È in uscita in queste settimane, edito da
Datanews, il volume:
“L’usura nel ‘verbo’ religioso. L’islam e la prassi bancaria moderna”, il primo libro di
Chiara Scattone, dottore di ricerca di Diritto musulmano e dei Paesi islamici presso l’Università di Roma ‘Tor Vergata’. Lo studio si propone di ricostruire il principio del divieto d’usura nelle religioni monoteistiche attraverso un’analisi comparatistica dei testi sacri dell’ebraismo, del cristianesimo e dell’islam, nonché delle fonti patristiche e dottrinali. La prima cosa che viene in mente, scorrendo l’indice di questo short book, è l’esaustività con la quale l’autrice ha cercato di affrontare un argomento tanto complesso e dibattuto come quello del prestito a interesse e del divieto divino dell’usura. Così, dall’analisi delle fonti vetero e neo-testamentarie e della patristica cristiana, si attraversa il mondo della Riforma protestante di Lutero e di Calvino e dello spirito capitalistico originario. Completa il quadro, la descrizione della visione dantesca del contrappasso infernale degli usurai. L’ultima parte del libro è interamente dedicata al mondo arabo-islamico e all’interpretazione che il Corano, i teologi e i giuristi arabi hanno dato del divieto divino d’usura, fino ad arrivare all’epoca contemporanea e alla costituzione di un sistema economico e finanziario alternativo, che secondo alcuni rappresenta, oggi, una sorta di 'terza via' economica.
Chiara Scattone, da cosa è scaturita l’idea di affrontare un argomento così complesso come quello del divieto d’usura?“L’idea è maturata durante il mio dottorato di ricerca. Fin dagli anni dell’università mi sono interessata agli aspetti economico-sociali e religiosi del mondo arabo-islamico. E già nel corso della mia tesi di laurea avevo affrontato lo studio e la comparazione del sistema bancario tradizionale, quello di matrice occidentale e quello, invece, islamico. Il libro, in qualche modo, rappresenta il frutto dei miei ragionamenti e delle mie ricerche, compiute durante gli anni del dottorato”.
Da quanto lei ha descritto nel libro, sembrerebbe che tutte e tre le religioni monoteistiche si fondino su principi molto simili, se non addirittura identici: che cos’è che ha portato alla diversificazione che oggi esiste tra ebraismo, cristianesimo e islam?“Che esistano delle similitudini è del tutto indubbio. D’altronde, la matrice è la medesima per tutte e tre le religioni, così come il principio di fondo, che le rende differenti dalle credenze storicamente antecedenti: la fede in un unico Dio. Inoltre, gli aspetti sociali ed economici che hanno accompagnato le prime comunità monoteistiche hanno generato un innato bisogno di creare vincoli e legami tra i membri del medesimo gruppo, basati sull’assistenza reciproca e la solidarietà. Se si leggono alcuni brani dell’Antico Testamento e del Corano si riscontrerà come l’obiettivo ultimo fosse quello di consolidare una nascente comunità religiosa su alcuni elementi fondamentali: il riconoscimento di tutti i membri all’interno della credenza dell’unico Dio e la reciproca solidarietà, indispensabile in una società con un’economia di sussistenza come quella descritta nel Deuteronomio o nel Corano”.
La definizione di economia islamica non sempre è accettata dagli economisti e dagli esperti del settore: qualcuno afferma che esista una sola economia, cui non è possibile dare una specificazione di matrice religiosa. Ma, allora, perché non esiste anche l’economia cattolica o l’economia protestante? Nel suo libro, inoltre, viene affrontata anche la tematica dell’evoluzione del sistema economico in altre realtà religiose, partendo dall’analisi del fenomeno teologico come spinta alla nascita di un progresso economico: è corretto, quindi, parlare di economia islamica?“È un discorso complesso. Nel libro cerco di fornire un quadro generale del fenomeno del divieto dell’usura e della sua evoluzione in epoca moderna con la nascita del nuovo pensiero economico di matrice capitalistica. Dal mio punto di vista, è fuor di discussione il fatto che sia possibile dare un’aggettivazione come quella di ‘islamico’, così come quella di ‘protestante’, a un sistema economico che matura e prende vita da tutta una serie di elementi ideologici, etici, morali e sociali legati a una comunità e a una credenza religiosa. L’islam, in quanto religione, si presenta infatti come un complesso di norme, regole cultuali e culturali, impostazioni dottrinali, che hanno dato vita a una società del tutto peculiare, creando legami e rapporti anche di natura economica che non sussistono in altre realtà religiose. L’economia islamica si fonda sui dettami espressi dal Corano, dalla Sunna (le tradizioni legate al profeta Muhammad) e dalle evoluzioni dottrinali secolari dei teologi e dei giuristi. La sua connotazione religiosa ne identifica i principi e i meccanismi, che di certo non ritroviamo identici in altre forme di economie. Giusto un esempio: Amintore Fanfani, in un suo scritto giovanile, cercò di criticare la teoria weberiana della nascita del capitalismo nelle società riformate, affermando che la teoria cattolica è essa stessa portatrice di valori analoghi a quella protestante, capace dunque anch’essa di sviluppare un sistema economico di stampo moderno e capitalistico (ma cattolico)”.
Come si inserisce in questo discorso sull’evoluzione economica in ambito religioso la figura di Dante Alighieri?“Dante è stato un piccolo exercice de style letterario, che però mi è stato utilissimo, anche perché sono riuscita a fare una piccola ‘scoperta’. Le correlazioni tra Dante e l’islam sono note da moltissimi anni, confutate da intellettuali validissimi – ricordiamo per esempio lo studio di Asin de Palacios: ‘Dante e l’islam’ – che hanno dimostrato come il nostro poeta avesse una discreta conoscenza del Corano e della storia dell’islam. Pertanto, mi sono chiesta: perché non affrontare il discorso dantesco dedicato agli usurai nell’Inferno? Nella lettura dei passi infernali, mi sono ricordata di un versetto del Corano (IX, 34-35) nel quale veniva descritta la pena prevista per gli usurai. Ed ecco la sorpresa: sia nel Corano, sia in Dante, la pena riservata agli usurai (nel Corano non si parla di peccato) è la medesima”.
Un capitolo del suo libro cerca di confutare l’ipotesi che la chiave del progresso economico si trovi nella parola di Dio: è possibile legare l’evoluzione dell’economia (e quindi anche quella sociale) a princìpi di natura religiosa?“La risposta ‘netta’ è sì, nel senso che la nostra storia economica è legata indissolubilmente anche alla storia sociale, poiché è proprio nella società che si rintracciano elementi religiosi. La Costituzione europea incontra difficoltà proprio sugli elementi religiosi. E secondo Max Weber, il capitalismo ha trovato terreno fertile nelle società protestanti proprio per una motivazione religiosa che si era fatta sociale: la Berufe (o chiamata) divina e la sua interpretazione extramondana. Per cui, il capitalismo stesso si fonda su un elemento religioso. Ritengo che il sistema economico di matrice islamica in tempi moderni abbia dimostrato di avere un quid che lo rende più solido innanzi alle crisi come quella che stiamo vivendo in questi ultimi anni. È proprio la sua aderenza ai principi e alle regole etiche, morali e religiose che lo rende solido e concorrenziale rispetto agli altri sistemi tradizionali. Il pensiero economico islamico si presenta come una ‘terza via’ tra il pensiero capitalistico e quello socialista, dimostrando come regole religiose ferree e inderogabili (in quanto parola di Dio) possano dar vita a una forma di economia liberale peculiare della società islamica. Un’economia realista e morale allo stesso tempo, che individua nella solidarietà dell’individuo quella spinta che lo guida nel compiere scelte economiche che non siano unicamente frutto del suo egoismo, come quella ‘mano invisibile’ smithiana o della ‘Gratia di Dio’ di cui parla san Tommaso”.