Marta De LucaDopo le violenze e i gravissimi omicidi di questi giorni a Roma, ci siamo chiesti se sia possibile continuare a illudersi con le classiche immagini suggestive dell’eterna città turistica o del disimpegno notturno, se non sia cioè il caso di riflettere sulla nostra capitale sotto un profilo diverso, ovvero quello critico e meno superficiale di una realtà sociale composta da quartieri satelliti degradati e fuori controllo. La nostra redazione già in passato ha sollevato qualche dubbio, al riguardo: Roma non è solo la simpatica e ingegnosa città degli Alberto Sordi o degli Aldo Fabrizi, discendenti diretti dalla tradizione di schiettezza del Belli, del Trilussa e di Ettore Petrolini: si è fatta avanti una Roma diversa, più rozza e violenta, socialmente abbandonata. La criminalità è un fenomeno che Roma non ha mai vissuto come una capitale europea che cerca di autoregolamentarsi, ma come semplice città del sud d’Europa che si addormenta sui suoi stessi problemi. Non vi sono particolari accuse nei confronti dell’attuale Giunta comunale, poiché la tendenza è storica, a prescindere dalle colorazioni ideologiche che l’hanno governata e amministrata. Roma rischia di morire per troppa grandezza, per le incredibili speculazioni, gli scempi e le spoliazioni a cui la città è stata storicamente sottoposta. Il grosso dei servizi pesa ancora oggi sulla città vecchia, mentre la mentalità complessiva rimane impiegatizia, priva di ogni progettualità imprenditoriale. Una città enorme, grande quasi quanto New York, che si è portata all’interno interi agglomerati abitativi che potevano, invece, rappresentare una buona cintura industriale esterna. Ma nessuno lo ha pensato, né voluto: si è lasciato solamente arricchire costruttori e speculatori con le plusvalenze dei terreni. Ecco perché le forze di pubblica sicurezza non riescono a controllarla: come si può concepire un territorio comunale che comprende persino Ostia, Lunghezza, Spinaceto e l’Olgiata? Tutto è stato portato all’interno della cerchia comunale senza che neanche uno straccio di azienda potesse cercare di assorbire il cronico tasso di disoccupazione di una capitale che, praticamente, non conosce nulla del capitalismo moderno, nemmeno nel gestire le sue stesse professionalità e potenzialità. Un vero e proprio minestrone, in cui vi è tutto e il contrario di tutto, dove retorica, ignoranza, parassitismo e cafonaggine convivono tutte insieme appassionatamente all’ombra del cupolone. Nel calore incantato delle sue notti d’estate, tra le anse del Tevere e panorami di luci sparse, il peso della Storia appesantisce l’anima e il cuore di una città, nascondendo i ‘barboni’ che dormono per terra alla stazione Termini, i piazzali dei mercatini maleodoranti, i gatti randagi che sopravvivono grazie agli avanzi di anziane signore consumate dalla solitudine. Nei rioni e nelle borgate, la gente torna a casa stanca dopo giornate nervose, stracolme di rumori, mentre gruppi di giovani sottoccupati o senza lavoro chiacchierano a voce alta seduti ai tavolini dei bar. Una misera ed eterna città che proprio non riesce a tramutare la fatica in danaro.


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