Marta De LucaAssurde e paradossali le accuse rivolte dalla procura di Napoli al Governatore della Campania, on. Stefano Caldoro. Assurde, poiché non tengono assolutamente conto delle tempistiche tecniche di intervento della Regione Campania su una questione complessa come quella della distribuzione della spazzatura napoletana tra le varie discariche regionali; paradossali, perché in termini di competenza effettiva le accuse rivolte favoriscono il più bieco dei ‘giochetti’ burocratici: quello dello ‘scaricabarile’, del vedere sulla testa di chi, alla fine, cadrà il ‘melone’. Stefano Caldoro è il Governatore della Campania da appena un anno: invece di andare a scavare sulle responsabilità del lungo decennio ‘bassoliniano’, certi magistrati preferiscono approfittarne per dimostrare una concezione dell’esemplarietà assolutamente formale e astratta, tipica, per la verità, della singolarissima scuola giurisprudenziale partenopea. La questione della spazzatura in Campania è direttamente legata alla cultura del malaffare, a una gestione camorristica del territorio, alla classica tendenza a fare di tutto un unico ‘calderone’, da De Filippo al ‘laurismo’, dai Borboni alla pizza Margherita. Ma questa mentalità è anche figlia di una cultura – e qui ci riferiamo soprattutto alla cultura giuridica – consuetudinaria, pigra, sofista, totalmente interpretativa, in cui si può ipotizzare tutto e il contrario di tutto, una scuola di pensiero che ha sempre tenuto a bada truffe e imbrogli mediante sonnacchiose filosofie di mera gestione dell’esistente, poiché “tutto s’aggiusta”, anche se poi le conseguenze concrete di ogni problema ricadono concretamente sui singoli cittadini. Stefano Caldoro ama la propria città e la propria terra, ha rinunciato al proprio ruolo di parlamentare per impegnarsi a far rinascere la Campania, ha voluto porre se stesso al servizio del proprio Partito al fine di risollevare una delle zone più sfortunate del Paese da un tunnel secolare. Il primo tratto ferroviario della Storia d’Italia fu la Napoli – Portici, di cui ancora si possono osservare i binari ai lati di corso di San Giovanni a Teduccio. Perché Napoli era la capitale di un Regno, una città che ospitava degnamente regnanti e capi di Stato di tutto il mondo, per non parlare degli artisti, degli scrittori, dei romanzieri che l’hanno visitata, vissuta, amata. Napoli aveva un grande destino di fronte a sé, ma decise di rinunciarvi per affidarsi a una nuova nazione in grado di farla emergere con celerità dalla propria arretratezza, dall’ingiustizia che si respirava in ogni angolo delle sue strade, dal disastro dell’analfabetismo popolare, da quel vecchio classismo terriero e nobiliare che la teneva inchiodata al ‘paternalismo’ più mellifluo e ingannevole. L’antica popolazione della capitale borbonica ha vissuto lunghi decenni di felicità collettiva, persino di benessere culturale e preindustriale. Ma l’avvento della ‘piemontesizzazione’ ha finito col reprimere le migliori capacità creative di questa gente, oltre a fallire su ogni fronte organizzativo in un’Italia fatta ‘alla rovescia’, fondata sulla fantasìa dei settentrionali (che non ne hanno affatto) e sulle particolarissime concezioni d’ordine dei meridionali (totalmente anarchici e confusionari). La scuola giuridica napoletana ha poi definitivamente condizionato la città attraverso una mentalità retriva e mistificatoria, con una prolissità angosciante, con un senso di inettitudine mascherata da teatralità, con un’idea assolutamente formale della cultura del singolo individuo, in cui non conta il nutrimento effettivo di princìpi e valori, bensì il semplice ‘pezzo di carta’ da affiggere al muro per poter continuare a diffondere un’idea del Golfo sempre bello, sempre battuto dal sole, sempre invaso dalle americane ricche e vanesie, dalle francesine sofisticate e cretine: la Capri dei vip, in cui v’è solo uno ‘straccio’ di piazzetta ventosa; la Ischia rifugium peccatorum; la Sorrento struggente; un ‘cavolo’ di ‘ammore’ sempre agognato, doloroso, idealizzato, affranto fino al punto da fracassare le ‘scatole’ al mondo intero per riuscire a farsi una ‘scopata’. Una filosofia che ha saputo solamente guardare all’indietro in preda alla malinconia, alla pigrizia, al ‘vivi e lascia vivere’, all’attesa che lo zucchero si sciogliesse da solo nelle tazzine da caffè, con pochissimi ‘guizzi’ autentici di ribellione culturale nei confronti di una vita quotidiana costantemente mescolata con il sopruso del più forte, con l’ipocrisia del più ricco, con la sordità dello Stato, con la più feudale delle mentalità religiose. Napoli non merita quanto le sta capitando: su questo siamo assolutamente tutti d’accordo. Ma dopo più di un secolo di sonnolenza, essa non può certo più giustificare una classe dirigente perennemente noiosa e antipatica, un apparato giudiziario assolutamente negletto, un sistema sociale pigro e dissimulatorio. Diciamocelo francamente: Napoli è solamente una ‘carta sporca’, di cui a nessuno realmente importa. Tantomeno ai magistrati.


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ARBOR - MILANO - Mail - martedi 28 giugno 2011 17.43
Se il Sig. Caldoro ritiene che la situazione è come la descrive la ns. Marta, che a Napoli governano i marziani. Avrebbe fatto molto meglio ad andarsene, ma subito, magari facendo un giro per il resto d'Italia dove la spazzatura sta dove dovrebbero stare e non per la strada. Se non se la sentiva perchè continuava a ricoprire una carica (con relativo stipendio) dove sapeva che non avrebbe potuto fare niente, sia lui che i suoi sodali al comune, alla provincia, ecc.
Ma la coerenza dove sta ? chiunque se non è in grado di fare un qualsiasi lavoro dovrebbe dimettersi e passare la mano. E' perfettamente inutile, e puerile, continuare a chiamare in giudizio caio o sempronio se non sono stati in grado di fare quello che dovevi fare anche tu. Se la situazione è veramente quella che il sig. Caldoro recrimina.... vada a casa, e non faccia la manfrina di promettere le dimissioni quando, forse tra qualche lustro, le sue responsabilità saranno accertate.
In Gran Bretagna e molti altri Paesi più seri del nostro se un funzionario pubblico non è in grado di rispondere ai suoi compiti, si dimette il giorno dopo, indipendentemente dal fatto che le sue reponsabilità siano provate o meno.


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