Vittorio LussanaNel dibattito culturale più recente si continua a contrapporre il termine laicità a quello di laicismo. Tuttavia, queste due parole non sono affatto in contrapposizione tra loro, bensì fanno riferimento a due concezioni complementari, in cui la prima appartiene pienamente al ‘territorio concettuale’ della seconda. Il laicismo è infatti il terreno culturale complessivo in cui si muove e opera il principio della laicità dello Stato. Invece, c’è chi ama definire il ‘laicismo’ come una visione ideologizzata della laicità, con specifico riferimento all’esperienza storica francese. Nel 1905, infatti, la Francia introdusse in senso esplicito l’aggettivo ‘laico’ come intrinseco alla Costituzione della Terza Repubblica. In quell’epoca s’erano appena spenti gli echi del ‘caso Dreyfus’, in cui un rigurgito clericale e reazionario aveva invaso il Paese caratterizzandosi in senso antisemita. Alfred Dreyfus era un ufficiale di artiglieria dell’esercito francese ebreo-alsaziano, accusato di spionaggio in favore della Prussia. Egli fu convocato per un’ispezione dal generale Auguste Mercier e, in seguito, arrestato dal colonnello Armand du Paty de Clam. L’epilogo della vicenda giudiziaria giunse dopo un processo militare svoltosi a porte chiuse, in cui Dreyfus fu degradato e condannato ai lavori forzati. La cerimonia di degradazione avvenne nel cortile dell’accademia militare di Francia e fu drammatica: a Dreyfus vennero strappati i gradi e spezzata la spada di ordinanza, nonostante egli continuasse a dichiararsi disperatamente un patriota innocente. Il caso fu riaperto solo alcuni anni dopo dal colonnello Georges Piquart, nuovo capo dell’ufficio informazioni dello Stato Maggiore francese, il quale presentò ai propri superiori una relazione nella quale si dimostrava l’innocenza del capitano Dreyfus e si accusava di alto tradimento il maggiore Ferdinand Walsin Esterhazy, un ufficiale della vecchia nobiltà legittimista oberato da forti debiti di giuoco. Le gerarchie cattoliche francesi erano intervenute attaccando violentemente Dreyfus e il suo mondo di riferimento. Ed ecco per quale motivo la Francia cominciò a temere uno scarso senso di laicità tra i propri cittadini. C’è anche da sottolineare come il popolo francese possieda una storia di cruentissime guerre di religione tra cattolici e ugonotti. Dunque, la Francia è una nazione che ha appreso a proprie spese quanto le guerre di religione siano atroci e come certi fideismi ‘manichei’ non solo abbiamo la tendenza a combattersi tra loro, ma siano addirittura da considerare ‘criminogeni’. E’ assai significativo, per esempio, che all’indomani della notte di San Bartolomeo, nel 1572, allorquando i cattolici massacrarono circa trentamila ugonotti riformati, Papa Gregorio XIII indicesse a Roma un grandioso ‘Te Deum’ di ringraziamento. In ogni caso, a seguito delle ‘fiammate’ di clericalismo che si erano improvvisamente accese con ‘l’affaire Dreyfus’, la Repubblica francese si è sempre dichiarata ufficialmente uno Stato laico. Più di recente, sempre in Francia si sono manifestati nuovi rigurgiti di antisemitismo e antislamismo, per la presenza di alcuni milioni di nuovi cittadini provenienti dalle ex colonie del Maghreb. Gli episodi più importanti sono avvenuti nelle scuole e rispetto a questi fatti e alle problematiche a essi connesse è stato dedicato il lavoro di un’apposita commissione presieduta da Bernard Stasi. Essa ha concluso i propri studi di approfondimento licenziando un rapporto in cui si dichiara, ancora una volta, lo Stato e le sue strutture - scuole, esercito, ospedali, pubbliche amministrazioni - appartenenti a tutti, in cui dev’essere impedita qualunque forma di discriminazione o di privilegio a danno o a vantaggio di una categoria specifica di cittadini. E dato che le strutture pubbliche sono espressione di tutti, al loro interno debbono essere assenti quelle manifestazioni che indeboliscono l’unità nazionale e l’autorità statuale. Tra queste, anche l’esposizione dei simboli religiosi. Di qui, il divieto alle ragazze arabe di portare il ‘velo’, la proibizione per gli studenti israeliti di indossare la ‘kippa’ e l’inopportunità per gli studenti cristiani di appendersi al collo il crocifisso. Questo problema non si è ancora manifestato pienamente in Italia. Ma probabilmente, qui da noi l’opinione pubblica non accetterebbe mai simili inibizioni, poiché verrebbero vissute come limitazioni della singola libertà individuale. Noi italiani non accettiamo i divieti perché non abbiamo memoria di profonde e sanguinose divisioni dovute a motivazioni religiose e, sicuramente, si tenderebbe a vivere determinate disposizioni come un obbligo per i cittadini a essere laici, facendo cioè confusione tra laicità dello Stato e quella del singolo individuo. In Francia, viceversa, si pensa che la fede sia un fatto individuale e che la sua manifestazione non debba occupare spazi pubblici, perché questi appartengono a tutti, dunque sono considerati luoghi ‘neutrali’. In Italia, in sostanza, è fortemente presente l’idea che la religione abbia una ‘marcia’ in più (spesso per andare a ‘sbattere’ verso il razzismo e la discriminazione sociale). E’ lapalissiano che essa rappresenti un fenomeno culturale importante, che non possa non aver diritto a un riconoscimento nella sfera pubblica. Lo Stato, infatti, spesso utilizza l’azione sociale di organizzazioni di diretta emanazione religiosa, legate soprattutto alla chiesa cattolica, che suppliscono a numerose carenze in campo assistenziale. Comunque sia, ogni qual volta si sente parlare di ‘equidistanza’ dello Stato rispetto alle religioni viene sottolineato il ‘tema’ di tale termine, ‘equi’, anziché la sua desinenza, ovvero la ‘distanza’. Lo Stato, infatti, più che ‘equo’ dovrebbe essere ‘distante’ dalle religioni, poiché la fede, in linea di principio, appartiene alla sfera privata della singola persona. Essa è una risposta che l’uomo cerca in sé per risolvere problemi che, altrimenti, non saprebbe come affrontare, o per rispondere al mistero stesso della vita. Secondo Hegel, una fede, quando è ‘organizzata’, diviene una religione, ovvero una ‘chiesa positiva’. Ma una religione, a sua volta, è l’organizzazione di uomini e donne che hanno lo stesso punto di vista sul mondo e sulle cose ultime, i quali si mettono insieme per celebrare il proprio culto e scambiarsi reciproche conoscenze, non al fine di individuare linee di condotta per determinati comportamenti pratici: quelle che molti ritengono essere il ‘nerbo’ di una filosofia morale. Ciò, in realtà, è un aspetto ‘patologico’ delle religioni, poiché esse ritengono che la norma morale possa essere ‘eteronoma’ mentre, in verità, proprio per potersi definire etiche e morali, certe regole dovrebbero essere ‘autonome’. Ecco spiegato per quale motivo personalmente auspico una certa ‘distanza’ dello Stato rispetto alle religioni: esso è infatti tenuto a muoversi programmaticamente solo sul terreno della ragione, della razionalità, dell’opportunità e degli effetti di una norma piuttosto che un’altra. Ma allora perché gli aderenti a una religione spesso vengono a sindacare ciò che debbono o non debbono fare quelli di un’altra religione, o addirittura coloro che non aderiscono a nessuna credenza? Perché la chiesa cattolica si è opposta, in passato, al divorzio e, oggi, ostacola ogni tentativo di regolarizzazione civile delle cosiddette ‘coppie di fatto’? Si tratta di un’opposizione all’emanazione di leggi di cui i cattolici non sarebbero né tenuti, né costretti a servirsene: perché, dunque, si continua a impedire ai ‘non fedeli’ di poterne usufruire liberamente? Semplicemente, perché siamo di fronte alla più classica delle ‘pretese totalizzanti’ delle religioni, un genere di dogmatismi che nel caso del cattolicesimo romano hanno origine antica, allorquando Papa Innocenzo IV, intorno alla metà del 1200, stabilì che la sovranità del Pontefice dovesse esercitarsi su fedeli e non fedeli poiché tutti gli uomini sono figli di Dio, di cui il Papa è rappresentante in Terra. I rappresentanti di tutte le religioni hanno pieno diritto a esprimersi su qualunque argomento in quanto cittadini dello Stato ponendosi su un terreno di razionalità, non su quello dell’interpretazione della volontà divina. Nessuno può impedire a dei cattolici osservanti di sostenere che l’uomo sia stato creato esattamente così com’è oggi, rigettando ogni teoria scientifica evoluzionista. Si vuol continuare a credere ‘alla lettera’ alla ‘storiella’ di Adamo ed Eva? Va bene: in fondo, è un’opinione come un’altra. Tuttavia, essi, a loro volta, non possono impedire ad altri di credere che l’uomo sia frutto di un’evoluzione della specie solamente perché la Bibbia o, addirittura, il Padreterno non dice così: questo è un argomento ‘debole’. Un altro problema, sicuramente delicato e controverso, è quello del testamento biologico, uno strumento legislativo attraverso il quale ogni persona potrebbe lasciare alcune disposizioni in merito al trattamento cui vorrebbe essere sottoposta nella parte terminale della propria esistenza, in caso di malattie particolarmente invalidanti o dolorose. Questa continua a essere una questione attorno alla quale si possono legittimamente avere diversi, se non addirittura opposti, punti di vista. Tuttavia, anche in questo caso appare evidente l’esigenza di dover ricorrere a una discussione razionale per poter dipanare al meglio la questione, non al semplice divieto morale secondo cui una persona non può disporre della propria vita. Perché se io non posso disporre neanche della mia vita, allora mi si dovrebbe anche venire a spiegare quali sono gli ambiti in cui io posso veramente decidere qualcosa. Io comprendo, in termini spirituali, che un caro amico cattolico, seguendo i suoi migliori sentimenti di amicizia, venga a chiedermi, o persino a vietarmi, di fumare una sigaretta, poiché si tratta di un ‘vizio’ lesivo della mia salute. Eticamente, una proibizione del genere denota uno spirito altruistico assolutamente ‘alto’, pienamente riconoscibile. Ed è per questo motivo che può considerarsi giuridicamente accettabile il fatto che, negli anni scorsi, sia stato vietato ai cittadini di fumare nei ristoranti o nella maggior parte dei luoghi pubblici. Lo è assai meno che un astratto amore verso Dio possa trascinare i seguaci di una fede al di sotto del genere umano. La laicità è un piano di discussione che volutamente si autoconfina nel buon senso e nella logica. Pertanto, se per logica tutti i cittadini sono uguali, non ci si deve scandalizzare quando gli esponenti di una qualunque religione pretendono di esprimere apertamente il proprio punto di vista su un qualsiasi argomento: viceversa, ci si deve scandalizzare del silenzio con cui li ascoltano molti rappresentanti politici, che amano distinguere una presupposta ‘laicità positiva’ dal laicismo.




Direttore responsabile di www.laici.it e www.periodicoitalianomagazine.it
Lascia il tuo commento

Nessun commento presente in archivio