Vittorio LussanaAl fine di augurare un simpatico ‘in bocca al lupo’ alla nostra rappresentativa nazionale guidata da Cesare Prandelli, la quale tra pochi giorni sarà impegnata nella Coppa Europa per Nazioni in Polonia e Ucraina, ho deciso di fornire una ‘spiritosa’ interpretazione del gioco del calcio in quanto ‘compendio’ delle varie tattiche che generalmente vengono adottate in questo sport. Perciò, comincio subito col precisare che il giuoco del calcio è, sostanzialmente, un sistema di ‘segni’. E che, proprio per tale motivo, esso è così amato in tante parti del mondo. Il calcio, infatti, non è solamente una pratica sportiva, bensì una sorta di linguaggio semiologico che, talvolta, si risolve in un’utopia irrealizzabile; spesso, si compone di tante belle idee originali benché il fato, la sfortuna o una serie di eventi discordanti gli siano avversi; altre volte ancora, si sviluppa come un qualcosa di ‘grigio’, realizzato con buon ordine e diligenza e che, tuttavia, non riesce a ottenere molto di più di qualche simbolica vittoria ‘di misura’; infine, in qualche caso fortunato, finalmente questo linguaggio si risolve con un’affermazione piena ed entusiasmante. Ecco perché una nazionale fortissima, quadrata in ogni suo reparto e in splendida forma fisica com’era quella guidata da Enzo Bearzot in Argentina nel 1978 non poté andare al di là del quarto posto, pur riuscendo a togliersi lo ‘sfizio’ di sconfiggere proprio la rappresentativa che, alla fine, vinse quei campionati mondiali. Oppure ancora per quale motivo una squadra apparentemente ‘slegata’, con un centravanti fisicamente fuori forma poiché fermato da due anni di squalifica e la propria ‘torre d’attacco’ gravemente infortunata e ‘rimpiazzata’ da un ‘crapulone casinista’ come Ciccio Graziani, sia riuscita 4 anni dopo, in Spagna, a riportare il più inatteso dei successi internazionali. Tutto ciò avviene perché il calcio, per l’appunto, è fatto così: è un mero sistema di ‘segni’. Immaginiamo di essere in territorio straniero, molto lontani da casa e di dover soddisfare alcune esigenze primarie: mangiare, trovare un albergo non troppo costoso in cui dormire, riuscire a ‘rimorchiare’ una ragazza del luogo per andare a ballare e divertirsi un po’. Se non si può comunicare con le parole, poiché proprio non si riesce a razionalizzare in pochi giorni l’idioma linguistico che si parla in quella parte del mondo, siamo costretti a ‘dimenarci’ come dei ‘mimi’, a gesticolare come ‘pagliacci’ da circo, a inventarci delle ‘smorfie’, insomma a tentare di farci comprendere nei modi più fantasiosi o inimmaginabili. Ecco perché il calcio è un sistema di ‘segni’: in ogni obiettivo, piccolo o grande, individuale o collettivo che sia, bisogna trovare il modo per ottenere quel che si vuole. Per esempio, impedire a un attaccante avversario di superarci nella corsa o nel dribbling; impostare una manovra d’attacco non prevista dalla squadra contendente; inventarci poeticamente una maniera innovativa per trovare la via della ‘rete’. Dunque, i ‘segni’ attraverso i quali possiamo raggiungere una vittoria sono molteplici, di svariato genere e tipo. La scuola calcistica italiana, per interi decenni è rimasta tatticamente ‘abbarbicata’ al cosiddetto ‘catenaccio’. Ovvero, il nostro dogma insuperabile era quello di ‘non prenderle’. Ripensando all’incontro Argentina - Italia dei mondiali del 1978, svoltosi allo stadio River Plate di Buenos Aires nel corso di una ‘nottata’ in cui ero affetto da una tonsillite ‘pazzesca’, con un ‘febbrone’ che superava, in pieno mese di giugno, i 40° centigradi, tutto questo mi apparve evidente: noi italiani proveniamo da una logica di ‘trincea carsica’, da una filosofia buona per una ‘guerra di posizione’ come fu, per noi, il primo conflitto mondiale. La nazionale argentina di quell'epoca era fortissima. Tant’è che, alla fine di quella edizione dei campionati del mondo ne risultò la vincitrice assoluta. Tuttavia, a un certo punto della manifestazione essa si era ritrovata di fronte un vecchio ‘alpino’ friulano con la pipa sempre in bocca: Enzo Bearzot. L’idea di calcio - anzi, il sistema di ‘segni’ - che questo signore aveva ‘in testa’ era totalmente ‘prosaica’: tre difensori centrali (Romeo Benetti e Mauro Bellugi protetti, poco più indietro, da un libero elegante, ma totalmente privo di ‘scrupoli’, come Gaetano Scirea), un terzino destro che era un vero e proprio ‘mastino’ massacratore di caviglie (Claudio Gentile) e una ‘mezzala jolly’ che ripiegava sempre a protezione di tutta la linea difensiva (Marco Tardelli). In attacco potevano spingersi solamente Franco Causio con meri compiti di ‘guastatore’ della fascia destra, il ‘regista’ della Fiorentina, Giancarlo Antognoni, con incarichi puramente ‘geometrici’ di disimpegno, il centravanti Roberto Bettega come punto di riferimento ‘aereo’ e quel ‘picchietto’ di nome Paolo Rossi sempre pronto a ‘rapinare’ ogni pallone che ‘ballonzolava’ sul terreno di giuoco. Dunque, in quella squadra i compiti difensivi erano di competenza di ben 8 uomini su 11. Quell’incontro cominciò con la consueta pressione degli argentini, pienamente convinti di poter archiviare la ‘pratica-Italia’ con un paio di ‘pappine’ ben date. Niente da fare: a centrocampo si creò un autentico caos, anzi il ‘bordello totale’, una vera e propria barriera di uomini che ‘schermava’ la porta difesa da Dino Zoff come nemmeno gli scudi termici dell’astronave ‘Enterprise’ nei telefilm di ‘Star Trek’ riuscivano a fare. Non passava neanche uno ‘spillo’ e i passaggi laterali degli argentini, alla ricerca di un varco anche minimo tra le maglie dei nostri ‘azzurri’, si succedevano obbligatoriamente. Infatti, proprio in mezzo alla nostra difesa Bearzot aveva ‘piazzato’ un ‘ragazzone’ della Juventus che si chiamava Romeo Benetti: un autentico ‘armadio a 4 ante’, con due ‘baffoni’ da protagonista di ‘filmetti porno’ che mettevano letteralmente paura. Mario Kempes, la ‘prima punta’ argentina, con i suoi lunghi e ‘ammalianti’ capelli corvini se ne teneva bene ‘alla larga’, al fine di evitare ogni sorta di ‘delusione sentimentale’, cercando altresì di ‘raggirare’, grazie alla propria agilità fisica, lo stopper del Bologna, Mauro Bellugi. Nel giro di soli 12 minuti, Bearzot comprese ogni cosa e, con cinismo impietoso, decise una mossa tattica assolutamente geniale: tolse Bellugi dal centro della linea difensiva italiana e inserì Antonello Cuccureddu, un terzino destro discendente diretto di quella mitica progenie di pastori sardi abituati a non fare differenza alcuna tra terzini fluidificanti, ‘verginelle’ di campagna, o tenere ‘pecorelle’ che brucavano l’erbetta. Infine, Bearzot spostò Claudio Gentile, in ‘camicia nera’ e col ‘manganello’ in mano, in marcatura ‘stretta’ proprio su Kempes, col preciso compito di ‘dargliele’ di ‘santa ragione’. L’incontrò terminò in quel preciso istante: l’Italia era totalmente padrona del campo e, nonostante l’Argentina schierasse un ottimo difensore come Daniel Passarella a protezione della propria retroguardia, alla fine dovette capitolare su una banalissima ‘triangolazione’ tra Giancarlo Antognoni, Paolo Rossi e Roberto Bettega. La nazionale del 1982, quella che poi vinse i mondiali spagnoli, tatticamente non era molto diversa da quella che ho appena descritta, figlia com’era anch’essa di questa concezione assolutamente ‘scarna’, ‘essenzialista’, di Enzo Bearzot: tutti indietro a ‘picchiare’ chiunque passasse, anche solo per caso, dalle parti della nostra difesa; Bruno Conti, un ‘giocoliere’ mancino cresciuto sulle spiagge di Nettuno, con terroristici compiti di diffusione del ‘panico’ tra le difese avversarie; il solito Paolo Rossi con l’incarico di mettere a frutto il proprio ‘parassitario’, in termini morali, ma efficacissimo in ‘chiave’ sportiva, opportunismo. Queste furono le due migliori interpretazioni di sempre della nostra ‘scuola’ calcistica. Di lì in poi, il nostro sistema di ‘segni’ cambiò letteralmente, sia a livello ‘tattico’, sia sotto il profilo del linguaggio ‘poetico’ complessivo. In linea di principio, l’antica distinzione ‘liberaleggiante’ di Pier Paolo Pasolini tra calcio ‘geometrico’ all’italiana e calcio ‘creativo’ sudamericano (in particolar modo brasiliano) si è mantenuta. Ma i diversi ‘moduli’ interpretativi sono, oggi, assai mutati: la ‘zona’, pura o mista a seconda delle idee degli allenatori, si è imposta sia in difesa, sia a centrocampo, scalzando il vecchio metodo delle marcature ‘a uomo’, mentre le propensioni offensive sono aumentate in maniera direttamente proporzionale all’utilizzo tattico del ‘fuorigioco’ - o dell’offside - e dell’applicazione della ‘diagonale’ difensiva. La zona ‘pura’, nel suo schematismo più ortodosso (il 4 - 4 - 2) prevederebbe addirittura la costruzione di un vero e proprio ‘rombo’ di centrocampisti in mezzo al campo. Questo nuovo metodo era apparso per la prima volta sui campi di calcio all’inizio degli anni ’70 del secolo scorso, quando ai mondiali di Germania del 1974 il mondo intero rimase attonito di fronte alle prestazioni dell’Olanda, la quale riuscì a fornire una dimostrazione a dir poco entusiasmante del cosiddetto modulo a ‘zona pura’, in cui i diversi compiti e il necessario collegamento tra i distinti reparti della squadra risultavano ripartiti con estrema razionalità, secondo un ordine efficacissimo, generando un equilibrio collettivo praticamente perfetto. Il modulo olandese entusiasmò critici e sostenitori soprattutto sotto il profilo ‘estetico’, anche se non sembrava facilmente esportabile nelle multiformi mentalità nazionali degli altri Paesi. Qualche primo tentativo fu fatto anche in Italia, ma senza particolari risultati. Eppure, anno dopo anno, stagione dopo stagione, questa metodologia iniziò a imporsi, mandando ‘in soffitta’ la vecchia marcatura ‘a uomo’ che entrò a far parte della storia del calcio. La prima compagine italiana che applicò con successo il sistema del ‘gioco a zona’ fu la Roma di Nils Liedholm. Con quel sistema, la squadra capitolina vinse lo scudetto del 1983, divertendo il pubblico e conquistando consensi. Si trattava di una zona ‘lenta’, tesa soprattutto a ‘imbrigliare’ le idee degli avversari, addormentandone l’impeto agonistico attraverso una vera e propria ‘imbottitura’ di centrocampisti a metà campo. Fino ad allora, la maggioranza delle formazioni calcistiche italiane non si era mai spinta più in là della zona ‘mista’. Approfondiamo pertanto, sotto  il profilo tecnico-tattico, queste diverse tipologie di ‘segni’ del calcio. Nel vecchio gioco ‘a uomo’, come già spiegato attraverso la descrizione della ‘visione’ di Enzo Bearzot, l’allenatore impartiva ordini ben precisi ai calciatori e, dopo avere valutato a fondo le caratteristiche di ogni avversario, lo affidava alle ‘cure’ di un suo giocatore con la ‘consegna’ assoluta di stargli ‘appiccicato’ addosso. Nella zona mista, invece, la squadra si dispone in campo con il libero fisso e i due marcatori centrali con i consueti compiti di seguire le ‘punte’ avversarie, mentre a centrocampo il terzino sinistro viene trasformato in una sorta di attaccante ‘di fascia’, arretrando la vecchia ‘ala destra’ nel semplice ruolo di centrocampista ‘tornante’. Sia il terzino, sia l’ala ‘tornante’ non vengono affatto impiegati in marcature ‘fisse’, bensì hanno il compito di impedire gli inserimenti sulle fasce e i cross da ‘fondo-campo’ degli avversari. Sempre a centrocampo, il mediano di spinta e il centrocampista ‘incontrista’ hanno il compito di fare ‘filtro’ coadiuvati dal ‘regista’, ovvero colui che dà l’avvio alle azioni di ‘rilancio’ - dette anche ‘ripartenze’ - e di ‘rifinire’ le ‘punte’ fornendo loro assist e suggerimenti. In situazioni difensive, il terzino sinistro, l’ala ‘tornante’ e i due mediani di ‘protezione’ debbono marcare ‘a uomo’ gli avversari loro affidati dall’allenatore, mentre le due punte sono obbligate a rientrare a centrocampo per compiere azioni di ‘disturbo’ nei confronti dei difensori dell'altra squadra, allorquando questi entrano in possesso di palla. Nei ‘corner’ (i calci d’angolo), o nei calci ‘piazzati’ (le punizioni), i due attaccanti si posizionano anch’essi a protezione della difesa, al fine di sfruttare i propri ‘colpi di testa’ per ‘sgombrare’ l’area da ogni pericolo. Tutta la squadra deve giocare ‘corta’, per chiudere ogni spazio alle incursioni avversarie in un’interpretazione sostanzialmente difensiva del gioco a ‘zona’, generando così una sorta di ‘terza via’ tra la vecchia marcatura ‘a uomo’, o di ‘rimessa’ - oppure ancora, in ‘contropiede’ - e il razionale presidio ‘a zona’ degli spazi di centrocampo. La decisione dell’adozione di una zona ‘pura’ o ‘mista’, in linea generale viene presa dagli allenatori in virtù delle più svariate considerazioni: importante è il peso fisico o tecnico complessivo degli uomini con cui si lavora. Ovvero, se una ‘rosa’ è composta da giocatori più dotati sul piano agonistico, è preferibile disporre la squadra con la marcatura ‘a uomo’, o a zona ‘mista’; se, invece, si dispone di un materiale umano assai dotato sotto il profilo ‘tecnico-creativo’, tentare la ‘strada’ della ‘zona pura’ può risultare alquanto vantaggioso. In tale sistema di gioco, infatti, a parte i due attaccanti, a ogni giocatore viene affidata una ‘zona’ del campo, della quale è responsabile ogni qual volta un avversario vi entra. Questi, infatti, viene preso in consegna e marcato ‘a uomo’ fino a quando non esce dalla ‘zona’ di competenza di un difensore. Tale meccanismo si chiama: cambio della marcatura ‘a scalare’. In sostanza, per i difensori diviene fondamentale che, quando l’azione di gioco si svolge sul fianco sinistro, il terzino di questa zona sia coadiuvato da uno dei due difensori centrali, il quale è tenuto a spostarsi verso questo lato del campo. Il terzino destro, a sua volta, converge al centro nella zona dell’altro difensore centrale, lasciando in ‘consegna libera’ la propria fascia di competenza. Se un avversario si smarca nella zona lasciata libera, il terzino destro e il marcatore centrale debbono, a loro volta, arrivare per primi a chiudere il varco (questa manovra viene generalmente definita, nello specifico, ‘raddoppio di marcatura’) mentre, contemporaneamente, l’altro difensore centrale e il terzino sinistro debbono spostarsi al centro, lasciando libero il settore precedentemente occupato. L’insieme di tutte queste operazioni di difesa a zona ‘pura’ viene definito: ‘diagonale difensiva’. In essa, è il movimento in diagonale dei 4 difensori a risultare importantissimo, poiché questi non debbono mai farsi trovare staticamente ‘in linea’, bensì muoversi con estrema coordinazione sulla destra o, viceversa, sulla sinistra. In questo modo, a fasi alterne, un terzino e un marcatore centrale affrontano l’attaccante o gli attaccanti della compagine contendente, mentre l’altro difensore centrale fa il ‘libero’ e il terzino più lontano si accentra per chiudere definitivamente la ‘ragnatela’. Allo stesso modo, se si vuol far cadere le punte della squadra avversaria in off-side, i 4 difensori debbono ‘salire’ in avanti tutti insieme, contemporaneamente, secondo un automatismo che dev’essere predisposto dall’allenatore con precisione estrema. Nella tattica del fuorigioco, molto esperta si rivelò, nell’estate del 1980, la nazionale del Belgio durante i campionati europei svoltisi, in quell’anno, proprio qui da noi, in Italia. In ogni caso, tutto ciò ci conduce a una conclusione ben precisa: il calcio, a suo modo, è un ‘codice’, ovvero una ‘lingua’, con tutte le caratteristiche fondamentali che appartengono al linguaggio per eccellenza, ossia quello ‘scritto’ e ‘parlato’. Le ‘parole’ del linguaggio del calcio si formano esattamente come le parole di quello ‘scritto’ e ‘parlato’, ossia attraverso la cosiddetta ‘doppia articolazione’, cioè infinite combinazioni di ‘fonemi’ che sono, nella lingua italiana, le 21 lettere del nostro alfabeto. I ‘fonemi’ sono, dunque, le ‘unità marginali di produzione’ della lingua italiana, così come un uomo che usa i piedi per calciare un pallone è l’unità marginale di produzione del giuoco del calcio. Le infinite possibilità di combinazione dei 22 giocatori schierati sopra a un terreno di giuoco formano le ‘parole calcistiche’. E l’insieme delle ‘parole calcistiche’ forma un discorso, regolato da vere e proprie norme sintattiche. Queste ‘parole calcistiche’ sono potenzialmente infinite, poiché infinite sono le possibilità di combinazione ‘agonistica’ dei calciatori con i propri potenziali ‘gesti atletici’ individuali o, soprattutto, collettivi. La sintassi complessiva di questa lingua si esprime nella ‘partita’, la quale si sviluppa come una vera e propria rappresentazione spettacolare e, al contempo, drammatica del ‘codice’ calcistico. I ‘cifratori’ di questo linguaggio sono i giocatori, mentre i telespettatori o i tifosi sugli spalti sono, invece, i ‘decifratori’. Pertanto, chi non conosce il ‘codice’ del calcio non può capire il significato delle sue parole, ovvero dei suoi ‘passaggi’, delle sue manovre strategiche, delle varianti tattiche, delle fantasiose acrobazie atletiche, della sua stessa poesia. Né, tantomeno, può comprendere veramente il senso di fondo del suo discorso.




Direttore responsabile di www.laici.it e di www.periodicoitalianomagazine.it
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Massimo - Siena - Mail - mercoledi 6 giugno 2012 16.41
Sinceramente il calcio, come la politica, mi ha un po' schifato.
Patrizia - Roma - Mail - martedi 5 giugno 2012 13.25
Seguo poco il calcio... ma grazie lo stesso.
Cristina - Milano - Mail - martedi 5 giugno 2012 13.23
Bellissimo "pezzo"... anche divertente, ma, da ex grande tifosa, questi europei non voglio vederli. Sono costati la vita di migliaia di animali innocenti e indifesi: è stato sconcertante......


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