Ilaria CordìDopo 37 intensi e affollati giorni di teatro, il Roma Fringe Festival 2014 ha concluso le sue serate dedicate allo spettacolo indipendente, con la finale e la consegna dei premi. Cinque settimane di teatro indipendente, con nove spettacoli al giorno che hanno coinvolto pubblico di ogni età ed estrazione sociale, amanti del teatro e non, con ospiti italiani e stranieri. Tutto con una missione specifica riuscita in pieno: quella di riportare il pubblico a teatro, con molti sold out e platee affollatissime, anche per gli spettacoli stranieri e in lingua. Ecco qui di seguito le nostre recensioni, raccolte per la testata ‘Periodico italiano magazine’ (www.periodicoitalianomagazine.it) diretta da Vittorio Lussana.

Le monde des vivants
“Io sono fatta di carne e ossa, non sono una metafora”. Le monde des vivants è la messa in scena dell’interiorità della vita e dell’intimità della persona. Stranezze quotidiane e normalità casalinghe vengono messe continuamente a sintesi dall’italo-francese Serra Bernardt, in un susseguirsi di immagini, voci e personaggi presentati secondo uno stile dinamico e, al contempo, estremamente intuitivo. La ‘piéce’ rientra pienamente nello stile ‘Fringe’ internazionale, carico di sperimentalismi febbrili, idee e riflessioni malinconiche, affiancate da situazioni al limite dell’assurdo, di cui si può anche ridere. Avanguardismo disordinato e giovanile? Oppure, un tentativo di avvicinamento rivoluzionario tra arte e teatro? Allo spettatore resta l’incognita, che a nostro parere non risolve del tutto una serie di spunti in molti casi piuttosto criptici, di non semplice decodificazione, proposti all’interno di un’ottica estremamente intimista e soggettiva. Il quesito di fondo, insomma, intendiamo esprimerlo con estrema sincerità: siamo noi a mantenere uno sguardo troppo ‘italiano’ in merito a determinate rappresentazioni, oppure è il ‘Fringe style’ europeo a lasciarci, talvolta, un po’ perplessi per alcune sue forme di disordinata sperimentazione, che non sempre riusciamo a interpretare? Non è dato sapere. Vivace e stravagante.
Collectif Serra Bernhardt
Di: Alessandra Serra
Regia: Alessandra Serra
Con: Clementine Aznar, Irene di Dio, Francesco Maria Rovere, Antonio Paride Pisciotta, Alessandra Serra
(Ilaria Cordì)

Relazione per un’accademia
Tratto da due racconti di Kafka, “Relazione per un’accademia” e “L’artista del digiuno”, e intrecciando quindi due storie specularmente opposte, lo spettacolo mostra come gli eventi possano ‘cambiarci’, determinando nella nostra vita percorsi ben precisi: mostrando, da un lato, un processo di evoluzione-accettazione; dall’altro, quello di dimenticanza-imbestialimento. Protagonista della rappresentazione è una scimmia, che racconta la sua storia davanti agli illustri componenti di un’accademia (identificati con il pubblico). Catturata e sradicata dal suo mondo oltre che dal suo habitat naturale, intuisce che nel nuovo mondo in cui è stata catapultata la sua aspirazione non può più essere la libertà. Adesso, in mezzo gli uomini, l’unica cosa che conta è la capacità di crearsi una via d’uscita. Così, alla possibilità di finire ‘in mostra’ all’orto botanico, contrappone una scelta estrema e difficile: è necessario diventare come l’uomo. Il disperato tentativo di somigliare alla razza umana, di integrarsi, di sentirsi accettata e amata, alla fine, sarà premiato: la sua evoluzione sarà perfettamente riuscita. La relazione-narrazione della scimmia viene alternata, nella messa in scena, al secondo racconto che, attraverso una voce fuori campo, ricostruisce e ripercorre la parabola di successo-oblìo-involuzione di un artista. Si tratta dell’artista del digiuno: un’arte un tempo ammirata e seguita dal pubblico con grande partecipazione e attenzione, ma che, con il passare del tempo, finisce nel dimenticatoio. Suscitando addirittura ‘antipatia’ negli spettatori. L’artista, pur tentando di rintracciare qua e là segnali di ripresa della sua arte, deve infine arrendersi a questa triste realtà. E finisce in un circo dove, chiuso all’interno di una gabbia posta sul percorso che porta alle ‘bestie feroci’, ‘mostra’ la sua attrazione. Ma nessuno lo nota. I giorni e i mesi trascorrono. Il suo digiunare raggiunge livelli impensabili. Ma nessuno lo saprà mai. E il suo fisico, prostrato da tanta fatica, pian piano si abbandona alla morte. Morirà in una gabbia, solo e senza clamore. Di contro, la scimmia, all’apice del successo e ormai perfettamente conscia dei limiti e delle ‘vanità’ umane, può ‘permettersi’ il lusso di comportarsi in tutto e per tutto come gli uomini. E come loro, si sente ‘in dovere’ (o in diritto) di presentare la relazione della sua vita. Nonostante l’idea dello spettacolo, tesa a mostrare l’inverosimilità e la sovversione delle circostanze, rappresenti un’ottima occasione di riflessione, la sua esecuzione è apparsa un po' lenta. Discreto.
Crab Teatro
Di: F. Kafka
Regia: Bruno Franceschini
Con: Antonio Villella
(Carla De Leo)

Shakespeare’s women
La poesia di Shakespeare racchiusa nella complicata logica femminile. Un viaggio alla riscoperta delle donne che hanno reso importante la produzione shakespeariana. Giovanna d’Arco, Caterina d’Aragona, Ofelia, Lady Macbeth e Titania mettono in scena i loro drammi personali rivelando e confidandosi di essere alla ricerca della loro identità e personalità. Le parole di William Shakespeare risuonano come un eco per l’intero dramma e il sottofondo musicale accompagna la drammaturgia dell’opera che gioca tra il presente, il passato e il futuro evocando diverse e inaspettate emozioni. La recitazione mette in scena il ruolo principale della donna e l’evoluzione sociale contemporanea grazie alla fruizione di dialoghi dinamici che riescono a far rivivere l’unità intrinseca della femminilità e del fantasma aleatorio dello stesso scrittore e della sua storia. Emozionante e commovente.
Theatre of Eternal Vale
Di: Monia Giovannangeli
Regia: Eric Loren
Con: Monia Giovannangeli, Deborah Eckman, Alexandra Maitland Hume, Nicolette van T’hek, Victor Vertunni, Adda Van Zanden
(Ilaria Cordì)

Untitled Keith
Keith Haring, quello degli ‘omini’ sulla metropolitana. Artista pop o imbrattatore? Lo spettacolo ripropone il dilemma legato all’artista scomparso nel 1990. Siamo in pieni anni '80, la carriera di Haring è ormai iniziata, passando dalla strada ai salotti che contano. Parlare di questo writer statunitense significa compiere sempre un’opera di semplificazione, che passa attraverso le immagini di quegli omini che ci ha lasciato. Keith è i suoi disegni, il suo tratto semplice e intuitivo. In altre parole, un’icona pop. Ma chi era veramente l’uomo che associamo soltanto alla sua arte? Sul palco Keith e gli altri personaggi (travestiti per l'occasione nei suoi famosi pupazzi), ripercorrono alcuni momenti di vita del protagonista e non solo. Giocando con alcune pose, emulano sulla scena molte delle sue opere. Non si lesina neppure sull'aspetto sessuale. Nella sua vita/carriera Haring ha avuto modo di incontrare molti uomini. Una vita scandita tra gin lemon in discoteca, arte, sesso e desiderio di essere ovunque. Lasciare il 'segno' dappertutto. E in quel turbinio degli anni '80 raggiungere l'apprezzamento della massa. Un pregio dello spettacolo è proprio quello di riproporre al pubblico un periodo dell'arte moderna noto ai più se non per sommi capi. Si riscopre così un momento ben preciso in cui l'arte diventa consumo di massa. Madonna cantava 'Like a Virgin', Warhol riproduceva in serie i suoi oggetti, e Keith graffitava i suoi omini. Tutti e tre grandi amici, ma resta comunque la solitudine dell'artista, trascinato a volte nel caos del Paradise Garage, luogo cult di quel periodo, che diventa la summa di tutti gli eccessi. Nel bene e nel male l'arte è transitata da lì, attraverso i suoi autori. Qualcuno, più di uno, è rimasto vittima dell'HIV, ma la sua arte gli è sopravvissuta. Keith Haring è morto, ma tutti ancora oggi riconoscono i suoi omini della metropolitana. Chi sia stato veramente, rimane una questione racchiusa nei tanti titoli delle sue opere: “Untitled”. Uno spettacolo scorrevole, ‘leggero’ proprio come era stato definito l’artista, con in sottotraccia un discorso di impegno sociale da tenere sott’occhio.
Teatro Jump
Regia: Valentina Papis e Saverio Trovato
Con: Matteo Bertuetti, Valentina Papis, Fabio Bergamaschi, Saverio Trovato
(Gaetano Massimo Macrì)

Per i capelli
La compagnia teatrale ‘Rastelli Guerra’ non ha calcato il palco del ‘Fringe’ soltanto con la messa in scena di uno spettacolo e di una storia. Ad essere ironicamente esibita è stata, infatti, la ‘celebrazione’ e la ‘divinizzazione’ degli assurdi meccanismi mentali che, spesso – e forse più di quanto immaginiamo – si celano dietro alcune logiche di interazione tra le persone. Determinando tra di esse rapporti, dinamiche e atteggiamenti ‘anomali’. Assurdità che, quindi, non rappresentano ‘l’eccezione alla regola’, ma sono (o finiscono con l’essere) l’ingrediente necessario e indispensabile per ‘andare avanti’ e per continuare a convivere con l’altro: un ‘modus vivendi’ a pieno titolo. Che per i due interpreti costituisce la normalità, scandendone la quotidianità. Una coppia nevrastenica, chiusa nei reciproci tormenti e nel proprio individualismo, che ‘trova realizzazione’ nel costante bisogno di conflitto. Dove ‘stare insieme’ coincide con l’antitesi odio-amore e con l’inconsapevole necessità del perenne contrasto. Da qui, l’ossessiva ricerca del litigio e della guerra nella convinzione di dare un senso alla vita. Nulla può distrarli dalle loro beghe quotidiane per diventare ‘occasione’ di un punto di incontro: nemmeno le esplosioni e la guerra (simulate con un divertente ‘scontro’ di palline colorate tra il pubblico e gli attori), scoppiate fuori, nella vita reale, al di là del loro microcosmo. Nemmeno la pace, che alla fine sopraggiunge. Tutto è motivo di ‘fastidio’ e di lamento. Uno spettacolo che è una grande metafora, che incarna ‘tutti gli incastrati’ nelle loro nevrosi. Con l’apparizione dei due attori – ai quali va riconosciuta la maestria di aver reso fruibile e divertente un tema attuale tutt’altro che leggero, se analizzato al di là della ‘superficie’ ironica con cui è stato trattato – vengono esposte infatti tutte quelle relazioni ‘malate’, che trovano motivazione proprio nella loro malattia di fondo. Portare in scena l’aspetto ‘meno normale’ dei rapporti tra persone significa ribadirne l’esistenza: gli uomini sono abituati a farsi la guerra e il fatto che alcune relazioni non siano sane, non vuol dire che non esistano. Ingegnoso e divertente.
Compagnia ‘Rastelli Guerra’
Con: Morena Rastelli e Gabriele Guerra
(Carla De Leo)

Amunì
Amunì, dal siciliano “andiamo”, è un’esortazione e un incitamento a buttarsi nella vita. Una riflessione sulle consuetudini, sulle regole, sulle etichette e sulle ‘istruzioni’ necessarie per la convivenza sociale. Un’analisi che vuol far meditare sul concetto del ‘bene comune’ e di come, in realtà, questo concetto sia soltanto la maschera di imposizioni e di ‘doveri’ collettivi, camuffati dietro i panni dell’oggettivamente giusto. La comunità stabilisce regole prestabilite in merito alle decisioni, allo svolgimento della nostra esistenza e ci condiziona nei semplici piccoli gesti quotidiani. Fin da piccoli ci viene indicato come agire e come comportarci. Una società che incarna tutte le società: perché nessuna ha fatto i conti con la volontà del singolo. Nessuna ha mai preso in considerazione o contemplato la possibilità di scontrarsi con una visione differente delle cose. Eppure, da qualche parte, esiste quel singolo soggetto che non comprende le motivazioni di tutto questo: non comprende un mondo dove tutti si comportano in un determinato modo perché “così è”. Perché così è stabilito, così è imposto o così è giusto. Perché è universalmente riconosciuto ‘normale’ svegliarsi al mattino e ‘necessariamente’ lavarsi; andare al lavoro e far ritorno nella propria casa soltanto la sera, dalla propria famiglia. Così come festeggiare il Natale indossando l’abito buono e condividendo la ‘festa’ con altre persone ‘normali’, mantenendo in società un atteggiamento 'perbene' nel quale è necessario esprimersi in un italiano privo di dialettismi per non venir esclusi. Ma chi lo stabilisce che la ‘faccia corretta’ della medaglia sia quella che scandisce gli eventi in questo modo? E cosa succede se non si condivide questo pensiero o se non si ha il coraggio di buttarsi in questa vita? Si resta prigionieri. Schiavi di un’esistenza in bilico tra i ricordi del passato e l’impossibilità di un futuro. Si diventa immobili e fantasmi invisibili agli occhi di tutti. Questa, la soluzione offerta da uno spettacolo sospeso nel surreale. Dove i due bravi e giovani attori siciliani ci mostrano lo scorcio di vita dei protagonisti: un ragazzo e una ragazza che vivono chiusi in una stanza, divenuta ormai tutto il loro universo. Allo spettatore non è dato sapere chi siano i due giovani e perché si trovano in quella stanza. Sembrano essere lì da sempre, immersi nell’impalpabilità di un tempo irreale e avviluppati nell’impossibilità di sottrarsi ad azioni che si ripetono uguali tutti i giorni. Conducendo una ‘semi’ esistenza, continuamente oscillante tra il desiderio e la curiosità di uscire fuori, di andare alla conquista e alla scoperta del ‘vero’ mondo (stimolata dai ricordi) e la paura o la nausea di ciò che esiste al di là di quelle quattro pareti confortanti. La loro casa diviene pian piano e inevitabilmente fortezza e rifugio. Ma anche e soprattutto la terribile prigione del loro avvenire, che li lega e li incatena in un ‘essere’ e in un ‘dove’ senza tempo e senza spazio. Astratto.
(Carla De Leo)

The chase
I cinque giovani attori presenti sulla scena sono anche registi e scrittori di una commedia dallo stampo ironico e surreale, in lingua inglese e con inserti in italiano. "The Chase" ripercorre la Storia, attraverso il racconto di una battagliera e ironica vecchietta, all'inizio della guerra fredda in Russia. Tutti gli attori mirano al coinvolgimento del pubblico, rivolgendo domande oppure cercando il contatto fisico. Il risultato è l'eliminazione di ogni barriera tra palco e realtà e l'immersione totale nel racconto, nonostante il 'gap' della lingua. Colpisce la brillante recitazione della briosa ed energica vecchietta, che non fa che criticare il figlio scienziato accusandolo di non aver il coraggio di agire, ma di perdersi in parole e discorsi in astratto tra neuroni ed elettroni. Uno scontro generazionale ancora oggi attuale, l'esperienza che sprona e cerca di indirizzare il talento dei più giovani, timorosi e disorientati in una società 'darwinianamente' spietata. La dittatura e la follia della costruzione di una bomba atomica metteranno alla prova il giovane figlio, che per la prima volta compirà una fatidica e fondamentale 'scelta', perchè 'l'importante non è la correttezza della scelta. ma fare una scelta'. Metterà a disposizione il suo ingegno nelle mani di uno spietato dittatore o scapperà con l'elemento mancante per completare la bomba atomica? L'ultima parte dello spettacolo tocca il paradosso e pone in ridicolo la figura del 'leader', mostrato nella sua piccolezza fisica e morale, suscitando un riso amaro nel pubblico. Da codardo a coraggioso eroe, lo scienziato russo ricorda nel finale il Dedalo della mitologia greca, che dopo aver inventato il labirinto per il re Minosse dovette assistere al triste volo del figlio Icaro. Il ritmo veloce della narrazione e delle battute comiche catapulta lo spettatore nel triste epilogo, in cui si ribalta la storia di Dedalo e si esalta il triste sacrificio del singolo in difesa dell'umanità, confermando ancora l'importanza di una scelta. La costruzione di un paio di ali per uscire da una situazione di pericolo sembra dunque essere il monito finale dello spettacolo: la libertà. L'ostacolo della lingua viene assolutamente superato mediante la bravura mimica degli attori e la recitazione scandita da pause e da musiche ben calibrate, grazie anche alle poche ma incisive parole in italiano. Spettacolo ironico, immediato e scorrevole.
Con: Cristina Arena, Joe Carter, Naomi Cambell, Julie Nesher, Stefanie Withers
(Silvia Mattina)

Finale di partita
Finale di partita è un'opera teatrale in un solo atto scritta da Samuel Beckett. Un lavoro che è parodia dell'esistenza, riflessione sull' individualità, la solitudine dell'io di fronte al mondo, l'inutilità, la precarietà, il fallimento, l'assurdo dell'esistere, i limiti e le possibilità della libertà individuale. I protagonisti sono Hamm, un anziano signore cieco ed incapace di reggersi in piedi, ed il suo servo Clov, che al contrario non è capace di sedersi. Confrontarsi con questo Beckett 'sperimentale' e molto vicino al teatro dell'assurdo non è impresa di poco conto, soprattutto in un contesto 'fringe'. Roberto Negri è riuscito a regalarci una piccola chicca. Una recitazione splendida, con soluzioni scenografiche che fanno sentire il pubblico parte della scena. I due vecchissimi genitori di Hamm, Nagg e Nell, sono marionette animate dalla voce e dalla gestualità dei due attori protagonisti. Nessun punto di caduta, nessuna sbavatura. Negri è un leone che ruggisce sulla scena con il merito di dominarla appieno. Latorre ne diventa perfetto giullare e voce narrante: un binomio di personalità che incanta il pubblico. Surreale e goliardico.
Con: Roberto Negri e Vito Latorre
Scene e costumi: Rossella Ramunni e Davide Sciascia
Assistente alla regia: Gabriella Altomare
Di: Samuel Beckett
Regia: Roberto Negri
Aiuto regia: Alice Mele
Organizzazione: Flavia Ferranti
Luci e fonica: Antonio Repole
Una produzione Officina Dinamo, co?prodotto con la piattaforma di Crowdfounding Indiegogo www.officinadinamo.it
(Francesca Buffo)

Ave: assicurazione vita eterna
Se siete scontenti della vostra vita, se pensate di meritare di più, se vi ritenete troppo brutti per avere una compagna al vostro fianco, se il lavoro non vi ha dato nessuna soddisfazione, non disperate, una soluzione esiste: fate causa a Dio. La compagnia Up Arte mette in scena una commedia nera in cui i tre protagonisti (un uomo che vuole denunciare Dio per tutto ciò che gli è stato negato nella vita, un avvenente avvocato chiamato a difendere l’Altissimo e un uomo aspirante commediografo che con il suo cellulare riesce a verificare ogni avvenimento della vita dell’uomo) si ritrovano in una stanza spoglia e buia a discutere di ogni cosa, passando dalle massime questioni filosofiche dell’esistenza fino ai più incredibili paradossi della quotidianità. Tutto viene discusso e analizzato, smontato e rimontato, in continuo rovesciamento di posizioni e idee; il tutto condito da un umorismo tagliente e mai banale, in grado nella risata di portare sempre ad una riflessione inaspettata. Senza nulla svelare della trama, difficilmente riassumibile e fin troppo piacevole da scoprire con lo svolgersi delle vicende sul palco, possiamo dire che A.V.E. - Assicurazione Vita Eterna è stata una sorpresa assolutamente piacevole, grazie ad una sapiente combinazione di grottesco, serietà e disillusione; una particolare menzione deve andare ai tre protagonisti, Marika De Chiara, Danilo Giuva e Matteo Martinelli, per l’intesa dimostrata sul palco e la capacità di rendere autentici anche i cambi di situazione più repentini e inaspettati. Originale e assolutamente divertente.
Compagnia Up Arte
Di: Enrico Rosellini
Regia: Guglielmo Guidi
Aiuto regia: Sara Sonia Acquaviva
Attori: Simone Ciampi, Marika De Chiara, Matteo Martinelli. Scenografa Gloria Brescini Assistente scenografa: Chiara Di Cillo
(Giorgio Morino)

A cuore aperto
È una semplice storia d’amore. Semplicissima, in fondo. Carica di simbolismi che finiscono con l’incorniciarla sino a renderla un percorso sentimentale tipico, non una delle tante storie d’amore, ma quella un po’ di tutti. La rappresentazione è volutamente decontestualizzata. Nessun riferimento a luoghi, fatti, periodi o momenti storici precisi: un rapporto amoroso visto dall’interno, con i suoi momenti ciclici e fasi alterne, amorevoli dolcezze e scontri irrazionali tra inquietudini e paure che presentano l’amore come un’esperienza che vale sempre la pena di esser vissuta. Perché la vita stessa va vissuta: non si può semplicemente analizzarla e giudicarla dall’esterno, secondo una logica puramente contemplativa. Anche perché l’amore non ha logica, non risponde a regole fisse, bensì brilla come un riflesso di luce proveniente dal profondo dei nostri cuori. Una bella riflessione, dunque. A tratti romantica, in altri momenti dolorosa e, in altri ancora persino faticosa, ma sempre rappresentata come una fase della vita carica di purezza, intessuta di ingenuità, che forse sono il simbolo, o il segreto stesso, della felicità più autentica e indimenticabile. Giorgia Palmucci e Cristiano Priori ce la mettono tutta per donare al pubblico le tante sensazioni e le piccole emozioni di una fase meravigliosa della vita di due giovani, quasi fosse un manuale di educazione sentimentale per ragazzi. Bene la Palmucci nel suo calarsi totalmente nel personaggio della ragazzina innamorata, un ruolo che le sta ‘a pennello’. Qualche rilievo, invece, sulla recitazione di Priori, in alcuni momenti un poco ‘guasconesca’, entrando un poco in contraddizione con la timidezza del suo personaggio, soprattutto nel ‘passo’ in cui i due ragazzi ricostruiscono e si raccontano le emozioni provate durante la loro ‘prima volta’. In ogni caso, nel complesso l’opera risulta graziosa, carina, mantenuta sul filo di un equilibrio non eccessivamente ‘smielato’. Un rischio, quest’ultimo, sempre in agguato in rappresentazioni di tal genere, che affrontano argomenti in cui la difficoltà è quella di non sbilanciarsi e cadere nei consueti luoghi comuni alla ‘Love story’.
Associazione culturale Arcadinoè
Regia: Patrizio Cigliano
Con: Cristiano Priori, Giorgia Palmucci
(Vittorio Lussana)

Dostoevskij carnaval
Dostoevskij trip, di Vladimir Sorokin è un testo inquietante e fuori dal comune nel quale è protagonista la letteratura, che nel contesto della storia è una droga illegale e mortalmente pericolosa. Quando si alza il sipario, sette giovani uomini e donne, tutti tossicomani di letteratura, stanno aspettando il pusher. Ognuno ha la sua droga preferita: chi Dickens, chi Nabokov, chi Thackeray, e così via. Il pusher arriva, e propone una droga sperimentale appena sintetizzata dai suoi laboratori: Dostoevskij. I sette accettano di provarla, bevono il preparato, e cadono dentro a un grande romanzo di Dostoevskij: L’idiota. Ciascuno secondo le coordinate della sua storia personale, diventano personaggi del romanzo e ne rivivono, progressivamente trasfigurandola, una delle scene chiave. L'adattamento di Valerio Tambone, presentato al Roma Fringe Festival, è un piccolo capolavoro. La scenografia, gli attori, le scelte registiche catturano il pubblico fin dai primi minuti di rappresentazione. La trama di per sé, soprattutto per chi non conosce il lavoro originario di Sorokin, non è immediatamente intuibile. Ma i dialoghi, con una commistione di dialetto siciliano che non ti aspetteresti in un testo tradotto dal russo (ma che non stona affatto e 'colora' lo svolgimento della storia), e il ritmo serrato della messa in scena tengono 'avvinghiato' lo spettatore. Un lavoro molto originale.
Ispirato a ‘Dostoevskij-Trip’ di Vladimir Sorokin
Traduzione dal russo, adattamento e regia: Valerio Tambone
Con: Francesco Bernava, Nunzio Bonadonna, Giuseppe Brancato, Micaela De Grandi, Alice Ferlito, Valentina Ferrante, Emiliano Longo, Marco Spitaleri
Assistente alla regia: Luigi Patti
Riprese video: Alessandro Aiello
(Francesca Buffo)

Donne senza censura
Si tratta dell’ultimo monologo dell’attrice Patrizia Schiavo la quale, sotto lo pseudonimo di Letizia Servo, pone in evidenza tutti gli aspetti più stantìi, convenzionali e tardo-deterministi del mestiere dell'attore. Siamo di fronte a un lavoro che appartiene indubbiamente a un altro ‘pianeta’, poiché pone sotto accusa tutti i dogmatismi culturali e le classiche coordinate ‘ideologiche’ che il teatro di serie ‘A’ impone ai propri artisti, sino a giungere allo schiacciamento definitivo della personalità individuale dell’attore. Alcune frasi messe ‘in bocca’ a Carmelo Bene sono le canoniche e ferree regole imposte nel mondo dell’arte in quanto metodo di comportamento professionale obbligatorio: “Se ti fermi anche soltanto per due anni, tutti pensano che sei morto”; “se intendi produrre spettacoli ricchi di contenuti reali e impegnativi, poi sarai costretto a farlo per altri 50 anni”; “se vuoi riuscire in questo mestiere devi essere orfano di mondo”; “ricordati che un’attrice ‘madre’ non la vuole nessuno”. La Schiavo fa dunque letteralmente a pezzi il mondo della produzione artistica e teatrale italiana, che si avvita da decenni intorno a luoghi comuni e canoni di giudizio utili solamente a restringere tutti gli spazi di affermazione artistica e di vivacità culturale che, potenzialmente, il nostro Paese potrebbe esprimere. Abbiamo già commentato, in passato, le complesse tematiche evidenziate da questo intelligente copione della Schiavo: siamo di fronte a un capolavoro spietato, duro, cattivo. Soprattutto, se si cerca di analizzarlo per il suo verso sociologico più profondo: quello di un’artista che, rispondendo a una lunga intervista, ripercorre la propria carriera. Il percorso non soltanto di un’attrice, ma anche di una donna. La Schiavo racconta come, per poter lavorare, si sia costretti a sottoporsi a soprusi, umiliazioni, durissimi sacrifici e costrizioni, mentre la donna che vive ‘dietro’ all’attrice stessa finisce col dissociarsi in un continuo confronto interiore, giungendo fin quasi ai confini della bipolarità. Il personaggio femminile che la Schiavo mette in scena con amara ironia, si sdoppia nel tentativo di analizzare sotto ogni punto di vista la cultura sessista e il ‘gallismo’ maschilista italiano, quella marea di bugie che vengono date in pasto alle donne per poterle utilizzare in quanto ‘pedine’, per non dover ammettere innanzi a loro di non possedere la sensibilità per riuscire a impostare rapporti di amicizia qualitativamente più elevati e sentimentalmente più autentici e sinceri con l’universo femminile. Accanto a questa critica, che diviene uno spettacolo all’interno dello spettacolo stesso, la Schiavo a un certo punto muove all’attacco di tutte le assurdità del mondo artistico italiano, alle innumerevoli etichettature discriminatorie, a tutti quei ‘recinti’ che in realtà servono solamente a delimitare il campo della produzione artistica e culturale, sulla base di concezioni ‘arcadiche’ tanto ristrette, quanto totalmente supposte. La Schiavo, a un certo punto, afferma espressamente: “Io sono un’attrice consapevole di come il diaframma non sia soltanto un metodo anticoncezionale”. E infatti, al di là dei contenuti di tale rappresentazione, non possiamo non sottolineare lo straordinario ‘timbro’ di questa attrice meravigliosa, la sua capacità di essere tante donne diverse, l’intensità recitativa e la profondità d’impostazione di una voce - e di un’anima - che è quella di un’autentica ‘gigantessa’ del panorama artistico e culturale capitolino. Un ambiente che ritrova, dopo il suo lungo decennio di ‘esilio’ personale in Svizzera, una magnifica attrice e una donna immensa.
Scritto e interpretato da: Patrizia Schiavo
Con: Silvia Grassi e Flavia Pinti
Assistente: Teresa Luchena
Suono: Marco Franceschelli
(Vittorio Lussana)

Taddarite
A prima vista, sembra uno ‘spunto’ o un tentativo di humor ‘nero’ in ‘salsa’ sicula. Ma poi si scopre che c’è molto di più: tre sorelle si rivedono in occasione della veglia funebre del marito di una di loro. E proprio la morte diviene un pretesto liberatorio in grado di superare un mare di omertà, un intero mondo basato su mere apparenze, una condizione femminile di sostanziale inferiorità sociale. La cultura maschilista siciliana viene, mano a mano, distrutta dalle tre donne, che alla fine riescono a spiegare pienamente al pubblico i motivi per cui la morte, in molte situazioni, non sia affatto un dolore, bensì una vera e propria ‘svolta’ di affrancamento da una cultura dell’onore francamente stucchevole, incivile, fuori dal tempo. Si consiglia solamente alle attrici Claudia Gusmano, Luana Rondinelli e Adriana Parrinello di tirar fuori maggiormente la voce e di rappresentare con maggior consapevolezza i diversi momenti ironici e surreali presenti nel testo. Interessante.
Accura Teatro
Regia; Luana Rondinelli
Con: Claudia Gusmano, Luana Rondinelli, Anna Clara Giampino
(Vittorio Lussana)

Lamagara
Bella ricostruzione delle vicende di Cecilia Faragò, l’ultima fattucchiera processata e condannata per stregoneria dal regno borbonico delle due Sicilie nella seconda metà del XVIII secolo. Emanuela Bianchi è veramente brava a ricostruire un mondo arcano, la millenaria condizione di condanna della donna, le misconosciute o rinnegate radici dell’anticlericalismo meridionale: un ‘filone’ culturale che in verità è sempre esistito, ma che raramente viene messo in evidenza. Questo è forse uno dei principali meriti del Fringe di quest’anno, il quale già nel monologo surreale ‘Groppi d’amore’ ha dimostrato di saper uscire dai consueti canoni di un sud storicamente prono alle distorsioni del cattolicesimo più atavico e controriformista. Invece, se si va bene a ‘scavare’ - come hanno fatto in questo caso Emilio Suraci e la stessa Emanuela Bianchi - si scopre che alcune antiche ‘tracce laiche’ e determinati principi di eguaglianza e di libertà sono sempre esistiti, anche nelle zone più arretrate d’Italia, sin quasi a rappresentare, sotto il profilo della Storia della cultura italiana, un tentativo di ricollegamento con la nostra più autentica e preziosa identità popolare. Da segnalare, inoltre, le interessanti capacità interpretative della Bianchi, la quale, pur essendosi ritagliata un personaggio praticamente ‘su misura’ facendo leva sulle proprie caratteristiche fisiche tipicamente mediterranee, ha dimostrato di possedere grande intensità recitativa e notevoli potenzialità drammaturgiche. Una tipologia di attrice non comune, legata a ruoli, personaggi e culture del nostro sud che dovrebbero essere riprese e valorizzate, secondo una chiave di attualizzazione ‘neo-verista’ del controverso e multiforme contesto storico-sociale del Mezzogiorno d’Italia. Eccellente.
Da un’idea di Emanuela Bianchi
Scritto da Emilio Suraci ed Emanuela Bianchi
Adattamento e interpretazione: Emanuela Bianchi
(Vittorio Lussana)

Il sangue
Il sangue è una sottile linea rossa nel cui segno può capitare che qualcuno si riunisca, come in un gruppo. Come quello imprecisato di alcuni terroristi senza nome che sequestrano una donna, anch’ella senza nome. L’individualità che si perde dentro una collettività, l’’io’ che diventa un ‘noi’, è la chiave di accesso a un odio viscerale verso l’altro che altrimenti non troverebbe spiegazioni. Quando il singolo uccide, nella realtà è il gruppo a farlo. In questa logica dell’ io che non è nessuno, ma è solo un noi, si regge tutto il sistema distorto con cui viene organizzato il sequestro e da cui scaturisce un dialogo contraddittorio che porta avanti la storia fino all’estremo atto finale. In nome di un protagonismo, il gruppo opprime il singolo. Ma “Che cosa è "noi"? Che faccia ha?” e, soprattutto, “Di che colore è il suo sangue?”. Sono tanti gli interrogativi che questo spettacolo riesce a suscitare. Attraverso la storia di un sequestro, vissuta tra il grottesco, il puro realismo e momenti splatter, si scontrano due visioni del mondo (la sequestrata e i suoi sequestratori). È possibile una riconciliazione? La relazione che la donna instaura con una bambina, parrebbe lasciare una speranza. Sul tragico epilogo, però, pendono molte perplessità. L’efficacia dello spettacolo sta proprio nel mettere in moto una girandola di dubbi. Da segnalare che il testo è tratto dalla pièce ‘La Sangre’ di Sergi Belbel, drammaturgo spagnolo, tra le figure emergenti più importanti del teatro iberico. Grazie a ‘Il sangue’ di Brunilde Maffucci ora è possibile conoscerlo anche in Italia. Inquisitorio, crudo, razionale e pieno di spunti di idealismo filosofico. Da vedere.
Di: Sergi Belbel
Traduzione di Valentina Martino Ghiglia
Regia: di Brunilde Maffucci
Assistente alla regia: Giuliano Molle
Con: Sara Morelli, Francesca De Felice, Sebina Montagno, Demian Aprea, Dino Galdì, Giulia Delicato, Lavinia Origoni
(Gaetano Massimo Macrì)

Deo gratias
Un viaggio in Salento, le suggestioni di una terra con delle tradizioni e dei sapori antichissimi. L’incontro con uomo che è in grado di metterti in ginocchio con uno sguardo; una bellezza potente e perfetta, che però nasconde un segreto tanto terribile da poter cambiare la vita del protagonista, e far riaffiorare alla mente una terribile verità nascosta da anni…
Deo gratias è uno spettacolo basato sul racconto “L’Angelo” di Francesco Botti, che è anche protagonista dello spettacolo con Leonardo Lambruschini, contenuto nel volume Decameron 2013 (Felici Editore). Parole e danza si alternano sulla scena, descrivendo la discesa nella follia del protagonista, stregato dalla figura di questo “Angelo” che balla alla fiera del paese con una bellezza e una grazia da lasciare senza parole chiunque lo guardi. Un Angelo che però nasconde un segreto, una verità così terribile da scontrarsi con tanta bellezza. O forse no: forse proprio nella bellezza così perfetta si nascondono dei demoni perversi; potrebbero essere cacciati con il ballo, come il veleno della tarantola era cacciato fuori dal corpo ballando ossessivamente fino allo stremo delle forze. La taranta, quel ballo così magnetico, non può salvare Angelo. Non può salvare il protagonista. Due persone così lontane, eppure straordinariamente vicine nella loro follia. Un esperimento coraggioso, una rappresentazione che cerca di sfuggire alle regole tradizionali della danza e del teatro. Ogni ballo, ogni movimento, a volte concitato a volte lieve come una carezza, ci consente di entrare nella mente distorta dei due protagonisti, facce opposte di una stessa realtà, in un crescendo ben orchestrato che terminerà nella rivelazione finale. Coraggioso.
Spazio Seme Arezzo
Di: Francesco Botti
Regia: Francesco Botti e Leonardo Lambruschini
Con: Francesco Botti, Leonardo Lambruschini
(Giorgio Morino)

Army in me
Una ragazza all’apparenza ingenua, tra un sorriso e un gridolino di rabbia, racconta la sua quotidianità. Gioie e dispiaceri di una giovane come ce ne sono tante. Dietro un’apparente normalità, fatta anche di situazioni difficili da ‘digerire’, si può celare una vendetta messa in atto proprio da chi meno te lo aspetti. E così, dopo un inizio di vita ‘vera’ vissuta tra i primi cortei di protesta, segue l’assunzione in una fabbrica che la risucchia nella ‘mediocrità’ della vita di operaia. Nel lento e uguale scorrere delle giornate, la protagonista sembra aver individuato una sua dimensione. Quell’ identificarsi tra esseri ‘medi’, membri di una grande famiglia, le regala soddisfazione. Il dubbio che si celi dell’ironia, però, è forte. Come se in realtà sotto covasse ancora dei sentimenti contrapposti, una rabbia rimasta inesplosa dai tempi dei cortei di protesta. Il vaso di Pandora si apre quando la fabbrica chiude e lei, come gli altri membri della ‘famiglia’ perdono il lavoro. Il gesto che compie nel finale di incendiare il proprio corpo cospargendolo di benzina dinnanzi ai capi, è l’estremo atto disperato con cui manda in fumo i propri legittimi sogni. Un futuro che non riesce a vedere perché qualcun altro ha preso delle decisioni per lei. Una storia di denuncia forte, di perdita di lavoro, disperazione sociale portata al limite. Una riflessione di come certe ‘macro’ dinamiche possano insinuarsi nelle ‘micro’ storie quotidiane, disfacendole. E di come, all’interno dell’apparente normalità, se portata allo sconquasso, possano ergersi degli ‘eroi’ del nostro tempo di crisi. Eroi? O miserabili? “La felicità è come un filo sottilissimo. Basta un niente e ti ritrovi col culo per terra”. Al pubblico l’ardua sentenza. Attuale, sottilmente ironico, una denuncia di un degrado che passa spesso inosservato, pur se conosciuto alle cronache.
Una produzione BailàmmeTeatro
Di: Simone Ranucci
Regia: Simone Ranucci e Virginia Vassura
Con: Virginia Vassura
(Gaetano Massimo Macrì)

Cielo azzurro fango
La compagnia modenese ‘Ludovico Van Teatro’ propone un intimistico lavoro di ‘autoanalisi sperimentale’ ispirato al miglior teatro di Samuel Beckett. La rappresentazione è complessa e muove i suoi primi passi dalla perdita di se stessi, del proprio passato, dei luoghi e delle persone amate a causa di una sopraggiunta malattia, che conduce il protagonista, lentamente ma inesorabilmente, verso una morte vissuta con dolorosa consapevolezza. Attraverso un complesso sistema di segni, basato sul conflitto tra l’uomo e il suo stesso corpo, che giunge fino al punto estremo di non riconoscersi, Adriano Montorsi rivolge una critica indiretta alla società, la quale non accetta e addirittura rifiuta chi è malato, al solo fine di fuggire vigliaccamente dal dolore. La società non ha gli strumenti per affrontare e capire il lento processo di destrutturazione, fisica e interiore, che avviene in una persona destinata ad andare incontro alla morte, per ottusità mentale e sterilità morale, idolatrando il falso idolo di una vita basata sui piaceri materiali, secondo una concezione dell’esistenza che in realtà rappresenta solamente una vigliacca ed egoistica fuga dalla realtà. È solamente il corpo a morire nel fango, mentre lo spirito combatte la sua ultima battaglia fino all’ultimo, affrontando la fine con irriducibile coraggio e dignità. L’uomo può avere il coraggio di non arrendersi, di essere se stesso sino all’ultimo, continuando a osservare il cielo in quanto unico ed esclusivo punto di riferimento poetico di osservazione della nostra miserabile esistenza. Un cielo azzurro che completa la grande sintesi intellettuale e morale ‘beckettiana’, in cui la magnifica coerenza dell’uomo diviene un tramite di collegamento tra spazio e tempo, tra finito e infinito, tra spirito e materia, tra arte e vita stessa, in un unico e immenso cielo color ‘azzurro fango’. Per eletti.
Di e con: Adriano Montorsi
Supervisione scenica: Daniele Paganelli
Produzione: Ludovico Van Teatro
(Vittorio Lussana)

Perché non ci lasciano giocare con la terra?
Il grande pubblico non conosce probabilmente la storia di Goliarda Sapienza, attrice e scrittrice del secolo scorso. Dunque, un merito indiscutibile di questo spettacolo è l'aver portato sulla scena un po' della vita di quell'artista, mescolandola a quella di Modesta, una delle sue stesse protagoniste del romanzo autobiografico "L'arte della gioia". Le voci di Modesta e Goliarda si intrecciano, quasi a confondersi, raccontando di una vita che parte dalla terra, da una Sicilia rurale dei primi del '900. Dalla purezza dell'infanzia alla scoperta dell'eros prima, della sessualità più forte e marcata poi, si delinea la figura di una donna smaccatamente libera e anticonformista. Una donna che incarna uno spirito indomito, ma che continuamente deve fare i conti con le pulsioni della carne, per dominarle, oppure lasciandosi trasportare, nel bene o nel male. Un'ottima recitazione regala al pubblico momenti di grande intensità. Davvero un' occasione per scoprire quale narratrice dotata di fascino sia stata Goliarda e come, dalla sua vita intensa, siano nate nelle pagine dei suoi romanzi eroine legate a un piacere del corpo che "comincia sempre con un dolore". Esempio di teatro off, con accenti simbolisti e sfumature neorealiste. Un consiglio: meglio 'entrare' nel testo da subito. Intenso.
Arcadia delle 18 lune
Di: Silvia Manciati
Regia:  Alessia Barbieri Pomposelli
Con: Viola Sartoretto, Silvia Manciati, Davide Maria Marucci, Arianna Paravani
(Gaetano Massimo Macrì)


La gabbia di carne
La perfezione. L’idea che per arrivare alla piena soddisfazione, nella vita e con se stessi, manchi sempre qualcosa. Un aiuto esterno, uno sconvolgimento totale e radicale di noi stessi che possa essere un punto di partenza per una nuova vita. Una speranza puntualmente disattesa, che si infrange contro il muro della realtà e affoga nel rimpianto. La gabbia di carne racconta la storia di una ragazza che aveva tutto, ma che desiderava un seno perfetto, come quello della sua migliore amica. Quel desiderio sarà l’inizio di un vero e proprio calvario, fatto di operazioni continue e dipendenza dall’eroina che la faranno scivolare in un limbo di insoddisfazione e rimpianti: la perfezione già esisteva, lei stessa era perfetta, innocente e pura; desiderare qualcosa di diverso l’ha trasformata in un vuoto simulacro della persona che avrebbe potuto essere. Poteva essere tutto, una farfalla innocente. Adesso di lei esiste solo un buco vuoto e pieno di veleno. Un monologo che cerca di stimolare la riflessione sulla futilità delle apparenze e l’importanza di essere sempre se stessi; di non lasciarsi condizionare da uno standard che non ci appartiene. Non è un caso che l’incipit della narrazione sia il soliloquio “Essere o non essere” dell’Amleto: la vita della protagonista, sconvolta e straziata dai continui abusi sul proprio corpo, non può essere più vita. È non essere. Lacerante.
Regia e drammaturgia: Luca Gaeta
Con: Valentina Ghetti
(Giorgio Morino)

Io sono la pelle
Cos’è, davvero, l’essere umano? Di fatto, l’insieme di tante componenti, di plurime sfaccettature caratteriali, di diverse disposizioni d’animo. Quelle che in ‘gergo tecnico’ vengono definite ‘facoltà conoscitive, intellettive e razionali’. E che agiscono sulla personalità dell’individuo fino a determinarne il comportamento di adattamento, il proprio modo di reagire/interagire con l'ambiente. Tra queste emergono la forza, la fragilità e la ragione, alla quale è affidato l’importante compito di coordinare il tutto. Mentre l’essere umano non è altro che la pelle, l’ “involucro” atto a racchiudere le varie parti dell’Io, un’astrazione concettuale che include all’interno miliardi di variabili. Ma cosa accade quando una delle componenti prende il sopravvento sulle altre? Ce lo racconta “Io sono la pelle”, spettacolo teatrale scritto e diretto da Federica Fragapane con Federica Fragapane, Alice Gobbo, Alessia Rollone, Elisa Viola, presentato lo scorso 23 giugno al Roma Fringe Festival 2014. ‘Io sono la pelle’ costituisce una grande allegoria visiva della psiche umana. È la storia di un momento. Di una particolare condizione. Di un cambiamento. Di un disagio. Per risolvere il quale quattro figure si incontrano, dialogano e si mettono a nudo. Nel tentativo di sanare il senso di malessere che attanaglia l’individuo, di cui le singole sfaccettature sono, contemporaneamente, una parte e il “tutto”. E per cercare di comprendere e comprendersi. Le quattro figure si parlano, si urlano contro, procedono a tentoni. E se, inizialmente, i ruoli sembrano chiari, piano piano, durante il confronto, tutto sembra capovolgersi. Ne nasce un percorso labirintico, che alla fine trova la sua, naturale, soluzione nella conciliazione e in un nuovo, raggiunto, equilibrio. La giovanissima Federica Fragapane è autrice di un testo “fresco”, tanto originale e complesso sulla carta, quanto intenso, avvincente e commovente nella messa in scena. Un testo caratterizzato da dialoghi serrati, coinvolgenti, brillanti e mai banali. Lo spettacolo è proposto, con ottimi risultati, da quattro giovanissime attrici (Alice Gobbo, Alessia Rollone, Elisa Viola e Federica Fragapane) che, nonostante l’età, hanno davvero molto da dire. Vivamente consigliato.
Scritto e diretto da: Federica Fragapane
Con: Federica Fragapane, Alice Gobbo, Alessia Rollone, Elisa Viola
(Serena Di Giovanni)

I tre terrieri: la politica terra terra
Lo spettacolo è una riduzione teatrale della web serie omonima (www.youtube.com/user/TreTerrieri) e nato ancor prima come corto, vincitore del concorso “Autori nel cassetto, attori sul comò 2013 “. Una simpatica commedia la cui trama è cucita col filo dell'ironia. La politica 'terra terra', altro non è che il sunto di quello che essa rappresenta nell'immaginario collettivo. In un secondo piano di lettura, tramite il ricorso di figure allegoriche, le risa si trasformano in una riflessione sulla politica attuale. Ne viene fuori un quadro che sottolinea i luoghi comuni su chi ci governa. Sintesi e antitesi del potere. É così che i tre protagonisti, rimasti orfani, devono occuparsi della loro fattoria. Ognuno ha un'idea (politica) ben distinta. Vater, il vero contadino, il sinistroide, ambiguo con crisi di sdoppiamento della personalità; Doppiopetto, l'affarista di destra (chiara l'ispirazione a Berlusconi) e Taleggio, quello più studioso, tecnologico che potremmo 'etichettare' sotto il vessillo del movimento 5 stelle (di cui ricorda nel nome, Taleggio, quello del fondatore, Casaleggio). La lingua di questi 'politici' travestiti da contadini è un miscuglio di dialetti. Elemento (voluto) che rende a volte incomprensibile alcune espressioni. Apprezzabile, però, l'intento di rappresentare in questo modo un certo 'politichese', il linguaggio dei politici, effettivamente distante dalla realtà. La storia fila via comunque, allo spettatore resta in bocca una surreale consapevolezza che, ‘scherzi a parte’, la realtà non sia molto differente da quella che gli attori hanno semplificato nel microcosmo della ‘orwelliana’ fattoria. Molto divertente, grottesco e a brevi tratti solo intuibile, proprio come certa nostra classe dirigente.
Scritto diretto e interpretato da: Angelo Sateriale , Roberto Di Marco e Fulvio Maura
(Gaetano Massimo Macrì)

Ultima fermata: chi è di scena?
“A teatro non ci sono soldati”. Così insegna la mamma di due ragazzi autistici napoletani deportati verso i campi di concentramento nazisti per il loro ‘status’ di “razza inferiore”, secondo quanto teorizzato dalla discutibile ideologia di Adolf Hitler e del suo ‘Mein Kampf’. Ma durante il viaggio, i due giovani e la loro madre si dimostrato tutt’altro che persone di serie ‘B’, bensì degli artisti autentici, capaci di esorcizzare i demoni della guerra, della paura e della violenza proprio grazie alla grande forza espressiva del teatro. Il viaggio verso la Germania su un vagone merci diviene, dunque, un improvvisato palcoscenico in cui vengono presentati brani ed episodi della più alta commedia napoletana, da De Filippo e Viviani, a dimostrazione della superiorità morale della cultura e della leggerezza ‘poetica’ del teatro rispetto alle ideologie totalitarie più barbariche, deterministe e criminali. Buono.
(Vittorio Lussana)

Hole
Pienamente inserito nel solco più trasgressivo del teatro ‘Fringe style’, questo spettacolo offre una panoramica sul mondo dei ‘Glory hole’, locali in cui si pratica sesso orale garantendo l’anonimato delle persone. Il protagonista vi si reca nella speranza di recuperare il rapporto amoroso col proprio compagno, frequentatore di ambienti ‘hard’. Scoprirà a sue spese che non si può mai sapere cosa può accadere al di là di un buco situato su una parete. L’idea è originale e coraggiosa, poiché apre uno sguardo su un sottobosco di personaggi e mondi notturni praticamente sconosciuti alla platea italiana, la quale intorno alle tematiche inerenti la libertà sessuale, viene mantenuto nei consueti recinti dell’ipocrisia cattolica. L’approccio proposto della compagnia Ariete è, tutto sommato, sensibile e ‘pulito’, funzionale a far comprendere come la libertà di orientamento sessuale non sia affatto in conflitto con la profondità e la sincerità dei sentimenti tra due persone che si vogliono bene. Non si tratta di una stravagante dissociazione ‘gay’ tra sesso esercitato per puro divertimento ed erotismo praticato con amore autentico, secondo i canoni tradizionali imposti dal perbenismo moralistico della società. Al contrario, la rappresentazione offre un interessante punto di vista d’avanguardia - almeno per l’Italia, che certe cose tende a nasconderle sotto al ‘tappeto’… - sul tema di un erotismo più libero e ‘praticabile’, poiché nel mondo esistono deviazioni, egoismi e forme di sopraffazione e possesso tra le persone capaci di arrivare sino alla violenza psicologica e alla tortura fisica. Derive moralmente assai peggiori rispetto a una sessualità più libera e ‘sana’, affrancata da quelle convenzioni repressive che continuano a considerarla come un’attività condannabile e ‘sporca’. Lo spettacolo si chiude piuttosto repentinamente con un finale forse troppo ‘asciutto’, che interrompe all’improvviso il buon ritmo della messa in scena. Migliorabile.
(Vittorio Lussana)

Groppi d’amore nella scuraglia
Un’equilibrata, seppur sempre in maniera bizzarra, miscela di riso e amaro sono gli elementi di cui si compone lo spettacolo. Una rappresentazione volutamente scarna di elementi in scena, affinché l’attenzione venga completamente rivolta ai numerosi riferimenti narrativi, che il protagonista rivelerà progressivamente nel corso della commedia. E che coincidono con un suo stesso graduale risveglio interiore, sollecitato da una presa di coscienza, che lo ‘costringe’ a fare ‘mea culpa’ e che lo condurrà, attraverso un percorso di sofferenza-redenzione, a riconoscere gli errori commessi e a essere meno superficiale nei comportamenti futuri. Una storia che non manca di offrire ‘spunti’ e motivi di riflessione anche allo spettatore. Sul palco, un convincente Silvio Barbiero – nei panni di Scatorchio, un uomo ‘di paese’, semplice e dai modi rozzi – recita in una lingua inesistente. Un linguaggio inventato, calcato sull’impronta dei dialetti del centro-sud, che ha i ‘sapori’ e i suoni di una ballata. Nel suo monologo, Scatorchio racconta della sua passione per Sirocchia, la quale, piuttosto che incarnare l’ideale di donna amata, è da lui inconsapevolmente considerata alla stregua di ‘un pezzo di carne’. Ne è la dimostrazione il fatto che riesce a fare l’amore con lei soltanto al buio, nell’oscurità (il ‘groppo d’amore nella scuraglia’), perché la considera brutta. Ma le cose non restano immutate per sempre. E la situazione cambia radicalmente quando il popoloso paese bucolico si trasforma in una disabitata discarica a cielo aperto. Adesso, nei campi di grano, al posto dei fili dorati e dell’allegro svolazzare delle rondini, si vedono montagne di immondizia. E un tanfo putrido e malsano si è sostituito alla brezza profumata. Sirocchia non vuol più saperne di Scatorchio, in qualche modo ‘complice’ di quella situazione. E a nulla servono i tentativi che l’uomo sofferente d’amore prova per riconquistare la sua amata. In un susseguirsi di eventi grotteschi e surreali, tra cumuli di spazzatura e una desolazione paesaggistica che, in qualche modo, riflette e corrisponde alla sofferenza che gli attanaglia l’animo, l’uomo, inaspettatamente, trova un fiore. Una donna bellissima lo custodisce: le ferite d’amore si rimarginano. E una nuova possibilità si affaccia all’orizzonte. Surreale.
Produzione: Evoé! Teatro
Regia:  Marco Caldiron
Di: Tiziano Scarpa
Con: Silvio Barbiero
Scene: Paolo Bandiera
Costumi:  Anna Cavaliere
Musiche di Sergio Marchesini e Debora Petrina
(Carla De Leo)

Dammi la tua fine
Si tratta del tentativo di attualizzare Charles Bukowski riproponendolo in ‘salsa’ moderna, al fine di immergerlo in una critica a un mondo del precariato giovanile che fagocita l’universo delle nuove generazioni, trasformando ogni speranza di realizzazione individuale, professionale o artistica in vite ‘maledette’, costrette e muoversi sul palcoscenico di una società che di poesia, arte e cultura non sa più cosa farsene. Lo spunto è interessante, il risultato un po’ meno: la recitazione dei due protagonisti, interpretati da Elisa Campoverde e Marco Ottolini, appare scarsamente ‘diaframmatica’, con qualche limite di ‘dizione’, non sempre incisiva. Graziosi i ‘siparietti’ della Campoverde dedicati all’erotismo telefonico, significativamente inseriti al fine di rappresentare quelle tendenze ‘onanistiche’ della società odierna che, oltre a svuotare la sessualità di ogni funzione di ‘chiave di avvio’ dei rapporti umani, costringono i giovani a isolarsi ulteriormente, dirigendoli verso la sterilità morale, l’incomunicabilità e forme di consumismo fini a se stesse, perfino in campo erotico. Qualche buona idea, insomma, ci sarebbe. Insieme a una corretta e ben individuabile critica nei confronti di una società ‘mordi e fuggi’, che non lascia ai giovani alcuna effettiva progettualità di vita, nessuna possibilità di crescita concreta. Tuttavia, l’impressione finale rimane quella di un lavoro da rivedere e ampliare ulteriormente.
(Vittorio Lussana)

Bellissima: omaggio ad Anna Magnani
Un ‘tributo’ alla più grande ed ‘esplosiva’ delle nostre attrici, Anna Magnani, carico di nostalgia e buone intenzioni. Lo spettacolo sarebbe anche ben costruito, sotto il profilo registico, nel suo tentativo di ripercorrere i passaggi fondamentali del cammino artistico e di vita dell’attrice inframezzandolo con le toccanti coreografie e gli eleganti passi di danza dei ballerini Daniele Toti, Karen Fantasia e Silvia Pinna. Quel che un poco delude, invece, è l’interpretazione di Simona Lacapruccia, piuttosto ‘monocorde’, lontana anni luce dagli indimenticabili ‘sbalzi’ di passionalità della nostra ‘Nannarella’ nazionale. Certamente, non è affatto semplice riuscire a raggiungere le altissime vette di umanità e generosità artistica di un’attrice che, con il suo urlo indimenticabile in ‘Roma città aperta’, seppe ‘squarciare’ il velo che nascondeva agli occhi del mondo gli orrori della guerra, le storiche ingiustizie sociali, le ataviche sofferenze e umiliazioni dei ceti più deboli. Una consapevolezza che la Magnani possedeva profondamente e che riusciva a trasmettere con infinito dolore. Tuttavia, qualche sforzo di ‘avvicinamento’ in più sarebbe risultato assai utile a far rivivere, almeno in parte, l’immenso coraggio di una donna e di un’attrice che ha lasciato dietro di sé un vuoto incolmabile, assai poco legato a un certo ‘divismo medio’ di marca ‘hollywoodiana’ e più in coerenza con quella funzione artistica di cui la Magnani si fece nobilmente carico, nel corso della sua carriera: quello di dar voce e dignità alla parte più povera e sfortunata della società. Poco sopra la sufficienza.
(Vittorio Lussana)

No! Una giostra sui limiti dei limiti imposti
Quanti 'no' pervadono la quotidianità? Sette ragazzi in tuta si dimenano sul palco, illustrando i divieti che limitano la nostra vita. Ma esiste un limite al limite stesso? Gli attori si muovono e si dimenano creando una giostra di legacci e impacci, per evidenziare un problema che spesso sottovalutiamo. Al di là del sorriso che suscitano, oltre quei gesti e quelle parole, passa, dunque, una riflessione seria e motivata. ‘Non urlare’, ‘non litigare’, ‘non controbattere’, ‘non sporcare’, ‘non giudicare’, ‘non vestirti male’, ‘non trattarmi male’, ‘non’... L'elenco dei ‘no’ è lungo, come quello dei divieti impensabili vigenti in molti Paesi. In Francia non ci si bacia sui treni. In Florida è vietato addormentarsi sotto il casco del parrucchiere. In Alaska è vietato gettare un alce vivo da un aereo in corsa. Una lista di assurdità sciorinata come il dettaglio della spesa. Ma nel supermarket dell’inverosimile conviene portare a casa tutti quei no? Quale utilità potrebbero derivarne? A volte sarebbe meglio saltare la corda, proprio come fanno gli attori in scena, prima che, per la stessa, si finisca con l'essere fustigati. L'antidoto? Prendersi cura. Queste le parole magiche contro ogni legaccio. Divertente. Un modo per sorridere dei limiti imposti, tanto assurdi, quanto inutili.
Collettivo Controcanto
Regia: di Clara Sancricca
Con: Federico Cianciaruso, Fabio De Stefano, Riccardo Finocchio, Andrea Mammarella,  Verdiana Margani, Emanuele Pilonero, Giorgio Stefanori
Aiuto regia: Cristiano Di Nicola
Musiche originali: Giorgio Stefanori
(Gaetano Massimo Macrì)

I leoni non si abbracciano
Una riflessione intensa su come possa essere vissuto l’avvicinarsi consapevole della morte. A quell’appuntamento non c’è carattere umano in grado di rimanere costante. Il forte e il debole non è scontato che si comportino di conseguenza. Quando l’ultima ora si avvicina, non c’è spazio e tempo per una spicciola filosofia dell’aut aut, o bianco o nero, o forte o debole. Gli uomini hanno sempre in se stessi una dose di entrambi quegli aspetti. Per questo, nel delirio che sale con l’avvicinarsi del loro ultimo atto, i due protagonisti si scambiano i ruoli, fino a giungere all’abbraccio finale. I leoni non si abbracciano, ma gli uomini veri sì. Solo in quell’abbraccio, il debole trova la forza che gli è sempre mancata e il forte ammette le proprie umane debolezze. Gli attori recitano bene, alzando il climax fino al raggiungimento del ‘punto di svolta’ in maniera essenziale. Drammaturgicamente intenso.
Di: Stella Saccà
Regia: Paolo Floris e Daniele Mariani
Con: Daniele Mariani, Paolo Floris e Fabrizio Colica
(Gaetano Massimo Macrì)

Improv comedy 2.0
“Il primo spettacolo in cui vi si chiede di accendere il cellulare”. Dopo il successo di Improbook, spettacolo presentato l’anno scorso, i Trama Libera Tutti tornano al Fringe con le loro improvvisazioni comiche ed estemporanee. Il tema sviluppato è quello della tecnologia. Tramite un cellulare e collegandosi alla pagina Facebook del gruppo (Trama Libera Tutti) potrete condividere con gli artisti sul palco foto e frasi, che poi saranno usate per creare scene comiche improvvisate. Ogni scena ha un suo tempo di sviluppo che viene deciso di volta in volta e che può oscillare da uno a sei minuti. Nonostante la grande simpatia dei protagonisti, che riescono a tenere bene la scena instaurando un rapporto diretto con il pubblico, lo spettacolo fatica a decollare: ciò è dovuto molto probabilmente alla natura stessa del progetto che, facendo di internet e della ricerca on-line il suo punto cardine, è soggetto a ritardi e periodi morti tra uno sketch e l’altro.Anche il timer risulta essere molto limitante, in quanto a volte capita che una scena venga interrotta proprio mentre sembra avviarsi verso una conclusione, lasciando lo spettatore in sospeso. Come detto la simpatia e la capacità comiche e di intrattenimento dei protagonisti è innegabile (molto divertente è stata l’improvvisazione di un improbabile triangolo d’amore sviluppato dalla foto di uno stendino), ma probabilmente alcuni meccanismi tecnici sono ancora da rodare. Divertente.
Di: Trama Libera Tutti
Con: Pierpaolo Buzza, Mauro Colapicchioni, Federica Forbicioni, Marco Masi
(Giorgio Morino)

Dov’è Desdemona?
Il regista Michele Galasso è riuscito nell’intento di portare in scena una rivisitazione di Otello e Desdemona in una chiave nuova, non banale, in grado soprattutto di tenere viva l’attenzione del pubblico. Merito sicuramente da condividere con i due bravi attori, Simone Bobini e Eugenio Coppola. La storia è arcinota. Otello ha ucciso Desdemona, credendo di essere stato tradito. Quando scopre l’inganno ordito da parte del ‘fidato’ Iago, si suicida. Così almeno la tragedia immortalata da Shakespeare. In questo caso, invece, si prendono un po’ le distanze dalla trama shakespeariana, per presentare al pubblico un Otello eterno bambino, che ha smarrito se stesso e, pare, i ricordi della propria memoria. Ha ammazzato Desdemona per gelosia ma non lo rammenta. Il non ricordo, oltre che significare un riconoscimento di una mancanza di responsabilità, è un escamotage tramite cui sorridere e riflettere della sua condizione. Jago è sempre colui che tesse la trama per ingabbiare il padrone. Ingabbiarlo significa sbattergli in faccia la realtà, risvegliarlo da quella condizione di uomo-bambino che ogni giorno accudisce come una balia. Alla fine tutto viene a galla, Otello riscopre i panni dell’amato tradito ma, dopo l’uccisione di Desdemona, non giunge al suicidio. Il ritorno, invece, al suo mondo fanciullesco, ai suoi giochi, è quel finale ‘diverso’ che, pur stravolgendo l’opera, non dispiace affatto. Ottima recitazione, grande uso dello spazio con una scenografia che rievoca il medioevo e l’esotico. Per gli intenditori, in alcuni casi si sfiora il teatro dell’assurdo. La dimostrazione di come un classico possa essere sapientemente rivisitato senza annoiare. Bravi.
Teatro delle Viti – iNuovi AssociazioneCulturale
Di; Antonio Careddu
Regia: Michele Galasso
Con: Simone Bobini, Eugenio Coppola
(Gaetano Massimo Macrì)

Migrazioni
Serena Telesca e Caterina Bencini ci raccontano una storia ‘animata’ di due donne costrette a fuggire dalla propria terra per affrontare un difficile viaggio migratorio. Dunque, pur non parlando quasi mai, mimicamente le due artiste italiane, che oggi vivono e si esibiscono in Belgio, sono bravissime a descrivere le difficilissime condizioni di vita che costringono le due protagoniste a decidere di partire, la difficoltà di un viaggio estenuante e carico di pericoli, il pesante trascinamento delle due casse che, in pratica, contengono tutto il loro mondo: il passato e la loro stessa identità. La scenografia è dunque ‘essenzialista’, come nella migliore tradizione ‘Fringe’, ma le due attrici riescono a ‘giocare’ magnificamente con i pochi elementi di scena, descrivendo con maestrìa e chiarezza artistica la ‘tragicomica’ vicenda delle due migranti. Le casse diventano, a seconda dei casi, un punto di appoggio per trovare riposo durante il viaggio, una barricata difensiva durante le liti, un intimo rifugio nei momenti di paura e di disperazione, fino a trasformarsi nell’imbarcazione che le conduce verso l’agognata ‘terra promessa’. Uno spettacolo al contempo significativo e gradevole.
(Vittorio Lussana)

Déjà vu
Si tratta di una rappresentazione interessante, niente affatto banale, che propone due stravaganti personaggi che analizzano dall’esterno la vita di un uomo. Una vita metodica e alienata, priva di reali opportunità di elevazione, completamente immersa nella noia. Una visione dall’alto che, tuttavia, si diverte a riprodurre determinati passaggi di vita dell’individuo osservato, analizzato e ‘tipizzato’, anche attraverso un intelligente teatro dei burattini, ricorrendo al sofisticato meccanismo culturale di produrre uno spettacolo nello spettacolo. Un lavoro a tratti spiritoso e ironico, da giudicare con una certa attenzione, in quanto intessuto di idee ed elementi niente affatto disistimabili. Curioso e intrigante.
(Vittorio Lussana)

Come del resto alla fine di un viaggio
Eccellente monologo di Alessio Zambardi, tutto incentrato sulla filosofia del viaggio come ricerca della felicità. Gli spunti critici sembrano paradossali, ma fino a un certo punto: anche Omero, DostoevskiJ, Vonnegut e la stessa Bibbia possono essere rivisitati in base a una vera cultura del dubbio, in grado di dare nuove interpretazioni e innovativi sguardi sulla grande cultura per scoprire che essa ci impartisce sempre lezioni fondamentali sull’intera Storia dell’uomo, dalla Genesi al nazismo. Lo stimolo ci è apparso essenziale e intelligente, persino importante nella sua finalità di riavvicinare il grande pubblico a un mondo, quello della grande letteratura, mantenuto pericolosamente ‘a distanza’ da una cultura ‘media’, in particolar modo televisiva, che stenta a comprendere come si possa riflettere, ridere e divertirsi anche con i grandi testi, persino con le opere classiche. La filosofia del viaggio, dicevamo: molto interessante, per esempio, l’interpretazione della vicenda di Adamo ed Eva, giustamente presa come simbolo di significati intrinseci da interpretare in una chiave ‘antidogmatica’, cioè da non prendere ‘alla lettera’. Dunque, il serpente che offre ad Adamo ed Eva il frutto del peccato diviene un suggerimento universale diretto all’intera umanità, affinché intraprenda il proprio cammino sul ‘quadrante’ della Storia. Certamente, il carattere satirico del monologhista assume i connotati di una rilettura ingegnosa. Tuttavia, essa non è poi così lontana da quell’interpretazione culturale che ha tradizionalmente giudicato l’episodio biblico come la scoperta della ‘curiositas’ da parte dell’uomo, al di là degli anatemi divini con cui esso si conclude. La religione perde, insomma, i suoi connotati ‘mistico-teologici’ per rivestirsi di un’essenzialità filosofica niente affatto di poco conto. Così come assai intelligente è la riflessione sul coraggio di dire di ‘No’, anche quando il singolo individuo si ritrova in condizioni di assoluta minoranza all’interno di una società civile che, spesso e volentieri, si lascia coinvolgere da terrificanti ideologie del momento o ‘alla moda’. Insomma, un ottimo lavoro: intelligente, divertente, ‘di livello’.
(Vittorio Lussana)

Zitti zitti
Le parole possono essere superflue nel comunicare qualcosa come un emozione, uno stato d’animo o un semplice pensiero. La gestualità e le azioni sono spesso in grado di comunicare molto più in profondità di tanti discorsi.Con questo spirito la compagnia teatrale Actores Alidos porta in scena una rappresentazione muta della vita quotidiana. Zitti zitti è uno spettacolo che si articola in un susseguirsi di scene di straordinaria quotidianità, in cui chiunque può riconoscersi, per raccontare un viaggio, l’esperienza di una vita. Personaggio centrale della rappresentazione è un ‘creatore’, una figura eccentrica che agisce sulla scena costruendo le varie situazioni che poi saranno proposte sul palco: si parte dal matrimonio e alla costruzione di una famiglia, passando per l’infanzia e i capricci ad essa legati, l’adolescenza e il rapporto a volte morboso con la tecnologia, il mondo del lavoro, fino ad arrivare alla vecchiaia e alla morte.Sempre in bilico tra rappresentazione concreta della realtà e interpretazione grottesca della vita, lo spettacolo procede in un silenzio dei personaggi che racconta molto più di quanto potrebbero fare mille parole. L’’ironia, la serietà e il sentimento sono sapientemente miscelati in ogni situazione. Gli attori, recitando sempre con maschere bianche senza labbra, riescono a trasmettere le emozioni dei loro personaggi con un semplice gesto o movimento del corpo, richiamando in parte il teatro claunesco e il cinema muto di Chaplin. La maschera è uno strumento importantissimo perché, paradossalmente, consente allo spettatore di immedesimarsi completamente nel personaggio, senza bisogno che venga detto nulla.
Zitti zitti è una splendida rappresentazione della nostra vita di tutti i giorni, raccontata con un innocenza e una sincerità immediata, capace di fare breccia nel cuore di chiunque e a qualunque età. Originale e suggestivo.
Scritto e diretto da: Valeria Pilia
Con: Valeria Pilia, Manuela Sanna, Manuela Ragusa, Roberta Locci
(Giorgio Morino)

E’ troppo amara sta terra duci: commedia noir
Due donne. Stesse origini (sicule), stesso viaggio. Eppure, così diverse nel descrivere la loro terra di appartenenza, così distanti nel percepirne i valori. Almeno apparentemente. “Troppo amara sta terra duci: commedia noir” racconta, in chiave ironica, il conflitto dicotomico che esiste nell’amare e, allo stesso tempo, odiare la propria terra di appartenenza. Un conflitto che per le due protagoniste, Mariagrazia e Isabella, diviene esistenziale. Le due donne si incontrano sul pullman Roma/Sicilia e cominciano a conversare. Mariagrazia, così fortemente legata alla Sicilia, ne esprime con veemenza tutto l’amore possibile, mentre Isabella la sua (apparente) insofferenza. Ma un viaggio, si sa, seppur breve comporta sempre un’evoluzione, un cambiamento. Che, in questo caso, è dettato dal confronto dialettico tra le due protagoniste e dagli eventi che si susseguono durante il loro percorso. Katia Vitale, autrice e regista dello spettacolo, e Chiara Galano portano in scena una commedia tutta giocata sul dualismo amore/odio verso i caratteri della cosiddetta “sicilianità”, indagati attraverso il confronto verbale tra le due attrici. E la Sicilia, isola “duci” e “amara”, terra vulnerabile e contraddittoria, diventa l’emblema di tale paradosso. Un’idea interessante, anche se a tratti banalizzata dall’inconsistenza dei dialoghi e da una comicità intermittente.
Di: Katia Vitale
Regia: Katia Vitale
Con: Katia Vitale, Chiara Galano
(Serena Di Giovanni)

Il segreto di Pulcinella
È un Pulcinella un po’ pirandelliano quello che l’autore Luigi Passarelli e la regista Marianna Galloni hanno presentato all’edizione 2014 del Roma Fringe Festival. Interpretata da Luigi Salvucci e Gabriele Granito, la rappresentazione, in realtà un monologo prossimo ad una performance artistica, è tutta centrata sulle confessioni di un Pulcinella privato della sua maschera e della sua consueta verve. Solitamente sfrontato e chiacchierone, la nota maschera napoletana costituisce la personificazione comica dell’abbandono popolaresco a tutti gli istinti, un simbolo universale della napoletanità, di cui incarna l’esuberanza, il virtuosismo mimico e canoro, lo spirito ironico, canagliesco e generoso, la filosofia pratica e disincantata. In questo caso, tuttavia, abbiamo di fronte un personaggio malinconico e introspettivo. Il Pulcinella di Passarelli “non sa cantare e non sa suonare” e invita a riflettere sull’idea, classica e pirandelliana, di “maschera” quale rappresentazione del genere umano, e, più in generale, sulla reale identità dell’individuo. Lo spettacolo appare, pertanto, eccessivamente concettuoso, seppure ricco di significati, forse troppi e, a volte, inaccessibili.
Di: Luigi Passarelli
Regia: Marianna Galloni
Con: Luigi Salvucci, Gabriele Granito
(Serena Di Giovanni)

Zitto
Giovanni Giudice e Mariano Riccio portano in scena lo sgomento che proverà l’individuo meschino, bugiardo e ipocrita se, nella sua strada, si imbatterà con il ‘Male’ supremo. Una rappresentazione al limite del reale, che ha il merito di far riflettere sul come l’inconsapevolezza del ‘chi’ realmente ci troviamo di fronte, potrebbe essere determinante per la salvezza della nostra stessa vita. La storia di un ‘predicatore oscuro’, un punitore ‘ghiotto’ di peccatori che attira a sé le sue vittime. Le sue ‘armi’ sono affilate, convincenti e invisibili: come non fidarsi, infatti, della sua gentilezza e disponibilità. Come non credere al suo smagliante sorriso. Come non cedere alle sue suadenti parole e alle colte citazioni poetiche. E come non restare affascinati dalla sua educazione e dal suo innegabile perbenismo. Per non parlare dell’eccessivo altruismo con cui aiuta il giovane ragazzo romeno che, avvicinatosi solo per chiedere l’elemosina, viene colmato da una serie di inaspettate attenzioni da parte del ‘gentilissimo signore’. Ma si sa: il diavolo è tentatore. Ci lusinga e ci accarezza. E mentre pian piano ci abbandoniamo alla dolcezza delle sue promesse, sta già pregustando il momento in cui si impossesserà della nostra anima. Non è possibile mentirgli. Non è possibile sfuggirgli. La sola certezza è che dalle grinfie del male non c’è salvezza: si resterà per sempre suoi prigionieri. ‘Zitto’ è uno spettacolo che riesce realmente a suscitare ‘ansia’: si impossessa della scena attraverso la teatralità delle note di un pianoforte, che sembrano ‘uscir fuori’ direttamente dall’oltretomba. Mediante la voce ‘profonda’ e spettrale del terribile uomo misterioso. Così come molta parte in tal senso è affidata al ribaltamento dei ruoli che, improvvisamente, trasformano il cattivo (il romeno bugiardo che spera di ‘fregare’ il prossimo) in vittima. E la vittima (il gentilissimo signore) in carnefice crudele, spudorato e senza scrupoli. Nemmeno le loro morti metteranno ‘a tacere’ il male: esso torna e si ripresenta. Sempre. Buona la recitazione e l’interpretazione del testo da parte dei due attori in scena. Un horror inquietante, per gli amanti del genere.
Capsa Service
Di: Giovanni Giudice, Mariano Riccio, Daria Veronese
Regia: Daria Veronese
Con: Giovanni Giudice e Mariano Riccio
(Carla De Leo)

Ode to the owl
La nostra esistenza è un susseguirsi di piccoli eventi, speranze, sogni e gesti. Immaginate che ci sia qualcuno che non si accontenti di interpretare dei ‘semplici’ gesti quotidiani come ‘aridi’, sterili e casuali avvicendamenti di episodi. Immaginate una giovane donna che, cercando il significato recondito delle cose, ‘dietro’ ciascuno di essi ‘vede’ legami o parallelismi con l’interpretazione degli avvenimenti della propria esistenza. Se avete immaginato tutto questo, allora siete pronti a ‘calarvi’ nell’anima e nello spirito di ‘Ode to the Owl’, lo spettacolo della giovane artista Emma Allegretti, che ha deciso di raccontare attraverso il teatro una specialissima esperienza personale. Raccontare per dare verità ai fatti vissuti. I quali, altrimenti, rischierebbero di fluire nel surreale. Condividere per rendere reali emozioni e sentimenti. La scelta scenografica di disporre il pubblico sul palcoscenico, manifesta un desiderio di intimità. Vengono abbattute le barriere e le distanze: lo spettatore assiste ‘da dentro’. A terra gli elementi della narrazione: candele poste in semicerchio, una vasca e un secchiello pieni d’acqua, un cuscino di piume e un barattolo pieno di miele. Sembra un rituale sacro. E per l’artista, che sta per raccontarci il sensazionale incontro con un gufo e che nell’evolversi della rappresentazione svelerà di credere nei segnali del destino e di trarre forza dalle ‘scommesse’ con lui vinte, è proprio così. Ad uno ad uno, infatti, lava le mani a tutti i presenti. Per poi assumere le sembianze del volatile che le apparve in un momento di smarrimento della sua vita. Evento che interpretò come segnale positivo del destino. Nella conclusione, omaggiando gli spettatori di un pugno di piume, auspica a tutti di ‘trovare’ il proprio gufo. Un’esperienza di teatro sperimentale intensa e suggestiva e che, nonostante il diffuso alone di magia, poteva essere meglio curata. Soprattutto nel testo del monologo, troppo discorsivo, privo di drammaturgia. Surreale.
Di e con: Emma Allegretti
(Carla De Leo)

Memoria
Vagamente ispirato alle vicende dell’attore austro-ebreo Kurt Gerron, deportato a Terenzin dai nazisti e costretto a produrre un lungometraggio propagandistico teso a dimostrare la serenità della vita quotidiana nei campi di concentramento tedeschi. La ‘traccia’ viene tuttavia ‘italianizzata’ dalla compagnia stabile beneventana ‘Solot’ e, in questo caso, i tre artisti in scena - Rosario Giglio, Antonio Intorcia e Massimo Pagano - vengono costretti a produrre uno spettacolo di Natale al fine di far divertire gli ufficiali tedeschi che gestiscono, con piglio criminale, un campo di concentramento. Il risultato è un viaggio sul filo sottile dell’ironia, un percorso non semplicissimo da mettere in scena in un contesto così delicato. Lo spettacolo sembra avere successo e i tre italiani, deportati in quanto ‘traditori della Patria’ per l’aiuto da essi fornito, in Italia, a partigiani ed ebrei, sembrano riuscire nell’intento di soddisfare il perverso ‘palato’ dei nazisti. Ma proprio all’ultima ‘gag’ due dei tre italiani si tradiscono, lasciando emergere l’esigenza culturale del teatro di prendere posizione rispetto alla realtà che lo circonda, al fine di analizzarla con spirito critico. Alla fine della guerra, solamente uno di loro si sarà salvato dal delirio dei campi di concentramento. E non potrà mai più dimenticare, nel resto della sua vita, quel lugubre e surreale Natale del 1944 e i suoi eroici compagni di internamento, che proprio non ce l’hanno fatta a non immolarsi in nome della vita e della vera arte. Bello, a tratti toccante.
Una produzione: Solot Compagnia Stabile di Benevento
Testo e regia di Michelangelo Fetto
Con: Rosario Giglio, Antonio Intorcia e Massimo Pagano
(Vittorio Lussana)

In punta di piedi sul filo dell’ironia
È una rivisitazione del noto testo teatrale ‘Il signor Pirandello è desiderato al telefono’, mescolato a una celebrazione affettuosa di Antonio Tabucchi. Sul palco, Anita Giovannini e Fernando Pessoa si affrontano in un dialogo serrato sul ruolo dell’attore, svelando i lati più nascosti del mestiere di artista. Come nei migliori ‘gialli d’autore’, l’assassino in realtà è il maggiordomo, che si occupa di sedare le velleità più irrazionali e rivoluzionarie dei due artisti. L’espediente serve, tutto sommato, a mantenere questo lavoro sul giusto binario dell’ironia, evitando ogni possibile corto circuito tra realtà e finzione. Corretta, dunque, la conclusione della Giovannini, che alla fine comprende come la difficoltà del ‘vivere per l’arte’ sia il cammino di un funambolo sopra un filo ‘sottile’ sospeso sulla follia. Discreto.
Di: Anita Giovannini
Con: Federico Bettini, Anita Giovannini e Gianluca Bonora.
(Vittorio Lussana)

Senza pelle
Si tratta di un atto unico di Diego Mongardini che incrocia molti temi di attualità: la violenza sulle donne, l’omosessualità, la fecondazione eterologa, le coppie di fatto. La rappresentazione è forte, espressiva, sopra le righe, poiché è soprattutto un copione di solidarietà femminile, in cui quattro amiche individuano uno stupratore - definito “il senza pelle” in quanto privo di emozioni, passioni e sentimenti - ponendo in atto una loro strategia estrema per eliminarlo fisicamente. Le forzature recitative colpiscono il pubblico: i toni sono assoluti, gli atteggiamenti radicali, dando quasi l’impressione di una teorizzazione della reattività. Ma poi si scopre che ciò è solamente un effetto cercato e voluto dall’autore e regista, il quale, attraverso determinati canoni interpretativi, intende provocare volutamente il pubblico al fine di innescare una effettiva reazione di sdegno e liberare la collettività da quell’assuefazione amorale che ci conduce, troppo spesso, a giudicare il prossimo attraverso apparenze superficiali e insignificanti. Quelle apparenze che ci portano a scoprire, con ingenuo stupore, come determinati ‘mostri’ non siano affatto dei disadattati che vivono ai margini della società, bensì persone a prima vista normalissime, con una vita privata irreprensibile, caratterizzati da un razionalismo comportamentale tanto perfetto quanto ingannevole: quello dei ‘senza pelle’, appunto. O, se vogliamo, dei ‘lupi’ travestiti da ‘agnelli’. Tematiche decisamente attuali, insomma, anche se in più di qualche ‘passo’ forte rimane l’impressione di qualche ‘forzatura’ eccessiva, che potrebbe essere ‘smussata’ senza far perdere rigore al testo. Acerbo.
Scritto e diretto da Diego Mongardini
Con: Roberto Fossi Torri, Nicole Petrelli, Beatrice De Sanctis, Marina Benetti, Francesca Pampanini, Diego Mongardini
(Vittorio Lussana)

Non per vantarmi, ma avevo capito tutto
Sotto la regia di Daria Veronese, Massimo Mirani resuscita Pier Paolo Pasolini. E ce lo mostra non più come uno scrittore, romanziere e saggista amante dello scandalo e delle provocazioni, ma come un vero e proprio progenitore della cultura progressista italiana. Un Pasolini più saggio e coi capelli bianchi “perché si invecchia anche nell’aldilà”, specifica l’attore. Il monologo ripercorre la vita del grande poeta e intellettuale friulano: il dolore per la morte del fratello, l’amore per sua madre, la profondissima fede cattolica che si trasforma in un marxismo disperato, in una ricerca ossessiva del vero e del giusto immersa in quell’afflato mistico che ne ha caratterizzato l’intera produzione letteraria. Poi, seguono le citazioni dagli ‘scritti corsari’, le polemiche con il movimento studentesco del ’68, la devastante deturpazione urbana di Roma e la degradazione antropologica verso cui gli italiani vengono condotti sulla base di un consumismo ‘sviluppista’, basato unicamente sull’esaltazione dei beni voluttuari a scapito di quelli primari e culturali. Si tratta, dunque, di uno spettacolo importante, che ricostruisce il percorso storico dell’Italia stessa durante la sua discesa nell’inferno di oggi. Quell’inferno che Pasolini aveva profetizzato per primo, in totale e assoluto isolamento contro tutto e tutti: la Chiesa, il Pci, la nuova generazione di ‘capelloni’ che stava avanzando. Il punto di vista di un coltissimo romanziere, uno dei pochi che oggi contano veramente, finalizzato a ricordare il suo disperato tentativo di avvertici tutti di come si stesse scivolando verso una società priva di valori, sempre più immersa in un ‘vuotismo’ totale e devastante. Un ottimo spettacolo, meritevole di essere menzionato e valorizzato.
Capsa Service
Di: Massimo Mirani, Daria Veronese
Regia: Daria Veronese
Con: Massimo Mirani
(Vittorio Lussana)

Il fulmine nella terra: Irpinia 1980
23 novembre 1980. Si giocava a Torino il derby d’Italia, Juventus Inter finita due ad uno per i bianconeri; nelle discoteche si ballava la disco dance, Heather Parisi aveva appena fatto il suo ingresso sulla scena televisiva e il più importante evento dell’agenda politica nazionale era la visita in Italia del primo ministro inglese Margaret Thatcher. Tutto questo fino alle 19:34. Il terremoto. In un minuto e mezzo una scossa di 6.9 gradi della scala Richter rase al suolo i paesi del napoletano e dell’Irpinia; la vita e i ricordi di migliaia di persone, la storia di questa regione, sparirono nel nulla in soli 90 secondi. Una voragine enorme inghiottì una parte d’Italia, che pochi conoscevano e che nessuno vedrà più. Tutto questo viene raccontato sul palco: un monologo, un uomo e una sedia. Essenziale, scarno e diretto. Orazio Cerino rievoca una delle pagine più tristi e più controverse della nostra storia. Una sottile ironia pervade l’intero spettacolo, il sarcasmo di un racconto che sembra quasi fantasioso e incredibile. Storie di vita quotidiana dei sopravvissuti e dei morti si alternano alla vita che il resto d’Italia vede scorrere davanti a sé, in quei terribili 90 secondi. Per tutti i giorni a seguire. La contrapposizione è sempre presente e pungente, senza però mai svilire la tragedia che si è consumata. Un modo per denunciare le carenze dello Stato nell’organizzazione dei soccorsi. Si tratta di un periodo che pochi ricordano e che forse sarebbe giusto riportare all’attenzione, come cerca di fare quest’opera coraggiosa e mai banale. Non è facile organizzare un monologo di 50 minuti senza annoiare lo spettatore. In questo caso, non solo la noia è del tutto assente, ma a fine spettacolo non si può evitare il forte senso di tristezza e rabbia per un’Italia che nessuno, neanche i figli dei superstiti, conoscerà più. Magnetico e commovente.
Scritto e diretto da: Mirko Di Martino
Con: Orazio Cerino
(Giorgio Morino)

Ed
Due bambini. Figli del Conte di Gloucester. Due fratelli diversi sotto ogni aspetto: uno pigro, l’altro lavoratore; uno sognatore, l’altro pragmatico; uno figlio legittimo, l’altro no.Il conflitto tra i protagonisti di questa rivisitazione moderna dei personaggi classici di Shakespeare ci trasporta in una costante atmosfera di conflitto, di incomprensione profonda di due persone che dovrebbero essere dello stesso sangue. Un rapporto tormentato con la figura paterna, il “padre”, mai presente sulla scena, ma sempre incombente; non solo nell’arco della rappresentazione, ma anche nei cuori e nella mente dei figli, che tutto fanno e tutto provano per conquistarsi l’approvazione del genitore, anche solo un piccolo gesto di affetto o una parola gentile. Due protagonisti, EDgar ed EDmund, quest’ultimo illegittimo figlio, “bastardo”, mai al proprio posto e con una costante invidia nei confronti del fratello, il figlio legittimo, che riesce in ogni modo a soddisfare il padre-conte. Una gelosia che porterà EDmund a preparare la propria vendetta, la sua occasione per mettere in imbarazzo EDgar.Il gioco alla fine è questo, lo “scambiarsi di posto”, far diventare EDgar come EDmund; con la tragedia sempre pronta a manifestarsi e a colpire i due fratelli. Una famiglia.La terra, sempre presente sulla scena, diventa testimone dell’intera vicenda: dell’infanzia e dell’età adulta, dei giochi e dei litigi, del lavoro e del pensiero. Il luogo dove si consuma la tragedia dei due ED. Molto particolare e d’effetto.
Regia: Francesco Prudente
Con: Bruno Ricci e Angelo Rizzo
(Giorgio Morino)

Se nasce femmina
La lente di ingrandimento dell'autrice evidenzia pensieri di personaggi femminili incompiuti. Dietro ogni figura di donna che potremmo pensare come pre-determinata, pre-costituita, si cela, invece, un aspetto che solitamente ignoriamo. Aldilà dell'involucro, del corpo, esiste un fluire di pensieri autonomi, slegati dal sentire comune. Una donna, che si tratti di una prostituta o di una casalinga, fuori dalle apparenze, è sempre un animo intriso di passione, dolcezza, speranza. Il ‘femminile’ è movimento continuo non standardizzabile. Lo spettacolo, tratto dai romanzi di Sara Vannelli (anche autrice dei testi dello spettacolo), vuole rappresentare proprio questo: vesti e sottovesti di figure femminili. “Se nasce femmina” è una raccolta di scene del quotidiano, di monologhi o dialoghi di natura prevalentemente riflessiva. La parte più dinamica è invece lasciata alle sequenze di danza dei due ballerini che intervallano uno sketch dall’altro. Consigliato a chi ancora non ha compreso quanto sfaccettate siano queste donne di oggi, che la sanno raccontare meglio di quanto la sappiano vivere.
Scritto da: Sara Vannelli
Regia: Andreas Plithakis
Con: Greta Bellusci, Valeria De Luca, Sara Platania, Giancarlo Porcari
(Gaetano Massimo Macrì)

Il grande cocomero
Charlie, Linus, Lucy, i personaggi di Peanuts, la famosa striscia creata da Charles Monroe Schulz (che in cinquant’anni è stata pubblicata in oltre 2600 giornali, con un bacino di 355 milioni di lettori in 75 Paesi nel mondo ed è stata tradotta in 21 lingue diverse) diventano personaggi reali per regalarci una deliziosa metafora della vita e delle aspettative infantili ‘tradite’. ‘Il grande cocomero’, idealizzazzione del futuro che verrà che caratterizzò gli anni Sessanta del sogno americano, è una commedia che indaga l’indissolubile legame che ognuno di noi ha con la propria infanzia. Al centro della rappresentazione, i cinque amici un tempo inseparabili, si rincontrano al funerale di Shermy, divenuto celebrità del mondo del rock e morto suicida. Dopo i primi momenti di imbarazzo e smarrimento, l’occasione diviene pretesto per confrontarsi con il passato, con i propri errori e tracciare un bilancio del presente. La narrazione, abilmente intrecciata e alternata a momenti di flash-back, segue e chiarisce le dinamiche esistenti tra gli adulti di oggi e i bambini di ieri. Un ‘file rouge’ non privo di malinconia per un passato in cui era sufficiente il solo stare insieme per essere felici. Quanto conosciamo davvero coloro che chiamiamo ‘amici’? Quanto realmente sappiamo dei passati eventi che hanno condizionato la loro vita? E quanto di noi resta quale traccia indelebile e ‘condizionante’ nelle loro vite? Uno spettacolo interessante, che offre allo spettatore diversi spunti di riflessione sulle possibilità di intreccio dei rapporti umani. Un plauso agli interpreti bravi a caratterizzare i personaggi e abili a interpretare un testo convincente e senza sbavature. Ingegnoso e innovativo.
Pat – Passi teatrali
Di: Pier Vittorio Mannucci
Regia: Pier Vittorio Mannucci
Con: Matteo Bertuetti, Matteo Castagna, Gledis Cinque, Simone Fossati, Saverio Trovato, Gloria D'Osvaldo
(Carla De Leo)

I bambini del ghetto
Una storia di spensieratezza e di innocenza spezzate. Infanzie mutilate per sempre dallo sterminio nazista. ‘I bambini del ghetto’ è il racconto della deportazione dei bambini ebrei nei lager, dal punto di vista dei bambini. Un punto di vista candido, inconsapevole, che troppo presto viene forzato alla confidenza con la parola ‘morte’. Siamo a Roma. Corre l’anno 1943. La seconda guerra mondiale miete milioni di vittime. Ma i bambini del ghetto, malgrado le restrizioni e i divieti imposti dal regime, non comprendono la realtà. Non si rendono conto dell’infame destino che sta per travolgerli: continuano a giocare nelle piazze, a schiamazzare e a prendersi in giro l’un l’altro. Solo di tanto in tanto si interrogano sulle difficoltà e sul terrore che, nonostante il tentativo di celarlo, ‘leggono’ sui volti dei loro genitori. Finché accade l’inevitabile: arrivano i mostri (i tedeschi) e fanno razzia di giovani vite, la maggior parte delle quali non farà più ritorno nelle proprie case. Sul palco, i fantasmi adulti di quelle vittime rimaste per sempre dei bambini, ricordano l’indifferenza e l’impassibilità con cui furono caricati sui treni e ammassati come bestiame. Come carne da macello. Raccontano degli sguardi incerti e smarriti, degli occhi gonfi di lacrime di terrore. Di come non si udissero più né le risate, né gli scherni nei confronti dell’amico. Ma di come, adesso, la paura, la fame e il freddo, fossero padroni dei loro sentimenti innocenti. Sensazioni da cui non verranno più abbandonati, per tutta la durata della prigionia nei campi di concentramento. E fino all’estremo momento della morte. La rappresentazione, che per tutta la sua durata è accompagnata dalle note dal vivo di un pianoforte – che accentuano la solennità e la drammaticità degli eventi ripercorsi – è concepita in un alternarsi di scene di canto, di proiezioni fotografiche e di un momento di ‘reading’. Quest’ultimo evidenzia ‘l’altro dramma’: quello delle famiglie sopravvissute. La lettura di alcuni documenti storici racconta, infatti, il tentativo disperato di madri e padri che non riescono a rassegnarsi: anni dopo il termine del conflitto, si rivolgono alle Nazioni Unite nella speranza di avere notizie sui loro figli. Bambini che ‘vogliono vedere’ a tutti i costi ancora vivi. Ma che sono e resteranno per sempre soltanto fantasmi. Intenso.
Liberteatro
Scritto e diretto da: Monia Manzo
Con: Monia Manzo, Aurora Deiana, Flora Vona, Demian Aprea, Marco Giustini
Scenografia: Fabio Calascibetta
Musicista: Francesco Paniccia
(Carla De Leo)

Lapins
Quattro impiegati di un’agenzia pubblicitaria sono oppressi da un ‘capo’ irascibile e pazzo, che li spinge a produrre campagne pubblicitarie a ritmi ossessivo-compulsivi. Il testo appare estremizzato nel suo voler essere a tutti i costi politicamente scorretto, ma alcune tematiche sono ben espresse e la ‘diagnosi’, tutto sommato, è centrata. Il mondo viene diviso in due parti: quella di coloro per cui non cambia mai nulla e quella di chi è consapevole che tutto è ‘in itinere’, che la società si trasforma giorno dopo giorno. In peggio, purtroppo. Il fallimento di una campagna assurda, imposta da un cliente esigente, che pretende di vendere un prodotto alimentare ‘iper-differenziato’, porta il dirigente a perdere il posto e a diventare un barbone. Ma pur essendo finito in rovina, il suo punto di vista diviene all’improvviso assai più lucido: i suoi antichi sottoposti lo hanno amato e idolatrato solo per opportunismo, nascondendogli difetti e problematiche private che, invece, avrebbero potuto indirizzare la collaborazione del gruppo su un più corretto sentiero di solidarietà sociologica e umana. Invece, credendosi al riparo dell’ottantunesimo piano di un grattacielo newyorkese, questo ‘team’ di lavoro finisce col rimanere ingabbiato dalle quelle logiche di ‘disumanizzazione’ che generano un vero e proprio scollamento dalla realtà per ogni singolo individuo. L’individualismo sfrenato e il mito della produttività sono solo un modo pauroso di voltare il proprio sguardo da un'altra parte e far finta di non vedere la propria vita privata distrutta o, praticamente, inesistente. L’analisi, ribadiamo, appare corretta. Così come validi sono gli spunti sociologici inseriti dall’autore del testo, Alessandro Timpano. Forse, si tratta di un punto di vista piuttosto ‘italiano’, poiché i sistemi produttivi e il modo di fare azienda degli altri Paesi sono maggiormente dotati di ‘correttivi’ e meno tendenti a determinate ‘distorsioni’. In ogni caso, va dato atto agli attori Giovanni Luca Follo, Elena Scalet, Francesco Modugno, Andrea Rinaldi e Alberto Zambelli, di essere riusciti a rendere al meglio una realtà occupazionale, soprattutto giovanile, devastante e totalmente precaria, in cui gli estremismi si contrappongono di continuo ad altri estremismi, senza alcuna via di mezzo. Molto bravi.
Di: Alessandro Timpano
Regia:  Gipo Gurrado
Con: Elena Scalet, Giovanni Luca Follo, Francesco Modugno, Andrea Rinaldi, Alberto Zambelli
(Vittorio Lussana)

Arlecchino Deucalione
Si tratta di un testo comico-sarcastico in cui la commedia dell’arte si mescola alla mitologia, secondo un antico ‘spunto’ di Alexis Piron. Ecco dunque Arlecchino, maschera orobico-veneziana, che dopo essere sopravvissuto al diluvio universale scherza, si diverte e si ubriaca bevendo il ‘Cirò’, tipico vino della Calabria greco-jonica. Al grande nubifragio sono sopravvissuti Melpomene, Talia, Apollo e Themis, personaggi del mondo classico con i quali Arlecchino è costretto a riorganizzare la sua vita. Il regista Michele Monetta ha dunque avuto l’idea, interessantissima, di ‘agganciare’ a pieno titolo le maschere della commedia dell’arte - appare anche Pulcinella, a un certo punto, che tuttavia Arlecchino spedisce in fondo al mare - con le radici culturali più antiche d’Italia, nel tentativo culturale, assai originale, di mescolarle con figure epiche o appartenenti alla mitologia classica. Un lavoro che colpisce anche per le dinamiche di scena e l’incessante variazione dei ritmi recitativi. Un plauso convinto, dunque, alla compagnia ‘Teatro del Carro’ per essere riusciti a mettere in scena una rappresentazione ricca di elevati meriti artistici, nonché portatrice di importanti valori culturali.
Teatro del Carro
Regia: Michele Monetta
Con: Anna Maria De Luca, Luca Maria Michienzi, Lucia Cristofaro
(Vittorio Lussana)

7 peccati capitali
La compagnia bolognese ‘Le saracinesche’ porta in scena sul palco del Fringe uno spettacolo forte e disperato: un viaggio attraverso il senso della parola ‘peccato’ e del significato che di volta in volta essa può assumere. La drammaturgia, interamente affidata alla danza, al linguaggio del corpo e ai ritmi incalzanti della musica, nel suo ‘analizzare’ i vari e ipotetici peccati, evidenzia il ‘male’ e lo stato di sofferenza che l’uomo prova vivendo nel torbido. È dunque anche un viaggio dentro l’uomo e la sua psiche: le coreografie ‘graffianti’, i movimenti a scatti – che ricordano l’atto del punirsi – e le sequenze scandite da ritmi di crescente e quasi allucinata euforia, rappresentano la proiezione del contorto mondo interiore del peccatore, i suoi sentimenti, la sua sensibilità e, infine, la sua disperazione. Gli interpreti in scena propongono una vasta ‘selezione’ di peccati: dall’ira, all’indifferenza, dalla lussuria, all’ingordigia. Il tutto con l’intento di offrire una chiave di lettura e d’interpretazione positiva: il continuo e costante tentativo di ribellarsi, di ‘uscire fuori’ dall’oscurità, suggerisce infatti l’idea che, nonostante vivano nel peccato, queste anime conservino la speranza della redenzione e bramino la luce e la salvezza. L’ambiguità dell’agire umano è d’altronde lo specchio dell’ambiguità dei nostri più reconditi e inconfessabili pensieri. Un soggetto non facilissimo per lo spettatore, dove danza, musica e linguaggio non verbale, non sono sempre riusciti a colmare l’assenza delle parole e del dialogo nella comprensione del testo e nell’evolversi degli eventi.
Ote Compagnia Le saracinesche/Bologna
Scritto e diretto da: Emiliano Minoccheri
Con: Mario Coccetti, Lisa Foletti, Prisca Fortini, Massimiliano Musto, Piero Tassarelli, Brunella Zaccherini
(Carla De Leo)

Zit! Esistenziali speculazioni sul niente da dire
Ci vuole una certa abilità per riuscire a divertire il pubblico praticamente senza dir nulla di concreto per tutto lo spettacolo. È questa l’abilità surreale di Chiara Casarico e Tiziana Scrocca, che hanno saputo mettere in scena una serie di ‘gag’ sempre in bilico tra piccoli momenti di quotidiana follia e stravaganti speculazioni sul niente da dire, sulla bellezza di un tacer che “non fu mai scritto” e l’importanza dei rapporti umani prima ancora delle parole, spesso ambigue e ‘depistanti’. L’idea di fondo di questa rappresentazione è dunque piuttosto semplice, ma il risultato ‘gustoso’ e godibile per il pubblico, a riprova di come spesso possa bastare una singola idea ben sviluppata per produrre uno spettacolo senza troppe pretese, ma senza velleitarismi e inutili ‘ridondanze’. Gustoso.
Di e con: Chiara Casarico e Tiziana Scrocca
Compagnia: il NaufragarMèDolce
(Vittorio Lussana)

Petimus rogamus
La commedia e la denuncia. Petimus Rogamus riesce a inquadrare nello scenario collettivo i dilemmi della vita quotidiana. Un uomo e una donna, una papessa nana e un maggiordomo, non poi così ‘servitore’, sono i protagonisti di uno spettacolo che riesce a far riflettere su temi talvolta sottovalutati: il ruolo di una società matrigna che muove le fila del destino personale; il ‘ticchettio’ del tempo scandito da un grande orologio biologico che non ha l’intenzione di fermare le lancette. La comicità sottile svela i grandi tabù della vita che si possono intravedere nelle facce assorte e prese degli spettatori (forse amareggiati dalla verità che viene messa in scena). Il ruolo dell’uomo e della donna interpretati da due marionette vestiti in stile anni ’50, che dialogano in dialetto ‘contadino’, pone l'attenzione sul 'ruolo' che gioca la classe sociale di appartenenza su ogni singolo individuo. Una papessa che tende a gestire e manovrare la vita dei due, assoggettandoli con discorsi aulici incomprensibili per le loro orecchie. E dietro, la figura di un povero maggiordomo che si viene a mostrare quando, con un monologo profondo, fa notare come la vita degli esseri umani è gestita da ‘ordini’ superiori, da scadenze e da luoghi comuni. A che serve scindere la vita di un uomo e una donna? Certo è che l’uomo ‘solo’ ha una capacità e libertà di azione maggiori, ma i tempi dell’orologio biologico non lo risparmia: è come un trattore che passa su ogni sentimento umano. La libertà? Una mera chimera. E la donna ‘sola’? Un tabù inimmaginabile e poco comprensibile. Una commedia al limite del grottesco, un notevole pamphlet teatrale, un’occasione di riflessione sulla vita.
Di: Marco Bilanzone
Regia:  Lorenzo Montanini
Con: Carlotta Piraino, Daniel Plat, Mersia Valente e Diego Valentino Venditti
(Ilaria Cordì)

Shakescene
Sogno di una notte di mezza estate; Amleto; La bisbetica domata; Otello; Romeo e Giulietta. Sono cinque delle più grandi opere scritte da William Shakespeare. Immaginatele in un unico spettacolo teatrale. Shakescene racchiude tutto questo. Un piccolo folletto frenetico – di nome Puck - si diverte a creare nuove storie sulla base delle 4 coppie più famose del teatro shakespeariano: Romeo e Giulietta, Otello e Desdemona, Amleto e Ofelia, Caterina e Petruccio. Una rappresentazione piacevole agli occhi con momenti di comicità grazie alla modernizzazione di alcune espressioni che riportano lo spettatore alla realtà e momenti di alta cultura con la recitazioni dei più grandi monologhi della letteratura mondiale. Il tema dell’amore aleggia su tutta le scena: inaspettate relazioni portano il pubblico nella prospettiva di una diversa chiave di lettura di quelle opere. E se Otello avesse conosciuto Giulietta? La fantasia costruita sulla realtà delle opere diventa geniale e genera una palpabile emozione. Uno Shakespeare diverso, non da libri scolastici o da lettura serale. Ma un modo divertente e sorprendente per omaggiare il grande genio di Stratford-upon-Avon. Gradevole e simpatico, porta il pubblico a dimenticare l’esistenza del tempo.
Scritto e diretto da Francesca Florio?
Con: Tiziana Bozzacco, Ramona Gargano, Emanuele Guzzardi, Alessia Paladino, Eugenio Tiberi
(Ilaria Cordì)

Singolo
Si tratta di un monologo di Daniele Coscarella bene inquadrato in questa fase storica della società italiana. Il protagonista è il tipico giovane che ha cercato di rispettare tutte le convenzioni che gli erano state imposte - scuola, fidanzamento, lavoro - ma all’improvviso il meccanismo si rompe: un evento traumatico lo porta e perdere la memoria e a cercare di recuperare la propria identità. Quest’ultima, però, non risulta affatto quella confezionata dal mondo esterno, bensì riprende senso e significato attraverso ricordi e passioni che si scoprono personali, soggettive, individuali. Il tema è interessante e assai complesso, non affrontato con completezza da questo lavoro, che finisce con l’esaltare momenti e impressioni momentanee rispetto a quelle azioni, scelte e decisioni che indirizzano veramente la vita di un uomo. Il risultato è quello di un giovane che sembra aver paura di approdare all’età adulta, che tende a rifuggire le responsabilità giustificandosi dietro una cultura libertaria che diventa un alibi: giusta la diagnosi di una società che tende a rendere ‘singoli’ molti giovani portandoli sino all’isolamento, a causa della propria incapacità di riuscire a valorizzare meriti e interessi reali; sbagliata la terapia di una riappacificazione che ricade nella mera nostalgia dei ricordi senza cercare nuove soluzioni realmente concrete, anche e soprattutto in termini sociali. Nulla impedisce la correzione di quei modelli in grado di rilanciare un nuovo senso etico collettivo, generazionale, o quanto meno ‘gruppuscolare’. La società liberale pone i diritti e le libertà del singolo come proprio principio, ma è finalizzata alla collaborazione organizzativa tra individui all’interno della società stessa. Un certo pacifismo fine a se stesso non appare la risposta convincente. Contraddittorio.
Di e con Daniele Coscarella
Regia: Pascal La Delfa
(Vittorio Lussana)

Jansi, la Janis sbagliata
Janis Joplin muore il 4 ottobre 1970, le sue ceneri furono sparse nell’Oceano pacifico. Di origine texana, adolescente inquieta, ancora molto giovane si avvicinò al blues. Dopo il diploma visse in un edificio comunemente chiamato "The Ghetto", ad Austin, che si trovava al 2812 1/2 di Nueces Street. L'affitto era di 40 dollari al mese. Negli anni sessanta si affermò come 'voce bianca del blues' e condivise apertamente l'ideale Peace & Love che caratterizzò il movimento hippy: partecipò con altri cantanti e gruppi musicali al Festival di Woodstock e al concerto in memoria di Martin Luther King. Questo spettacolo porta in scena la parte più intima di Janis, quella di una ragazza che malgrado il successo si sente 'sbagliata', il contorcimento nelle insicurezze, il decadimento nell'alcolismo. Il fantasma di una Janis che, rotolandosi nelle sue stesse ceneri, cerca di ricostruire i come e i perché di una fine arrivata a soli 27 anni. Valentina Conti dà vita a una Janis 'spogliata' da qualsiasi giustificazione, crudamente 'vera'. Il quadro che ne esce non è dei più edificanti, ma la splendida voce della Joplin riesce a far dimenticare tutto il resto.
Pescatori di Poesia Teatro – Patas Arriba Teatro
Di: Adriano Marenco e Alessandra Caputo
Regia: Simone Fraschetti
Con: Valentina Conti
(Francesca Buffo)

Amami un po’
Dietro la morte della Signora Monroe si nasconde un giallo? L'overdose, ufficialmente classificata come suicidio, potrebbe essere un omicidio? La commedia traccia la controversa relazione fra l'attrice e i due fratelli Kennedy. La biondissima e sexy Marilyn, interpretata da una bravissima Vera Dragone (entrata perfettamente in un personaggio non certo facile), è soprattutto una donna sola, circondata da amici e collaboratori che pensano soprattutto al proprio interesse. L'unico ispettore che intravede la verità, viene messo a tacere dall'FBI. Lo spettacolo mantiene un buon ritmo, ed è sorretto soprattutto dall'interpretazione della protagonista e, in generale delle interpreti femminili. Gradevolmente intrigante.
Compagnia degli Indie
Regia: Michele Di Francesco
Con: Vera Dragone, Claudio Crisafulli, Lavinia Fiorani, Massimo Folgori, Federica Faisha Lenzi, Marco Martino
(Francesca Buffo)

Lavoro e famiglia
Un testo assai intenso e in pieno ‘spirito Fringe’ di Emiliano Loria, ben interpretato dalla compagnia ‘Sinestesia teatro’, pone al centro della scena la stessa famiglia in due contesti differenti: nel primo, quello lavorativo, le perversioni sessuali e le fisime narcisistiche del padre conducono il figlio, dipendente dell’azienda di famiglia, a suicidarsi; nel secondo, quello domestico, la prospettiva viene inquadrata per mezzo di una situazione diametralmente opposta, in cui la reazione di una madre ormai ridotta al cinismo più anaffettivo nei riguardi di un marito rimasto bambino la conduce a mettere in atto un omicidio con la passiva complicità dei figli. La ‘pièce’ dunque evidenzia, con coraggio ed estrema lucidità, quella degradazione antropologica che sta caratterizzando e ha ormai caratterizzato questi ultimi decenni di profondissima crisi della nostra società. Maschilismo, sessismo e incapacità di amare stanno infatti ‘appiattendo’ una realtà ormai priva di ogni valore altruistico e collettivo, sino a giustificare l’ingiustificabile. Un’eccellente riflessione a ‘due facce’ di Emiliano Loria, che merita a pieno titolo di essere valorizzata. Ottimo.
Gruppo Lo Torchio – Sinestesia Teatro
Regia: Emiliano Loria e Sandra Albanese
Testo: Emiliano Loria (vincitore del concorso ‘Oltreparola 2011’ Ctas Cantine Teatrali)
Con: Giancarlo Porcari, Lucia Ciardo, Claudia Campagnola, Dario Villeggia
(Vittorio Lussana)

Il folle e il divino
Divertente e beffarda commedia ‘epica’, in cui gli dei si divertono a ripercorrere le vicende di Edipo in quanto burla che essi stessi hanno architettato, al fine di riuscire a vedere se l’uomo è in grado di ribaltare quanto già vaticinato dal fato e dalle profezie. A prima vista, può apparire un punto di vista ‘fatalista’, quello di Cristiano Vaccaro e del nutrito gruppo di attori che compongono la compagnia ‘Nogu teatro’. In realtà, il messaggio è esattamente quello opposto: l’umanità deve imparare a superare gli ostacoli posti sul suo cammino esistenziale con tenacia e ostinazione. Una visione, quindi, molto laica e antidogmatica, in cui la dimensione divina è popolata di entità ciniche e bizzarre, che si divertono alle spalle dell’uomo al fine di condizionarne le vicende. La critica non è solamente rivolta contro la religiosità precristiana e politeista, che descriveva gli dei caratterizzandoli attraverso i medesimi difetti degli uomini, ma coglie nel segno di una critica al fatalismo delle religioni ‘tout court’, agli esoterismi allucinati dei suoi oracoli e stregoni, all’ineluttabilità di un destino umano che, alla fine, non riesce minimamente a svincolarsi e ad abbandonare un ‘binario’ già predisposto. La volontà umana, alla fine, non conta nulla, non muta una virgola quanto è già stato vaticinato. Dunque, alla fine l’uomo è solamente una vittima, perdendo ogni caratteristica di soggetto artefice e protagonista del proprio destino, per diventare un mero oggetto, se non addirittura uno strumento, di divertimento della divinità. Lo spettacolo è registicamente ben costruito e assai ben recitato da questo gruppo di giovani attori, bravi e molto affiatati. Un lavoro interessante, ironico, teatralmente completo.
Nogu Teatro
Scritto e diretto da Cristiano Vaccaro
Con: Claudia Bighi, Eleonora Capri, Ilaria Conti, Arianna De Rosa, Carlo Maria Fabrizi, Giulia Lapertosa, Ilaria Manocchio, Lorenzo Marziali, Simone Pulcini, Marco Sgrò, Vanina Visca, Cristiano Vaccaro
(Vittorio Lussana)

Calabroni
Si tratta di una gradevole messa in scena delle paure e delle debolezze umane di tre agenti di polizia bloccati, da tempo ormai immemore, in un ripetitivo e meccanicistico posto di blocco. Devono svolgere il proprio lavoro tra ansie, paure, paranoie e continui errori. L’elemento meccanicistico è il dato più originale inserito in questo lavoro, la messa in evidenza di come determinati comportamenti indotti finiscano, il più delle volte, col generare conseguenze opposte a quelle delineate o prospettate dal potere. La critica antiburocratica e antiautoritaria non è neanche così velata. Anzi, viene espressa con chiarezza da questo trio di attori che litigano, si riappacificano, cercano di escogitare una strategia per evadere dalla ripetitività di un compito e di una vita che si reitera pedissequamente in una serie alienante e ininterrotta di déjà vu. Leggero, ma niente affatto banale.
Readarto Officine Artistiche
Regia: Andrea Bizzarri
Con: Alida Sacoor, Roberto Bagagli, Andrea Alesio
(Vittorio Lussana)

Il castello di K
Ottimo questo progetto de ‘La compagnia dei masnadieri’ di riproporre il capolavoro di Kafka ‘Il castello’, a cui probabilmente la K del titolo fa riferimento, in una versione riveduta e ben attualizzata. Costumi d'epoca, interpreti di livello e musiche originali completano il quadro di una rappresentazione che ha saputo mostrare le incongruenze, le assurdità, i segreti iniqui, le dissimulazioni e persino le inefficienze burocratiche di un fantomatico villaggio posto ai piedi di un ancor più fantomatico castello. Un villaggio, lo si evince con chiarezza, che riproduce in scala la società stessa. Il tentativo di agganciare un testo complesso con la nostra attualità è dunque degno di nota e di rilievo, frutto di un riadattamento ben pensato e collettivamente ben eseguito da tutti gli attori in scena. Il teatro è arte. E l’arte è la vitalità stessa di uno spirito indomito, il quale non vuol rifuggire dal proprio compito di sottolineare e colpire quelle falsità antropologiche che continuano a degradare il comportamento dell’uomo, in un continuo tentennamento tra la contraddizione e il grottesco. Intelligente e, ribadiamo, attuale.
Associazione culturale ‘La Compagnia dei Masnadieri’
Di: Massimo Roberto Beato
Regia:  Jacopo Bezzi
Con: Massimo Roberto Beato, Lorenzo Venturini, Nicoletta La Terra, Brunella De Feudis e Ugo Benini
(Vittorio Lussana)

Orlando Bodlero
È la vicenda di un poeta che non vuole morire, che cerca in tutti i modi di contrapporre il proprio ‘istinto d’amore’ alla morte in quanto un dualismo perenne. Lo spettacolo è dedicato a Carmelo Bene, di cui cerca di seguirne la traccia drammaturgica a titolo stilistico e d’ispirazione. La citazione non ci soddisfa, collocandoci nella nutrita schiera dei detrattori dell’attore, personaggio artisticamente sublime, ma umanamente inqualificabile. Quel che conta è che il giovane Daniele Fedeli riesca a comunicare al pubblico il proprio messaggio poetico, che in tempi di gretto pragmatismo non è cosa di poco conto. Il testo di questo lavoro risulta interessante; la regia fantasiosa e ricca di idee. Una rappresentazione in cui poter leggere tra le righe, a prima vista eccessivamente enfatiche sin quasi all’astrattezza, il tentativo dell’artista-uomo di farsi tramite divino per riuscire a sconfiggere la morte. Con infinita purezza d’animo e d’intento. Interessante.
La Compagnia degli Innamorati Erranti
Di: Mario Fedeli
Regia: Mario Fedeli, Manuela Mosè, Daniele Fedeli
Con: Daniele Fedeli, Manuela Mosè
(Vittorio Lussana)

Tutto in 90 minuti
Novanta minuti per recuperare un rapporto fra due persone, una situazione, che poi in realtà non è una, ma un proliferare di combinazioni, equivoci su equivoci. Suonare per credere. Il campanello è quello di viale delle Mimose 33, primo piano, interno 3. E' la casa di Mario, dove troverete anche l'amico Umberto e la sua ragazza Laura che vorrebbe sposarlo, C'è anche Margherita, la escort chiamata da Umberto per risolvere in 90 minuti l'astinenza di Mario. che dura da 12 mesi. Poi viene Debora, sconosciuta assoldata da Mario, che si presenta nelle vesti di Margherita, la quale in realtà altri non sarebbe che Laura. Una verità che solo Mario conosce. Una storia che si ingarbuglia e che Mario proverà a dipanare. Ma ha solo 90 minuti per rappacificare due cuori, prima che inizi la finale del Mondiale. E come se tutto ciò non bastasse all'ultimo minuto salta fuori anche Donatella, la ex che Mario attende da un anno. Una commedia divertente, giocata sull'equivoco che qui, è proprio il caso di dirlo, è di casa.
Ideato, scritto e diretto da Andrea Quintili
Con: Andrea Quintili, Alessandro Bevilacqua, Giuliana Macina, Elisa Pagin, Debora Aiello
(Gaetano Massimo Macrì)

Pa’am a chat
L’arte fa sognare, è una magia che incanta i sensi. A volte, però, le conviene fuggire.
La guerra che sta per scoppiare in Europa, per esempio, la conduce sul molo n. 5 del porto di Genova. Qui tre artisti attendono la nave per Buenos Aires. Shlomo, un chitarrista italiano di origini ebree; Bertha, una cantastorie tedesca; Genesio, un cantante gitano. Tre etnie che si ritrovano a essere sradicate dalla terra di origine per gli eventi bellici. E con loro l’arte che incarnano. In attesa della nave che li condurrà verso la libertà, mettono in scena uno spettacolo fatto di canti e filastrocche popolari. Il rumore dei bombardamenti che incalza, mette agitazione, si respira il pericolo che tutto possa finire. Che l’arte possa entrare nel silenzio dell’oscurità. Ma i tre personaggi continuano la loro rappresentazione, alimentando la flebile speranza che tutto possa ancora essere salvato, che il mondo rimarrà uguale, non verrà scalfito. Uno spettacolo onirico che si svolge secondo quella lentezza tipica dei sogni intrisi di nostalgia.
Di: Emanuele Scataglini e Barbara Rosenberg
Regia:  Emanuele Scataglini
Con: Emanuele Scataglini, Barbara Rosenberg, Renato Spadari
(Gaetano Massimo Macrì)

Mis(s)fit
Lo spaesamento è la sensazione di disagio che unisce le due protagoniste (una giovane cubista e una mancata ballerina dell’Unione Sovietica emigrata in Italia). Un labirinto e un cubo. All’interno di quest’area spazio temporale ognuna ricerca la propria identità. Ciò che le lega, a parte la condizione di disagio da cui tentano di emergere, è la musica. Le note le fanno muovere tra presente e passato. Tra pianti, rimpianti e sorrisi, le due donne si scoprono legate strettamente al ruolo che la vita ha disegnato per ciascuna. L’impossibilità di cambiare, il malessere che ne deriva, le porta a rispecchiarsi l'una nell'altra. Un lavoro psicologico elaborato, onirico.
Scritto e diretto da Stefano Sgambati
Con: Eleonora Gusmano, Vincenzo Meloccaro, Ania Rizzi Bogdan
Scenografia: Adelaide Stazi
Oggetto scenografico: Giacomo Callari
(Gaetano Massimo Macrì)

84 gradini
Ottantaquattro gradini, tanti quanto quelli che il protagonista percorre nella scala della propria esistenza, ma “nella vita, a volte, succedono delle cose… Come quando ti svegli e capisci che stai invecchiando. O come quando...”. E con questi “come” si potrebbe continuare all’infinito. Inutile stare lì a fare calcoli, conti. Perché tanto, prima o poi, accade sempre qualcosa e l’essere impegnato in questa corsa, quale senso dovrebbe avere? Cresciamo, andiamo avanti, gli imprevisti aumentano e ci si mette anche il nostro perbenismo interiore a rendere tutto più complicato. Una ‘vocina’ interna con cui spesso dialoghiamo male. Nonostante tutto, corriamo, lungo le tappe che ci toccano. Ci innamoriamo, ci sposiamo. Poi vogliamo un bambino. E lui, il solito perbenismo interiore, sempre più pressante, ti avvisa che quello lo fai con la testa, col cuore, con tutto. Non è per te, è per lui che dovresti farlo! Ma non te ne frega un tubo. Continui a correre sulla tua strada. Sei papà, ma anche figlio di una madre che, ti dicono all’improvviso, ha un cancro. Elevarsi, pensi. Tuo padre ti ha insegnato che la vita è andare avanti, salire i suoi gradini, il che significa elevarsi, dice lui. Si, ma allora, queste scale hanno qualcosa che non va. La voce narrante di professione ripara scale mobili. Perché, alla fine, tutto si rompe. Solo il mare non si rompe mai. Un monologo sull’esistenza condotta senza 'avvenimenti', assaporando il gusto delle cose, restando sulla loro superficie. Quando è ‘sotto’, dentro che dovremmo guardare. Piuttosto che ‘scalare’ vette, dovremmo tuffarci nel mare delle nostre emozioni più profonde. Frenetico, ironico, a tratti geniale. Giuseppe Mortelliti è bravo, ha una presenza scenica che lascia il segno.
Scritto, diretto e interpretato da Giuseppe Mortellitti
(Gaetano Massimo Macrì)

Ab hoc et ab hac
“L’amore è una strana malattia”: questa è una delle frasi su cui verte lo spettacolo Ab hoc et ab hac –letteralmente ‘questo e quest’altro’i. Una comicità sottile unita a cambi di scena repentini, tra rumori di ambulanze e assurdi personaggi, mettono in evidenza l’esistenza psicosomatica e nevrotica dell’essere umano attanagliato dalle ossessioni della vita. Il filo della narrazione è legato a temi moralmente importanti messi in luce con ironia. Gli eventi si accavallano l’un l’altro, così come i monologhi di Parisi cui fa da sfondo musicale la registrazione in loop della sua stessa voce. Le azioni, i pensieri e le battute si svolgono a ritmo serrato, coinvolgendo e travolgendo il pubblico. L'abilità e la presenza scenica di Daniele Parisi esplode nelle scene principali: il tabù pressante dovuto alla domanda ‘che cos’è l’amore’, un medico andrologo che pur di operare qualcuno si accinge ad altre specializzazioni non proprie, un uomo afflitto alla vista della propria ‘pancia’ gonfia e una vecchia signora che dimenticandosi di prendere le sue pillole muore. Una rappresentazione iconografica della misera e goffa vita dell’essere umano basata su concezioni ‘dogmatiche’ capaci di rendere ansioso tutto ciò che ci circonda. Una corsa verso il tempo che non torna indietro e la rassegnazione per tutto ciò che si lascia andare. Parisi con la sua ‘calata’ romana e una costante interazione con il pubblico riesce a far dimenticare che ciò che mette in scena è la quotidianità. Uno spettacolo goliardico, che aiuta a riflettere divertendo.
Scritto, diretto e interpretato da Daniele Parisi (spettacolo fuori concorso)
(Ilaria Cordì)

A proposito di una groupie per bene
Immaginate la cucina di una donna single. Immaginate i poster sui muri, le canzoni di sottofondo, l’odore della cena che riempie i locali della casa. Immaginate una donna single innamorata dell’amore, della vita e delle sue esperienze. Immaginate la donna come tabù di menti, come questionario e come un grande punto interrogativo. Lo spettacolo messo in scena da Camilla Ciminelli riesce a trasportare il pubblico in una profumata aria casalinga con parole intonate dolcemente e offerte di ‘stuzzichini’ fatti al momento. Ciò che vuole trasmettere la ‘groupie per bene’ al suo interlocutore è una filosofia di vita. Lo fa con monologhi intensi intervallati da letture di libri, silenzi e canzoni. La rappresentazioni è divisa in capitoli dettate dal cambio di sfondo, su cui compaiono immagini e frasi lette e commentate sul momento. «Rallentare a volte e rendere omaggio al mio ansimare, concedere tempo al sole e alla luna». Rallentare, capire, riflettere. In una vita frenetica, talvolta, cercare la gioia nelle semplici cose riesce ad alleggerire il peso di un’esistenza caotica e convulsa.
Scritto, diretto e interpretato da Camilla Ciminelli
(Ilaria Cordì)


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