Giorgio MorinoDi solito, quando nelle librerie esce un libro che riscuote un ampio successo commerciale, trascinandosi dietro una lunga serie di critiche e polemiche, è solo questione di tempo: prima o poi, la suddetta opera troverà la sua trasposizione cinematografica. I romanzi di Dan Brown, ex professore d'inglese del New Hampshire e lo straordinario fuoco incrociato di polemiche sui contenuti che ne hanno accompagnato l'uscita, hanno sicuramente trovato terreno fertile in cui prosperare negli studi di Hollywood. Affidandosi nuovamente al dinamico duo, Ron Howard - Tom Hanks, dopo i fuochi d'artificio de 'Il codice da Vinci' nel 2006 e il meno 'scoppiettante' successo di 'Angeli & Demoni' nel 2009, ecco 'Inferno', nuovo capitolo delle avventure del professor Robert Langdon, esperto di simbologia e immaginario 'alter ego' di Dan Brown stesso. In questa nuova epopea, il professore si sveglia in un ospedale con una ferita alla testa, senza ricordare dove si trovi, né cosa sia successo negli ultimi giorni. Senza sapere come, Langdon si troverà nuovamente al centro di una forsennata caccia all'uomo, in cui l'obiettivo è proprio lui e le informazioni in suo possesso su una possibile minaccia 'bio-terroristica': una nuova 'peste nera' che decimerà la popolazione mondiale. Con l'aiuto della dottoressa Brooks, sua nuova compagna in questo allucinante viaggio, un Langdon spaesato e in preda alle allucinazioni affronta l'enigma più complesso della sua carriera, nella meravigliosa cornice offerta dalla città di Firenze. Ora, mettiamo immediatamente dei 'paletti' che facilitino il procedere del dibattito: 'Inferno' non è tecnicamente un film 'brutto'. Nel senso che Ron Howard non è fisicamente in grado di girare qualcosa che si posizioni sotto la sufficienza. E Tom Hanks riesce a dimostrarsi 'credibile', nei panni di un Langdon confuso e inconsapevole di quanto gli sta succedendo intorno. A essere piuttosto carente, in questa pellicola, è stata la sceneggiatura. I romanzi di Dan Brown, a un'attenta lettura, si presentano sempre con lo stesso, prevedibile, schema fisso: il protagonista è chiamato a risolvere un enigma; un'organizzazione segreta si mette alle 'calcagna' del protagonista per impedirgli di arrivare alla soluzione; il protagonista risolve l'enigma facendo emergere una visione inedita degli eventi narrati e un apparente nuovo interrogativo etico-morale. Questo impianto si era presentato in maniera quasi integrale ne 'Il codice da Vinci'; con qualche variazione rispetto alla trama originale in 'Angeli & Demoni', pur senza sostanziali modifiche al senso complessivo dell'opera. 'Inferno', invece, si è deciso di mantenere sostanzialmente invariato lo svolgersi degli eventi, salvo poi distruggere un lavoro tutto sommato gradevole con un finale 'scialbo' e in totale contraddizione con il messaggio finale del libro. Nelle pagine di Dan Brown, il virus creato dal miliardario e geniale ingegnere genetico Bertrand Zobrist si rivela essere non una nuova 'peste nera', ma un 'vettore virale', creato in laboratorio, che avrebbe modificato il Dna della razza umana, in modo da renderne sterile circa un terzo in maniera casuale. Questo perché Zobrist, nel libro come nel film, è sinceramente preoccupato del continuo espandersi dell'umanità e della distruzione delle risorse terrestri che una crescita incontrollata comporta. Senza dover 'sterminare' un'intera razza, Zobrist decide di affidare alla scienza e al 'caos' il compito di evitare 'l'Inferno' sulla Terra. Nel film, invece, Zobrist finisce per essere ritratto come uno psicopatico 'fissato' per 'l'Inferno' di Dante, il quale ha preparato un'enigma estenuante per un suo fantomatico seguace, al fine di trovare la 'sacca' che contiene il 'ceppo' della 'pestilenza'. Risultato: Langdon evita la rottura della sacca e la diffusione del virus, lieto fine e sipario. Uno dei difetti più grandi di Hollywood è la ricerca spasmodica del 'lieto fine', dell'eroe che salva la situazione e della fiducia nel genere umano e nelle sue infinite possibilità: un'idea decisamente 'opinabile'. Se c'era un pregio nella prosa di 'Inferno' era proprio la posizione di Zobrist, il suo ricercare una soluzione equa e casuale a un problema reale come il sovrappopolamento terrestre. "Per arrivare a un miliardo, la razza umana ha impiegato quasi 800 anni; per raddoppiare c'è voluto un secolo; per arrivare a 4 miliardi meno di 70 anni": questo, in sintesi, il 'succo' del ragionamento di Zobrist. Ciò che è stato fatto con il finale del film 'Inferno' può paragonarsi a un atto di 'codardìa intellettuale', uno sfuggire una problematica con la promessa di 'ripensarci in seguito'. Non sempre un finale eticamente edificante risulta utile. In questo caso, è addirittura 'deleterio'. Scomodare Dante e la sua visione dell'inferno nella costruzione degli enigmi e nelle fastidiose visioni di Langdon è risultata un'impudenza. Così come lasciano a 'bocca aperta' le inesattezze storiche che abbondano sia nel libro, sia nel film. Uno su tutti: la maschera funebre di Dante, conservata a Palazzo Vecchio che, in realtà, è una ricostruzione del 1915, non un'originale calco funebre del poeta. Ma si sa, di persone realmente a conoscenza della Storia e della Storia dell'arte il nostro Paese non abbonda: figurarsi negli Usa. Se non altro, un film del genere invoglia a visitare l'Italia e le sue bellezze: un 'manifesto turistico' in grande stile. Per il resto, un vero inferno.


Lascia il tuo commento

Nessun commento presente in archivio