Vittorio CraxiCome nasce un partito nell’era moderna, nella società post-ideologica, insomma nell’Italia della seconda Repubblica? Viene da domandarselo, perché ‘a rate’, con finalità differenti e in aree politiche e culturali assai diverse fra di loro, ne sono sorti un certo numero dopo il crollo fragoroso della tanto vituperata ‘partitocrazia’, alla quale si è sostituita una ‘multipartitocrazia’ che sembra più una ‘gravidanza isterica’ e ripetuta di movimenti e processi politici che, allo stato, non sembrano essere in sintonia con nessuna delle grandi democrazie del nostro tempo, fatte salve le fragili esperienze, i regimi caduchi e i modelli ‘videocratici’ tanto in voga in America latina e nell’est post-comunista. Come nasce, quindi, un nuovo partito democratico? Per un’esigenza impellente, frutto di un processo adulto e maturo di superamento dell’armatura ideologica della ‘première’? Dall’approdo moderno di forze che si richiamano comunemente ad una tradizione da sempre minoritaria, nel nostro Paese, quella riformista, oggi improvvisamente divenuta ‘alfabeto’ e ‘moneta’ della sinistra italiana? A ben osservare, la ‘fusione a freddo’ dei due grandi partiti che oggi occupano il terreno della sinistra riformista moderna, accelerano questo processo di osmosi con ritmo e passo assai differente, perché rispondono a culture e ad esigenze politiche e burocratiche ben distinte. Ma l’andare oltre le proprie tradizioni e i propri convincimenti di fondo, la propria cultura di riferimento e la propria ‘koiné’, non deve presupporre solamente uno sforzo politico ‘creativo’, bensì deve anche rispondere ad una domanda reale nella società, ad un’esigenza che, oggi, francamente, non sembra essere del tutto realistica e praticabile.
Più che le astensioni o gli ‘infantilismi’ interni ai Ds, rimane l’impressione che si tratti, ancora, delle elucubrazioni di chi ritiene che determinati processi politici possano innervarsi nella società a colpi di forzature istituzionali ed elettorali. “Prima il referendum contro il proporzionale” - tuona Bordon – “poi il ritorno al maggioritario e, infine, l’unità dell’Ulivo”, che può illuminare l’evoluzione del quadro politico complessivo della sinistra europea e mondiale, poiché ha messo radici proprio grazie all’esperienza italiana: troppa grazia, Sant’Antonio! Tuttavia, esiste una questione politica e storica, nella sinistra italiana, che è tanto facile da aggirare sul piano pratico quanto impossibile sul piano teorico, in quanto riguarda, assai da vicino, non tanto la vicenda italiana, quanto la famiglia di riferimento politico in cui si riconoscono i più grandi partiti del progressismo internazionale: quella socialista. L’impronunciabilità della parola è, ormai, la conseguenza tragica, l’effetto devastante della scomparsa del Psi. Misurarsi con essa, significa non solo rimettere in discussione scelte e percorsi politici dell’ultimo quindicennio, ma, implicitamente, riconoscere che nel ‘gorgo della corruzione’ di quel partito vi era, in nuce, la prospettiva di un rinnovamento politico della sinistra italiana, dei temi e dei problemi che oggi rappresentano l’agenda ed il quadro di riferimento delle socialdemocrazie europee e mondiali, nient’affatto usurate dalla prova con l’azione di governo delle società più complesse. Che il rapporto con l’antica dottrina socialdemocratica faccia dire a Zapatero che il partito del futuro lo continua ad immaginare innanzitutto “democratico e sociale, quindi socialdemocratico” non allontana che nella forma una questione ed una riflessione che, nella sostanza, prende le mosse da un orizzonte ideale e pratico che si riconosce nel medesimo perimetro politico: un partito socialista senza i socialisti è difficile immaginarlo, in particolare senza quei socialisti che rivendicano legittimamente la continuità con un’esperienza politica mai tanto esecrata quanto celebrata. Ad un partito che si pone alla testa della politica italiana senza porsi il problema del suo rapporto con la sinistra storica e con il socialismo, si potrebbe contrapporre la frase di Oscar Wilde: “Una mappa del mondo dimentica del socialismo non è degna neanche di questo nome”. E d’altronde, il richiamo alle tradizione storiche delle attuali formazioni residuali laico-socialiste, noi de ‘i Socialisti’, la Rosa nel pugno e il Mre della Sbarbati, proposti da Piero Fassino quali ingredienti necessari per ‘sfornare’ la ‘torta ulivista’, sono certamente un riconoscimento alla nostra indispensabilità ma, al tempo stesso, la certificazione della debolezza intrinseca di un progetto democratico e riformista privo di un confronto serio e reale con il socialismo democratico italiano. Se, com’è naturale, dalle parti della Margherita ci si spaventa di un eventuale approdo nel Pse, converrebbe allora cominciare a ragionare e a discutere di assemblare per lo meno l’area che nel socialismo europeo si sente a casa propria e che, anzi, ha lavorato per fondarla e costruirla fino ad ospitare i partiti che provenivano dall’area comunista. Questa è un questione politica di prima grandezza, non una forma di ‘aritmetica elettorale’ che si risolve assorbendo o assumendo le membra sparse e disordinate di un’area che ha rappresentato, in questo Paese, oltre cinque milioni di elettori e che, ancora oggi, è parcheggiata o riposa al di là dei confini della ‘sinistra reale’ italiana. Opporre un ennesimo ‘rassemblement’ di socialisti al ‘big bang’ democratico? Se non viene scambiata per velleità o utopia, una ‘cosa socialista’ paradossalmente avrebbe molto più senso oggi che durante tutti gli anni ’90. Tuttavia, una ‘cosa’ frettolosa ‘liberal-radical-socialista’, che comunque colma, almeno in parte, un vuoto o uno spazio politico, non può e non deve contribuire alla rimozione della questione socialista, bensì rilanciarla con determinazione, realismo e franchezza. I processi di cambiamento ingigantiscono e non marginalizzano le minoranze, specie quando esse rappresentano ‘maggioranze reali’ in Europa e nel mondo. Il socialismo democratico e liberale rappresenta la maggioranza della sinistra mondiale: ad esso dobbiamo fare riferimento. Ma a Roma, non a Bruxelles o a Washington. Questo deve essere un punto politico essenziale, per chi lavora per ‘allargare non alla giornata’ il perimetro delle proprie alleanze e per chi considera essenziale, nella democrazia italiana, il collegamento vitale con la più autentica storia democratica del nostro Paese.


Sottosegretario di Stato agli Affari Esteri
Segretario Nazionale de 'i Socialisti'
Articolo tratto dal quotidiano 'il Riformista' del 21 luglio 2006
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