![Susanna Schimperna]()
Jean Giraud-Moebius è morto sabato 10 marzo e già quasi tutto è stato detto su di lui. La vita con i nonni nella periferia parigina; il viaggio iniziatico in Messico, Paese in cui era andata a vivere sua madre alla scoperta dello sciamanesimo e delle proprietà delle droghe; i rapporti con Jodorowsky; il merito di aver contribuito alla progettazione di film come ‘Tron’, ‘Dune’, e soprattutto ‘Blade Runner’ e ‘Il quinto elemento’; la cultura, l’intelligenza, la sapienza; l’aver creato (con Druillet) la rivista ‘Métal Hurlant’ che rivoluzionò il fumetto imponendolo finalmente come genere adulto e nobile; l’essere il più grande, l’indiscusso, il Maestro. Un’attenzione e un rimpianto unanimi anche da chi, fumettista o disegnatore, non l’ha mai considerato il proprio modello. Laura Scarpa, autrice e presidente dell’associazione ‘ComicOut’ che pubblica anche ‘Scuola di Fumetto’, è un caso esemplare di ‘non-moebiusiana’ influenzata suo malgrado: “Perché era inevitabile che lui ti influenzasse, con la sua estetica molto forte che si sostituiva alla storia. Questo da una parte allontanava il pubblico tradizionale, dall’altra lo riavvicinava… col suo segno, unico”. Laura racconta come da ragazzina, sul ‘Corriere dei Piccoli’, leggesse le strisce di Blueberry, il tenente sudista amico degli indiani. E quanto le ci sia voluto per ricollegare Gir, con segno sporco e ruspante, a Moebius (pseudonimo che Giraud adottò negli anni ‘60), che aveva invece un tratto pulito e raffinato. Il punto di contatto più interessante tra i vari personaggi, le storie, i modi e gli stili di Moebius è la multidimensionalità. L’interesse per altri mondi, interiori e spaziali, nasce anche da questo aspetto della sua personalità: non volere e non potere ridurre e semplificare e, invece, dare forma alle contraddizioni con una naturalezza che indica l’assenza di qualunque intenzione programmatica. “Quando sono Moebius sfuggo a me stesso, sono in leggera trance”, era la spiegazione. Ma anche Gir, nome utilizzato soprattutto per fumetti western, disegna personaggi complessi. Blueberry, per esempio, è dichiaratamente un po’ Belmondo, Bronson, Eastwood, Keith Richards, con un tocco di atmosfere alla Sergio Leone e, persino, echi di John Ford, il quale, come sottolineava Moebius, “per tutta la vita è stato combattuto tra il machismo bianco della conquista del West e la coscienza delle minoranze oppresse”. Ma è il Moebius psichedelico il più conosciuto dai giovani. Il nome è quello del matematico tedesco a cui dobbiamo il modello (e paradosso) ‘l’anello di Möbius’, strisciolina di carta unita alle estremità dopo che sono state ruotate di 180 gradi, che si presenta con una superficie interna e una esterna, quando invece di superfici ne ha soltanto una. Rovesciamento della convinzione che, sotto un’apparenza ‘piatta’, ci siano realtà diverse? Certo, ma la lezione resta la stessa: ciò che vediamo e percepiamo attraverso i sensi e che elaboriamo con la ragione ci fuorvìa, ci inganna. Nell’autobiografia, tradotta in Italia nel 1999 e pubblicata da DeriveApprodi ‘Il mio doppio io – l’autobiografia del genio dell’immaginario fantastico’, Giraud-Moebius parla di “immergersi in ciò che i surrealisti chiamavano ‘sogno vigile’ o ‘esplosione fissa’: un onirismo lucido che è una sorta di leggera trance. Uno stato oracolare, profetico”. C’è un buco nero interiore da cui sgorga la materia dell’arte. E lì bisogna andare “a briglia sciolta”, come lui amava dire, perché lì c’è un’infinita virtualità di creazioni. Che poi queste creazioni escano fuori rozze o piene d’errori va benissimo, perché goffaggine, grottesco e aberrazione sono segni di autenticità. E dalla goffaggine si può partire per trovare nuovi linguaggi, nuovi punti di vista. Si ritorna a quello che Laura Scarpa ricordava come “segno sporco e ruspante” di Giraud-Gir. Non rinnegato, ma rivendicato. La persona che più di ogni altra in Italia ha promosso il fumetto come ‘arte’, cioè Francesco Coniglio (editore anche del mensile ‘Blue’, che pubblicò una copertina e vari disegni di Moebius quando io ne ero direttore), semplicemente dice: “Era l’unico che aveva capito tutto. Nei fumetti è stato il più grande: fino a quel momento c’erano i disegnatori, gli sceneggiatori, poi è arrivato lui e niente è stato più come prima. Ha preso lo spirito del fumetto avventuroso degli anni Trenta e Quaranta e l’ha rivoluzionato completamente. Era un grande disegnatore classico, ma nello stesso tempo un avanguardista”. Non a caso molti sostengono che Moebius abbia, col suo immaginario, toccato tutto, trasformato o ispirato contenuti e linguaggi dei cartoni animati, dei videogiochi, dell’illustrazione. Serenamente capace di accettare e utilizzare la consapevolezza di non essere ‘uno’, non aveva però alcuna idea di essere così grande, in entrambi i sensi: non aveva capito quanto fosse importante, per quanti e per quante cose. E ancora meno si sentiva e pensava di aver raggiunto l’età adulta: “Era rimasto sempre un adolescente”, ricorda Coniglio, “alla sua età – è morto a 73 anni – andava agli eventi ufficiali in sandali. Non per ostentazione, ma proprio perché non gli veniva in mente di essere ‘grande’ e di doversi vestire da grande. Non aveva capito di essere adulto e, grazie a questo, riusciva ad avere quello sguardo disincantato rispetto a tutto quello che gli succedeva intorno e incantato rispetto a quello che gli accadeva dentro”.
(articolo tratto dal sito www.glialtrionline.it)