Marta De LucaLe recenti violenze di Roma hanno aperto una serie di questioni serissime anche sull’utilizzo del populismo e della demagogia nel mondo dell’informazione politica. Si tratta di un ‘codice’ comunicativo che caratterizza soprattutto l’informazione televisiva e quella di molti ‘talk show’ di approfondimento, i quali da tempo hanno preteso di imporre una concezione ‘percettiva’ della democrazia e della rappresentanza politica, della condivisione dialettica di pareri e contenuti, immergendo il Paese in un ‘generalismo vuoto’, fautore di una società immobile, falsa, indifferente, perennemente impegnata a perpetuare se stessa. La cultura televisiva ‘berlusconiana’ ha infatti svuotato della loro sostanza tutti quei valori sociali e comportamentali che si credevano culturalmente fondanti, risolvendo qualsiasi questione e qualunque movenza di fondo della società nell’accettazione supìna di ogni contraddizione, di ogni genere di scherno, nel divertirsi a offrire del mondo un’ottica paradossale, ‘goliardica’, distorta. Ma in tema di ‘populismo protestatario’ esistono diversi problemi anche nella cosiddetta cultura di sinistra. La totale mancanza di autocritica del mondo post comunista, infatti, non deriva solamente dalla sua cronica ‘allergia’ verso il socialismo democratico e riformista, bensì è addebitabile a un grave errore di mentalità che si tramanda da intere generazioni. Se prendiamo, per esempio, la primissima pubblicazione da parte di Einaudi delle ‘Lettere’ e poi dei ‘Quaderni dal carcere’ di Antonio Gramsci, emergono una serie di limiti che hanno sempre distinto la produzione politico-culturale italo-marxista: nella revisione dei ‘Quaderni’, qua e là amputati con scarso senso filologico, soprattutto nei suoi riferimenti a personaggi sepolti dalla riprovazione del movimento comunista internazionale come Lev Trockij, si denota una precisa mentalità censoria, un amore tutto burocratico per le verità d'ufficio, un’attrazione per le convenienze momentanee, tutte tendenze che hanno aperto un grave ‘squarcio di verità’ intorno alla malattia da cui è sempre stata affetta la nostra cultura progressista. Non ci riferiamo tanto alla ‘doppiezza’ di chi è stato costretto a professare una visione puramente strumentale della democrazia in attesa di un suo superamento rivoluzionario, bensì a un orripilante pedagogismo esasperato, a un’insopportabile ipocrisia prelatizia, a una confusionaria identificazione del Partito con la mano provvidenziale della Storia, alla pretesa di annullamento di ogni individualità e di sacrificio di ogni criticità sull’altare delle obbedienze gerarchiche, a un armamentario culturale tutto incentrato su abiure, rettifiche, compromessi, pentimenti, scomuniche, confessioni in pubblico. Si tratta dei limiti dogmatici che derivano dal tentativo, pesantemente pedagogico, di un’educazione all’ortodossia operata da un'intera ‘classe’ di professionisti della politica i quali, pur credendo sinceramente nella democrazia, si sono quasi sempre approcciati a essa attraverso strumenti etici e concettuali buoni per rinsaldare una dittatura o per combattere una ‘guerra populista’, come se un sistema democratico, le sue procedure elettorali, i suoi problemi di ricambio generazionale o di semplice avvicendamento della classe dirigente possano essere tenuti a battesimo dal ‘centralismo democratico’.


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