Chiara GenoveseEra il 1963 quando la storica e filosofa Hannah Arendt, nel suo saggio 'La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme', cercò per la prima volta di spiegare l'inspiegabile: come fosse stato possibile che uomini e donne apparentemente uguali a tutti gli altri, che non avevano mai dato prima alcun segno di straordinaria malvagità, avessero commesso gli atti più vili contro i propri simili nell'ambito della cosiddetta "soluzione finale", voluta e progettata, tra gli altri, dallo stesso Adolf Eichmann. La Arendt, nel volume, conclude che le azioni di Eichmann, uno dei principali responsabili della logistica dell'Olocausto nazista, non fosse il risultato di una profonda depravazione o di una spietata crudeltà, ma piuttosto di una mancanza di riflessione critica e di un'assenza di pensiero morale. Secondo la Arendt, infatti, Eichmann non era un mostro, bensì un uomo ordinario, che si limitava ad adempiere ai propri doveri burocratici senza interrogarsi sulla moralità delle proprie azioni. Questo concetto solleva importanti questioni sulla natura dell'azione umana, sulla responsabilità individuale e sulle implicazioni dell'obbedienza acritica alle autorità. La tesi di Arendt hanno suscitato un ampio dibattito e continua ad essere oggetto di interesse e di studio nell'ambito della filosofia politica e della Storia contemporanea. Tuttavia, la risposta di Hannah Arendt non è stata sufficiente affinché l'umanità cessasse di porsi l'annosa domanda: com'è stato possibile? Se lo chiede anche Jonathan Glazer nel suo 'La zona d'interesse', adattamento cinematografico di un romanzo di Martin Amis, osannato dalla critica e vincitore di due premi Oscar (miglior film internazionale e miglior sonoro). Una pellicola che sembra in accordo con la Arendt nel proporre "la banalità del male" quale spiegazione alla barbarie dell'Olocausto. E lo fa tramite la scelta, originalissima, di non mostrare direttamente la violenza, ma di lasciare che lo spettatore la intuisca attraverso i suoni e i dialoghi tra i personaggi. Ciò che vediamo sullo schermo è la quotidianità del comandante di Auschwitz, Rudolf Höss, di sua moglie Hedwig e dei loro cinque figli, che vivono nella cosiddetta 'area d'interesse' intorno al campo, apparentemente separati da quest'ultimo soltanto da un muro. Quotidianità appena turbata dall'orrore che si consuma al di là del muro stesso. Un orrore che, per la famiglia Höss, non rappresenta che uno scomodo inconveniente: una pioggia di ceneri che guasta una gita al lago; lo sferragliare dei treni in arrivo che, per un momento, disturba la quiete della casa; Hedwig che racconta alla madre di voler far crescere una siepe che copra l'antiestetica vista del campo dal suo bel giardino. Certo, c'è spazio anche per il bene, rappresentato dalla ragazzina che, nottetempo, si reca nei pressi del campo per nascondere del cibo tra gli attrezzi da lavoro dei detenuti, a rischio della propria libertà e, persino, della propria vita. Ma il sentimento che prevale è l'indifferenza: da parte di coloro per i quali quello all'interno del campo non è che un lavoro come un altro e di coloro che, non direttamente coinvolti, scelgono semplicemente di fingere di non vedere. Eppure, una quotidiana esposizione all'orrore non può non avere conseguenze: lo intuiamo nel finale, quando Rudolf Höss, scendendo le scale del suo ufficio di Berlino, è assalito da violenti conati di vomito, senza tuttavia riuscire ad espellere nulla. Sintomo di un improbabile rimorso o effetto delle ceneri e dei fumi inalati giornalmente? Il film non lo chiarisce, preferendo, a questo punto, puntare il dito contro di noi, gli spettatori. Il finale della pellicola, infatti, mostra alcuni nostri contemporanei intenti a lucidare vetrine ricolme di scarpe, di indumenti senza proprietario, di valigie che non verranno mai più recuperate: sono gli impiegati di Auschwitz 'oggi', contrapposti ai burocrati di Auschwitz 'ieri', che mantengono pulito il campo per i numerosi turisti che, quotidianamente, vi si recano in visita. Incolpevoli, certo. Ma anche loro portatori di quella straordinaria adattabilità umana che, quando vi è esposta abbastanza a lungo, trasforma l'orrore in 'routine'. E noi? Se l'Olocausto è ormai un mostruoso ricordo, altre mostruosità avvengono, in questo momento, a un passo da noi. Abbiamo mai agito concretamente per impedirlo? O ci siamo anche solo mai sporti per guardare al di là del muro? In questo, sembra suggerirci 'La zona d'interesse', non siamo poi tanto diversi dalle donne tedesche che, con un probabile riferimento biblico, "si spartivano le vesti" delle donne e dei bambini deportati, come vediamo in una delle prime scene del film. Stiamo tutti, in un modo o nell'altro, passeggiando nel nostro giardino appena fuori le mura di Auschwitz. E gli echi del "male banale" ci arrivano smorzati: sono solo un rumore di fondo, mentre coltiviamo la nostra siepe, ripensando a quanto crudeli fossero i nostri predecessori.





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Guido - Firenze - Mail - domenica 21 aprile 2024 12.11
Molto brava l'autrice, se posso permettermi. Essere originali per scelta e gerarchia dei temi e linguaggio sobrio, preciso, mai sopra le righe su di un tema difficile, in quanto tanto logoro quanto attuale, mostra qualità, direi, non solo professionale.


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