nord d’Italia che rischia di perdere l’anima nella sua ricerca provinciale di un benessere basato sul mero possesso delle ‘cose’.

In folle
(Giorgio Morino)

Antonio è un 35enne insegnante di ‘scuola-guida’ da 7 anni. La sua vita scorre in maniera tutto sommato regolare, tra una lezione di teoria e una di pratica, dovendosi spesso confrontare con studenti quanto mai ‘particolari’ e incontri spesso sorprendenti. La sua vita, così anonima e prevedibile, prende una svolta inattesa quando la sua ragazza, Martina, lo lascia dopo che lui l’ha tradita. ‘In Folle’ è un monologo comico realizzato dalla compagnia teatrale ‘Come risolvere in 2’ con protagonista un eccellente Ermenegildo Mangiante. L'artista cerca di spiegare al giudice di pace per quale motivo un istruttore di scuole guida abbia commesso così tante infrazioni consecutive al volante ed evitare, quindi, il ritiro della patente. Una premessa divertente, che con il procedere del racconto, mette lo spettatore di fronte a situazioni veramente esilaranti e ben orchestrate, le quali, al netto dell’ironia, riescono a condurci verso una riflessione più profonda e seria: il problema dell’immobilismo. La vita, quella di Antonio, ma anche quella di tutti gli esseri umani che lo circondano, è un susseguirsi di scelte, di ‘sliding doors’ che si possono prendere oppure lasciar andare. Tutto ruota attorno alla nostra capacità di prendere il coraggio a due mani e accettare il cambiamento, oppure voltarci da un’altra parte, per paura o per un certo compiacimento della tranquillità quotidiana. Non esiste in realtà una scelta giusta: ogni età ha il proprio modo di vedere le cose. Ognuno ha la propria testa e le proprie aspirazioni, che sia una diciottenne, appassionata di moda, decisa a non seguire le orme del padre e studiare, a Milano, Scienza della comunicazione, o un anziano signore che desidera rinnovare la patente dopo anni solo per andare a trovare la moglie, deceduta, al cimitero. Cosa fare quindi: vivere la vita ‘in folle’ oppure scalare una marcia e partire verso una nuova direzione? Una risposta definitiva non esiste, ma si possono comunque apprezzare le doti ‘istrioniche’ di Ermenegildo Mangiante, che qui interpreta tutti i ruoli sul palco, dimostrando una spiccata ‘vis comica’, capace di far arrivare le ansie e le speranze non solo del protagonista, ma di tutti gli strambi comprimari di questo 'felice' monologo.

L’albero
(Vittorio Lussana)

Intelligente monologo dell’artista pugliese Nicola Conversano, che denuncia lo sradicamento del nostro mondo contadino, carico di valori sani e genuini, rispetto a una società che tende a distruggere la natura. A prescindere dall’episodio dell’albero secolare trapiantato al centro di una piazza urbana, l’artista denuncia, rivalutando il proprio idioma dialettale come richiamo ‘pasoliniano’ alle radici più autentiche di un’Italia che non esiste più, un territorio devastato dalle pale eoliche e dall’espulsione dell’agricoltura da una modernità falsa e contraddittoria, che in nome del denaro tende a omologare l’esistenza umana senza alcun rispetto nei confronti delle culture più antiche. E’ il mondo agricolo dell’Italia meridionale che cerca di difendersi. Non riuscendoci, il ragazzo vorrebbe cercare il proprio futuro nella grande città. Ma è proprio la sua terra, in fondo, a mantenerlo ‘inchiodato’ sul posto, attraverso un amore mai dichiarato apertamente, ma proprio per questo sincero e commovente. Un elogio di quella diversità non così distante dal dramma epocale delle imponenti migrazioni provenienti dall’Africa. Interessante e convincente.

Più o meno io
(Vittorio Lussana)

Complesso lavoro di Francesca Romana Miceli Picardi mosso da una sincera e autonoma ricerca identitaria. Il testo risulta attraversato da nostalgie e contraddizioni che, ancora oggi, influenzano i comportamenti personali di un’artista dalle enormi potenzialità drammatiche. La Miceli Picardi non intende parlarci dei ‘fatti suoi’, ma abbozza un’analisi nel merito degli ‘eccessi’ che ogni personalità ancora in fase di maturazione incontra nell’interpretare fedelmente principi e valori appresi dalla propria educazione familiare e culturale. La ragazza risulta ancora troppo ingenua nel non accettare quelle forme di cinismo che, ormai, dominano la società attuale, segnalando la necessità di agire maggiormente in profondità rispetto a se stessa, al fine di riscoprire la propria sensibilità più autentica. Il conflitto identitario, sintetizzato anche dall’equazione matematica presente nel titolo di questo testo, ha il torto di non scegliere un margine di equilibrio preciso, bensì si limita a constatarne l’ampiezza, senza comprendere l’esigenza di dover restringere il campo per riuscire ad agire con maggiore incisività nella vita di tutti i giorni. Non basta sostituire le vecchie utopie marxiste con un generico laicismo di comodo. Così come serve a ben poco richiamarsi a una religiosità atavica, che rifiuta ogni ipotesi di Gesù 'alieno', denunciando appieno gli evidenti problemi di ‘sbandamento’ culturale che stanno avvenendo nelle due ‘ex-chiese’ filosofiche: quella cattolica e quella della ‘mistica sociale’ post-comunista. Nostalgie irriducibili nei confronti del passato, indubbie capacità recitative ed espressive nel presente, grande confusione nei riguardi del futuro: il nostro giudizio nei confronti di quest’artista non intende indulgere ulteriormente. La Miceli Picardi che ‘intravediamo’ noi è ben altra persona: una grandissima attrice drammatica che deve decidersi ad abbandonare quelle suggestioni che, ancora oggi, ella viva in compagnia di se stessa. Irrazionale.

Guardate il pazzo
(Carla De Leo)

Il Roma Fringe Festival 2016 apre la sua ‘rassegna-contest’ con questo ‘Guardate il pazzo’, della compagnia ‘I cani sciolti’. Un tentativo di attualizzare la figura di Gesù domandandosi come verrebbe trattato, oggi, il Re dei Giudei. L’autore non ha del tutto torto nel pensare che Egli verrebbe considerato, fondamentalmente, un pazzo da rinchiudere in un manicomio. Tuttavia, non sempre da una ‘buona idea’ sorge un’analisi convincente. L’approccio scenico ‘sfocia’ in una religiosità esasperata. I corpi degli attori sono utilizzati intelligentemente per comunicare messaggi significativi, ma alcune esagerazioni ‘convulsive’ tendono a rappresentare alcune forme di possessione diabolica più vicine al genere horror de ‘L’esorcista’ di William Friedkin, piuttosto che al campo delle ‘adduzioni’ e dei condizionamenti psicologici. Sono presenti alcuni tentativi di 'revisionismo', incompleti e un po’ astratti, come per esempio il richiamo a Maria Maddalena, moglie di Gesù e alla figlia Sara che la ‘Regina dei popoli’ avrebbe avuto da lui. Ma poi si prosegue a richiamare in causa quella vocazione ‘mistico-messianica’ che, invece, non ha riguardato affatto la vita del figliolo del falegname di Nazareth. In sostanza, il Cristo ‘greco-ellenista’ continua a dominare la scena rispetto alle vicende del vero Gesù ebraico, che cercò di porre la propria questione ‘dinastica’, dunque pienamente politica, di fronte ai romani e al loro impero basato sulla crudeltà delle armi e sulla violenza della guerra. La chiave di lettura, dunque, si appiattisce sul moralismo: l’umanità viene considerata secondo un pregiudizio che neanche sfiora il tema di una religiosità che insiste nel voler colpevolizzare tutti, uomini o donne che siano. Forse incosapevolmente, ‘Guardate il pazzo’ sembra essere un tentativo di aggirare la ‘favola teologico-religiosa’ inventata da San Paolo utilizzando la religione stessa, che invece andrebbe definitivamente espulsa dalla vicenda. La quale, anche in questo caso, ‘salta’ la Storia a ‘piè pari’. Alcune buone idee sono senz’altro presenti, ma appaiono sviluppate secondo una visione eccessivamente soggettiva. Artistico.


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