Marta De LucaIl 25 aprile rimane una delle nostre ricorrenze laiche più significative, una data basilare della nostra Storia e della democrazia italiana. Chi ne pone in discussione il valore esprime uno spirito di parte che non vuol tenere conto di un’evoluzione la quale, proprio grazie alla liberazione partigiana, ha potuto affrontare un nuovo ciclo di sviluppo senza lasciare il Paese isolato dal contesto politico europeo e internazionale. Se, infatti, Mussolini non si fosse lasciato coinvolgere da Hitler nella seconda guerra mondiale, probabilmente il progressivo avvicinamento italiano alla democrazia sarebbe stato molto più simile a quello della Spagna ‘franchista’, immergendoci in un lungo ‘inverno’ politico-istituzionale che ne avrebbe fortemente rallentato sia la crescita, sia la modernizzazione. Il 25 aprile può dunque essere trasformata, oggi, in una festa di tutti e per tutti, anche per coloro non condivisero determinati avvenimenti, poiché comunque ciò ci permetterebbe di riconoscere un punto di svolta decisivo della nostra Storia, portandoci al di là delle esaltazioni e degli estremismi ideologici. Dopo il 25 aprile 1945, nulla fu più come prima: l’inverno precedente aveva avuto fine con l’attacco degli alleati anglo-americani sull’Appennino tosco-emiliano del 9 aprile. Il giorno successivo, gli americani entrarono a Lugo di Romagna e a Fusignano. Il 15, un battaglione polacco liberò Imola. Il 17 venne presa Argenta, il paese di Don Minzoni, il sacerdote assassinato dai fascisti nel 1924. Il 21, gli americani entrarono a Bologna affiancati da un battaglione di Bersaglieri. Ma più a nord non si attese l’arrivo degli alleati: già il 18 aprile, gli operai comunisti, socialisti e cattolici decisero, a Torino, lo sciopero generale, una protesta che si propagò in tutto il Piemonte. Nella ‘Padania’ piemontese e lombarda, le forze tedesche erano cospicue e insorgere significava correre il rischio di una repressione cruenta. Tuttavia, la decisione fu presa ugualmente dai Partiti del Comitato di Liberazione Alta Italia, non solo come prova di forza, ma in quanto premessa di un rinnovamento democratico per tutto il Paese. In sostanza, non si volle un ordinato ‘trapasso di poteri’, soluzione che veniva teorizzata dagli ‘attesisti’. Certamente, nel corso dei combattimenti capitò che alcuni comandanti partigiani contrattassero con il nemico, al fine di impedire ulteriori distruzioni, eventualità che non rappresentava una minaccia vana, bensì il pericolo di una vendetta effettivamente teorizzata e predisposta dai più alti comandi delle forze naziste. Ma quel che avvenne nel porto di Genova tra il 23 e il 26 aprile appare comunque un dato storico indicativo: sotto un fuoco infernale, i partigiani e il personale del porto, combattendo, riuscirono a disinnescare più di duecento mine. La questione in gioco era infatti quella di portare a termine con dignità la lunga lotta contro il fascismo, affermando innanzi al mondo che il popolo italiano lo aveva ripudiato attraverso quei 20 mesi di lotta partigiana. Perché fu tutto il popolo a volere la capitolazione dei tedeschi, ben prima che arrivassero gli alleati. E fu grazie alla fermezza dei comandanti partigiani di Genova, Torino e Cuneo che venne imposta la resa incondizionata ai generali nazisti, i quali chiedevano il libero passaggio di fuga verso Milano. Gli episodi di quella guerra furono molti e diversi. E ce ne sono senz’altro di drammatici o, addirittura, di tragici. Ma quando si tratta questo argomento, si deve tener conto del fatto che la ‘belva’ nazista, pur morente, continuava a mietere vittime lungo le vie della propria ritirata. Le immagini delle fotografie di quei giorni ritraggono intere colonne di militari tedeschi disarmate dai partigiani, mentre gli alleati erano ancora lontani. Inoltre, i tedeschi, così come avevano fatto in Russia, fuggendo avevano abbandonato i fascisti al proprio destino. La notizia che i nazisti stessero già trattando la resa con gli americani, Mussolini l’aveva appresa con vivo disappunto a Milano da Don Bicchierai. Cominciò in quel momento la sua fuga verso il confine svizzero. E la gran parte delle formazioni fasciste si sciolse come ‘neve al sole’, cedendo le armi. Qualche gruppo si mescolò ai tedeschi in fuga lungo le strade che portano al confine austriaco. Nell’alta Val Camonica, alcuni reparti della divisione ‘Tagliamento’ delle camicie nere, tristemente note per le loro efferatezze, combatterono a fianco dei nazisti sino al 1° maggio. E furono addirittura i tedeschi a disarmarle prima della resa. In Friuli, osovani e garibaldini combatterono ancora sino al 7 maggio, cioè 5 giorni dopo la resa incondizionata ordinata dal generale Kesserling. Le amministrazioni libere installate dal Cln in tutta l’Italia settentrionale dovettero, secondo i patti, cedere le armi agli americani, i quali non accettarono di buon grado di ritrovarsi di fronte a fatti già compiuti, com’era già capitato a Firenze. Secondo Nuto Revelli: “La pagina della smobilitazione è quella che ricordo con maggior malinconia, la stessa angoscia con cui ripenso alla ritirata dalla Russia: dovemmo gettare le armi come un esercito di vinti…”. Checché se ne dica, la Resistenza fu una grande stagione di umanità: furono gli americani a volerla riportare entro gli schemi delle relazioni diplomatiche d’ufficio. Ma il contributo partigiano alla vittoria fu notevole e sorpassò di gran lunga le più ottimistiche previsioni. Soprattutto in Alta Italia, i partigiani furono determinanti per spezzare la potenza e il morale di un nemico molto superiore per numero, armi ed equipaggiamento. Senza quei venti mesi di ‘guerriglia’ non vi sarebbe stata una vittoria anglo-americana così rapida, così schiacciante, così poco dispendiosa. L’anima e le motivazioni della Resistenza, in realtà, sono altrove. Esse vanno ricercate nelle parole dei fratelli Cervi, che rigettarono la loro stessa vita pur di non passare tra le file della Repubblica sociale, esclamando coraggiosamente: “Crederemmo di sporcarci”! La Resistenza non è stata una guerra per liberare case, villaggi, città o l’intera nazione, ma una lotta per liberare noi stessi, per affrancare un’intera generazione di italiani cui era stata distrutta la giovinezza e la Patria, che li aveva gettati tra un cumulo di rovine, che li aveva costretti alla pazzia e alla morte in Russia, innanzi a mille chilometri di neve e a 40 gradi sottozero. Ma proprio tra questi pensieri, proprio davanti a tutto quel dolore e a quella disperazione nacque la luce di una speranza: ricomporre un intero Paese liberandolo dalla frode, dalla violenza, dall’ignavia, dal servilismo cerimonioso. La Resistenza fu un moto di operai e contadini che decisero di ricostituire un popolo. Perciò, quell’insurrezione fu, in realtà, una guerra di ‘espiazione’, il cui prezzo pagato fu anche piuttosto elevato: 44 mila partigiani morti, 22 mila mutilati, 10 mila civili massacrati nelle rappresaglie, 45 mila caduti tra le forze regolari impegnate al fianco degli alleati. Senza contare tutti i morti identificati e quelli ritrovati nelle fosse comuni dei ‘lager’ nazisti. La Resistenza non fu solo una guerra di liberazione per un ritorno alle istituzioni democratiche, ma la sanguinosa gestazione di un’Italia nuova e diversa. E quei partigiani che scesero dalle montagne per dar vita a questo sogno, a questa speranza, furono uomini giusti, che appartenevano a una generazione nata ‘nel’ fascismo e che sentiva di portarne la responsabilità storica, civile, morale. Sarà anche vero, pur non essendolo del tutto, che la Storia di simili vicende sia stata scritta soprattutto dai comunisti. Ma ciò non giustifica forme di revisionismo a proprio uso e consumo, utili solamente a dissacrare il valore morale di una festa che, in ogni caso, ha rappresentato un nuovo inizio. Un valore che può risultare prezioso, soprattutto oggi. Per tutti gli italiani.


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