Elisabetta BriccaDi recente, abbiamo avuto il piacere di incontrare Harold Cobert in occasione dell'uscita del suo libro: ‘Un inverno con Baudelaire’, edito da Elliot per i tipi della collana ‘Scatti’. Si tratta della commovente storia di un giovane impiegato parigino che si ritrova, da un giorno all’altro, senza lavoro e senza casa, ma che riesce coraggiosamente a reagire e a crearsi a nuova vita dignitosa grazie all’affetto di un cane randagio incontrato per le strade della grande capitale francese, sin da subito nominato Baudelaire in onore del grande poeta. E’ un’opera, anzi praticamente una favola, che fuori dall’Italia sta letteralmente entusiasmando tantissimi lettori per la sua capacità di riscoprire la speranza, la gioia di vivere, la magia stessa della poesia. L’autore si è dimostrato estremamente disponibile e cortese, un vero intellettuale ‘charmant’ francese. Ci auguriamo sappia conquistarvi per la sua sensibilità verso le tematiche sociali e il suo credo inarrestabile nei sogni. Un ringraziamento particolare all’interprete che ha curato la traduzione dalla lingua francese della presente intervista, Selvaggia Oricchio.

Harold Cobert, abbiamo letto il suo “Un inverno con Baudelaire” e ne siamo rimasti incantati. La storia è ambientata a Parigi, ma al di là del fatto che lei sia francese possiamo chiederle come mai ha scelto proprio questa città? Pensa che abbia una sua magia particolare?

“Sì. Parigi ha un’allure poetica e affascinante. Baudelaire, il poeta francese, venne ispirato proprio da questa città e dai suoi misteri. E, ultimo ma non meno importante, avevo bisogno di quel “deserto umano” (Balzac) per dare maggior risalto alla solitudine del mio personaggio principale”.

Ciò che affascina particolarmente in questo suo lavoro, Baudelaire a parte, è la dimensione favolistica che ha saputo creare con uno stile a tratti poetico: ritiene che possa funzionare anche per gli adulti il “C’era una volta…”?
“Certamente, perché ognuno di noi porta dentro di sé un pezzo della propria infanzia. Proprio quel ‘pezzo’ è la cosa migliore che abbiamo. Alcune favole possono parlare sia ai bambini, sia agli adulti, allo stesso modo. Per esempio, io sono totalmente innamorato del ‘Piccolo Principe’, un libro che puoi leggere sia che tu abbia 7 o77 anni e interpretarlo in modo diverso. Credo che il lettore che è in noi probabilmente sia la parte più direttamente legata alla nostra infanzia, al tempo in cui i nostri genitori ci leggevano una favola prima di addormentarci”.

Philippe è un giovane padre che non perde mai la speranza: cosa rappresenta per lei?
“Philippe è un uomo come tanti. Ha un lavoro, una casa, è sposato e ha una figlia. Non è ricco, appartiene alla classe media. E perde ogni cosa. E’ esattamente come ognuno di noi. Anche noi potremo perdere ogni cosa e diventare dei senzatetto, soprattutto ai giorni nostri”.

Baudelaire, il cane, potrebbe incarnare la forza che alberga in ognuno di noi, ma anche una nemesi di Philippe: è d’accordo?
“Esattamente. Infatti, credo che un cane possa esser visto in molti modi: come la parte animale che ogni uomo porta dentro grazie alla quale può sopravvivere in un mondo ostile; come un angelo custode, per quelli che ci credono; oppure, semplicemente come un cane in gamba che si trova nel posto giusto al momento giusto. Probabilmente, Baudelaire è tutto questo”.

Cosa spinge un uomo, secondo Harlod Cobert, a trovare il coraggio per andare avanti? Lei ritiene che in una società così individualista ci sia ancora posto per sognare?
“Avere dei bambini ti dà la forza per guardare avanti e per sopravvivere. Riguardo ai sogni, sì, credo senza ombra di dubbio che siano più che essenziali, essenziali nel non arrendersi, se vogliamo costruire un mondo meno individualista e più unito. Penso che se rinunci ai sogni, ai tuoi sogni, sei già morto. Ma io sono uno stupido ottimista, scusatemi…”.

Lei ha dedicato il libro a “loro, affinché nessuno li guardi più senza vederli”, mentre noi pensiamo che quest’opera possa far riflettere su quanto siamo diventati ormai ciechi e schiavi di una vita che non ci appartiene più: crede che, oggi, la letteratura abbia ancora il potere di risvegliare le coscienze?
“Sì, lo credo. E anche l’arte in generale: che altro”?
 
Cosa ama di Baudelaire, il poeta?
“Tutto, ogni singola parola”.

Un'ultima domanda: perché ha scelto proprio questa storia?
“In realtà, non l’ho scelta, è stata la storia a scegliere me. Una sera di dicembre, io e mia moglie stavamo guardando la televisione e facevamo zapping, quando ci siamo imbattuti in un documentario che parlava del ‘Fleuron Saint Jean’, il battello che è anche nel mio romanzo. Abbiamo seguito la storia di questo uomo, Pascal, un senzatetto, e del suo cane Jessica, che era condannato a morire presto. Ci siamo così commossi che abbiamo pianto davanti alla tv. Ricordo di aver detto a me stesso che la letteratura dovrebbe parlare di queste cose, focalizzandosi su coloro che troppo spesso non vogliamo vedere, né sentire. La vita è andata avanti. Un paio di settimane più tardi ho pensato alla frase di Baudelaire che ha ispirato il mio romanzo. Ogni cosa è apparsa incredibilmente chiara nella mia mente: la storia, i personaggi, lo stile, l’intero libro. Da quel momento, non ho più neanche tirato il fiato finché non ho terminato di scriverlo”.




(intervista tratta dal blog www.diariodipensieripersi.com)
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Simona - Italia - Mail - domenica 29 gennaio 2012 12.58
Nella domanda di Elisabetta Bricca e nella risposta dell'autore, trovo la sintesi di una speranza che dovrebbe accomunare tutti.

Cosa spinge un uomo, secondo Harlod
Cobert, a trovare il coraggio per andare avanti? Lei ritiene che in una società così individualista ci sia ancora posto per sognare?

“Avere dei bambini ti dà la forza per guardare avanti e per sopravvivere.

Riguardo ai sogni, sì, credo senza ombra di dubbio che siano più che essenziali, essenziali nel non arrendersi, se vogliamo costruitre un mondo meno individualista e più unito. Penso che se rinunci ai sogni, ai tuoi sogni, sei già morto. Ma io sono uno stupido ottimista, scusatemi…”.

Credo negli stupidi ottimisti e non lo scuso.


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