Condannato da un avviso di garanzia e dall’opinione pubblica, assolto in primo e secondo grado.
Pierluigi Polverari, 56 anni, sindacalista Uil, amministratore comunale, sindaco di Lecco, esponente del Partito Socialista Italiano, parlamentare nella XII legislatura, è una delle vittime di Tangentopoli. Nel 1992 ha ricevuto un avviso di garanzia: una carriera stroncata, le violazioni subite, la vendita della casa, le spese per gli avvocati, le aule, i tribunali, le perquisizioni, l’abbandono dell’Italia.
Dal ’95 vive a Tunisi, viaggio di sola andata nel disperato tentativo di rimettere in piedi la sua vita. Eppure, non si sente una vittima della giustizia, del ciclone Mani Pulite: "Semmai" – racconta – "è il Paese ad essere vittima di un sistema ingiusto".
A 10 anni da quel 12 agosto in cui ricevette quell’avviso 'di condanna', ci racconta la sua vita.
Onorevole, ricapitolando le sue vicende, perché quell'avviso di garanzia?
“Era il 1992. L’accusa, una delle più infamanti: concorso in corruzione per tangenti, turbativa d’asta e violazione della legge sul finanziamento ai partiti. Assieme a me, con le stesse accuse, figuravano anche Sergio Moroni, che poi si suicidò e Cesare Golfari, anche lui scomparso un anno dopo per un infarto. Le tangenti, secondo l’avviso, erano state versate ai partiti locali, Dc e Psi, dalla ditta appaltatrice della costruzione dell’ospedale di Lecco per essersi aggiudicata la gara di quell’appalto”.
Quanto è durato il processo?
“Otto anni per il processo di primo grado, con sentenza conclusiva di assoluzione per insussistenza del fatto. Poi, due anni ancora per la requisitoria in appello. Identica la sentenza finale. Eppure la condanna c’è e rimane: a quel tempo i processi li facevano in piazza, nelle televisioni, sui giornali e un avviso di garanzia, per un parlamentare, significava la fine di tutto. La giustizia in Italia è fatta così: una volta che ci sei dentro, non ne esci più e nemmeno importa il verdetto. Se hai i soldi, forse te la puoi cavare, perché l’accusa va avanti per anni e, per difenderti, cerchi di star dietro alla vicenda. Ma, se sei povero in canna, sei un uomo morto”.
Ci racconta quel periodo?
“Pensare ad un regime è poca cosa. Io ero parlamentare e dell’immunità non interessò a nessuno. In casa mia, mentre ero assente, sono state fatte perquisizioni, i carabinieri hanno violato la mia abitazione dicendo di cercare un ladro. Esagerazioni e violazioni dei diritti quotidiani, pubblicità del segreto istruttorio, intimidazioni e minacce alla mia segretaria, interrogata, sul letto di morte – era malata di tumore - senza la presenza di un difensore d’ufficio… Per chi ha vissuto in prima persona quei soprusi, ripensarli oggi significa sentirsi in un regime di 'socialismo reale' o dell'America Latina. In quegli otto anni non ho dormito la notte, nell'attesa dell'eventualità che qualcuno arrivasse per portarmi in carcere. Ero sorvegliato giorno e notte dai servizi: sotto casa era posteggiata una macchina la cui targa non risultava all’ACI, stava lì per me, per controllare i miei movimenti, quelli di un uomo accusato di corruzione”.
E poi?
“Nel ‘95 sono partito per Tunisi, per visitare Bettino Craxi: gli sono sempre stato amico e lui, in quel momento, era stato abbandonato da tutti. L’ho fatto per senso di solidarietà, perché Bettino stava quasi peggio di me. Sono andato lì con mio figlio Marco. Fu proprio lui a consigliarci di rimanere a vivere lì. Aveva ragione: in Italia futuro non c’era e di lavoro nemmeno a parlarne. Con tutta la famiglia, ci si siamo quindi trasferiti in Tunisia: siamo stati accolti bene e oggi, insieme a mio figlio, abbiamo messo in piedi un’attività di servizi per le imprese italiane”.
E tutto questo, per un 'fatto che non sussiste'… Perché pensa di esser rientrato nel ciclone di Tangentopoli?
“Perché in Italia la giustizia non funziona. Il problema è semplice: la corruzione, se e dove c’è, va combattuta, ma pensare che siano i giudici a doverla prevenire e non la cultura, è davvero fuori da ogni logica. E ancora, a prescindere dal dato punitivo, se davvero si è colpevoli, la pena deve essere inflitta tramite gli uffici della Procura e non da singoli procuratori che poi finiscono sui giornali, in televisione, celebrati come dei 'divi': perché in quel momento tu sei il mostro, mentre loro, i magistrati, i salvatori. Solo in Italia poteva succedere. Il problema è, più che altro, politico: è abbastanza evidente quale sia la corrente culturale e l’orientamento politico dell’Associazione Nazionale Magistrati, oggi come ieri”.
Cosa pensa di Mani Pulite?
“Un delirio di onnipotenza, frutto di una follia degenerativa che ha reso gli uomini incapaci di vedere la verità. Pensare di voler trasportare un sistema del genere all’estero, poi, era davvero un’utopia. Mani Pulite è stata una falsa rivoluzione, che ha ucciso vite di uomini innocenti, lesi nella dignità e nell’onore”.
Giustizia da riformare, ma in quale modo?
“Negli ultimi due decenni sono state tentate numerose correzioni, senza però aver mai compiuto passi importanti. Sarebbe essenziale, se non indispensabile, separare le carriere: non è normale permettere ad un magistrato di passare dalla parte del giudice. Si tratta di distinte funzioni, incompatibili tra di loro. Bisogna rinforzare le garanzie per controllare un corpo, quello della magistratura, che in Italia non è soggetto ad alcuna supervisione: in Italia essa risulta intoccabile. Se non si perseguirà in questa direzione, la giustizia sarà sempre menomata, inutile”.