L’inatteso esito dell’incontro alla Casa Bianca di fine febbraio tra il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump e quello dell'Ucraina, Volodymyr Zelensky, ha generato un’attenzione mediatica di portata globale, che oltre ad accendere prevedibili e infuocate polemiche nell’opinione pubblica, ha sicuramente definito un nuovo corso per futuri scenari geopolitici totalmente impensabili durante l’operato della precedente amministrazione americana. Un cambio di marcia sostanziale, già annunciato da Donald Trump in tempi non sospetti, durante le primissime fasi della campagna elettorale e che, ora, il tycoon sta attuando a ritmo serrato, ridefinendo in tal modo i paradigmi della società statunitense, tra espulsioni di migranti irregolari, dazi commerciali e tagli netti alla pubblica amministrazione. Provvedimenti in qualche modo 'draconiani', che pongono interrogativi e, talvolta, suscitano sdegno (i migranti incatenati e rimpatriati per via aerea sono l’immagine più eloquente in tal senso). Tuttavia, il tono muscolare della politica ‘trumpiana’ non va confuso con l’ipertrofia ‘machista’ dipinta da molti media mainstream. Il contestato incontro, avvenuto lo scorso 28 febbraio, ha certamente proposto un confronto tra impari. Ma la trascrizione oggettiva dello svolgimento non trova riscontro nella narrazione mediatica dominante, in favore di una spettacolarizzazione a tutti i costi. “Match”, “rissa”, “scontro”: queste le parole più 'gettonate' nei titoli e nei lanci di agenzia. Termini appartenenti a un campo semantico che sostituisce gli interlocutori con i contendenti, trasformando lo studio ovale in un ring. E’ innegabile la familiarità del presidente Trump con le telecamere e la sua abilità nel ‘titillare’ l’elettorato attraverso slogan e ‘catchphrases’, ma etichettare ogni atto politico come becero populismo che strizza l’occhio agli estremismi è una minimizzazione superficiale. Quella di Trump è 'realpolitik', che risponde a un semplice ma efficace interrogativo: conviene agli Stati Uniti? L’atteggiamento protezionista di Donald Trump (tendente quasi a un autarchismo di antica data) risulta diametralmente opposto alle priorità dettate dall’agenda redatta dai suoi predecessori, impegnati nell’anteporre “l’esportazione della democrazia” verso determinati Paesi come una necessità primaria. Per tale motivo, la guerra non è un’opzione per Trump: finanziamenti per armi, soldati, intelligence e supporti vari risultano una spesa gravosa per il bilancio. Con quale obiettivo, se non quello di prolungare un conflitto che sta producendo solo un logoramento per Russia e Ucraina? Le parole di Trump al riguardo sono state chiare: l’obiettivo è la pace. Una dichiarazione che ha gelato Zelensky. Ecco, dunque, consumarsi la rottura: la richiesta guerrafondaia non viene accettata, ma rispedita al mittente. Donald Trump e il suo vice, James David Vance, mostrano determinazione in una risoluzione volta alla pace, probabilmente animati anche da un risentimento (politico, sia chiaro) dettato dall’endorsement manifestato da Zelensky in favore dei democratici, durante la scorsa campagna elettorale. La risposta è limpida, il sostegno militare vacilla. Zelensky non incassa e rincara la dose, affermando che, nonostante vi sia "un gran bell’oceano" che separa i due Paesi, gli esiti nefasti della guerra tra Russia e Ucraina potrebbero raggiungere anche gli Stati Uniti. Un grossolano errore di valutazione, quello di porsi sullo stesso livello del Paese più importante della Terra e pensare di poterlo addirittura minacciare. Gli americani, si sa, sono l’incarnazione del patriottismo: stuzzicarli nel proprio orgoglio competitivo non è mai una scelta saggia. Per tutta risposta, gli alleati europei hanno indetto un consiglio straordinario, conclusosi con l’approvazione del piano ‘ReArm Europe’ che prevede lo stanziamento di 800 miliardi di euro per la produzione di armi e sistemi di difesa. Il presidente francese Emmanuel Macron, ha addirittura garantito “l’ombrello nucleare francese” come deterrente collaterale. Ma i contribuenti europei non saranno felici di sapere che non si possono stanziare risorse, per quanto disancorate dai fondi di coesione, per ristrutturare il nostro welfare, mentre la cosa si può fare per favorire una corsa agli armamenti e proteggersi dal minaccioso spauracchio della guerra che si aggira ai confini orientali dell’Unione. Armi, armi e ancora armi: è questa la ricetta per rendere l’Europa di nuovo grande?