Elisabetta ChiarelliRisuona quanto mai attuale il monito di Primo Levi a non dimenticare le brutalità della persecuzione razziale, alla luce dei fatti avvenuti circa un mese fa nel centro per disabili gestito dalla Croce Rossa sulla via Portuense a Roma. Infatti, sono ancora in corso le indagini per far luce sugli orrori che il personale sanitario pare abbia perpetrato ai danni degli ospiti di questa struttura. Si tratta dell’ennesimo episodio di brutale violenza compiuta sui più fragili e nelle case di riposo, come troppo spesso avviene, o nei centri di accoglienza e nelle scuole materne. Di fronte a questi fatti, ci si chiede da dove nasca tutto questo odio verso chi è indifeso. E, soprattutto, perché le istituzioni non abbiano introdotto validi strumenti, per evitare che tutto ciò avesse luogo. Come può consumarsi un tale abominio ai margini della nostra vita quotidiana? E’ significativo come dalle indagini sia emerso che a scatenare la violenza degli abusanti fosse la percezione d’invalidità dei pazienti loro affidati come un ostacolo, un fastidio per la loro routine. Allora c’è da domandarsi quale fosse il reale scopo della loro esistenza, del loro lavoro, se non quello di cercare di alleviare la sofferenza altrui. Le risposte a questi interrogativi sono le seguenti: in primis, la carenza abissale di una solida formazione professionale e di competenze radicate nell’esercizio dei mestieri. L’assenza di un vaglio meritocratico nella preparazione al mondo del lavoro ha generato una crescente frustrazione, data dall’inadeguata canalizzazione delle risorse umane. Si perde, quindi, di vista il fine, parafrasando l’efficace espressione 'kantiana', per concentrarsi sul 'mezzo', finendo per considerare tale non solo l’Altro, ma in primo luogo se stessi. Come evidenziato dal giornalista Giovanni Floris, in un’intervista di qualche anno fa, ci troviamo a vivere in una società che, nel pratico incedere dell’esistenza, si è persa. Per cui, siamo condannati all’infelicità, a non godere del nostro impegno lavorativo quotidiano per i valori che porta con sé e per i quali dovremmo averlo scelto una professione, per ripiegare su una grigia routine, con il solo obiettivo dello stipendio a fine mese. Potrebbe esser questa la causa che spinge verso una non responsabilità, che degenera in chi è propenso al crimine e all’abuso nei confronti di coloro che, con la propria fragilità fisica o psichica, diventano lo 'specchio' della propria colpevole impotenza e, in tutti gli altri, di un’indifferenza ancora più ripugnante. “Sono forse io, il custode di mio fratello”? Oppure: “Non sono responsabile di questo sangue”. Sono queste le parole proferite nell’Antico e nel Nuovo Testamento, rispettivamente da Caino e Ponzio Pilato, pur a distanza di millenni l’uno dall’altro. A dimostrazione di come, nel corso del tempo, le cose non siano cambiate: si dà la colpa alla società, che degrada sempre di più nel non funzionamento delle sue istituzioni; oppure all’economia; oppure ancora alla scarsa offerta di opportunità lavorative. Senza considerare che la società non è altro che lo specchio di ciò che siamo: un’umanità in perenne contraddizione.





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