Antonio Suraci

Stare dalla parte di Israele non può portare alcuno ad accettare la determinazione e l’uso sproporzionato della forza messa in campo nella striscia di Gaza. Non è in discussione la legittimità dello Stato di Israele, né tantomeno la sua esistenza: è la stessa Israele che inizia a mettere in discussione il proprio diritto all’autodifesa. Da più parti si sostiene che l’attacco ad Hamas sarebbe motivato dalla prossima scadenza elettorale, in cui l’opposizione, prima dei bombardamenti su Gaza, risultava dai sondaggi in vantaggio; da altre parti si pone l’accento sulla ‘vacatio’ presidenziale americana non in grado, per volontà di Bush e per impossibilità di Obama, di intervenire con determinata saggezza sul governo di Tel Aviv. L’Europa, a cui Israele sempre si appella, viene considerata poco più di un fastidioso partner che non smette mai di interpretare la politica mediorientale con salomonica visione. Il momento deve esser stato valutato dagli esperti israeliani opportuno per ribadire la prevalenza degli interessi di Israele su qualunque possibile accordo internazionale futuro che preveda il coinvolgimento di alcuni Paesi arabi, la Siria tra questi. Non sarebbe altrimenti giustificato lo spiegamento delle forze e la qualità delle armi impiegate per distruggere Hamas, colpevole di aver 'infastidito' il 'gigante' con il lancio di missili fatti in casa. Pur volendo accettare per buona quest'ultima motivazione non è possibile restare indifferenti di fronte al massacro - il termine è appropriato - di innocenti, tra i quali molti bambini. Ciò è ancor meno accettabile quando la forza di Hamas trae origine proprio dalla politica israeliana, per aver cinicamente provocato l’indebolimento dell’Autorità palestinese, che è sempre stata considerata poco più di uno sfondo teatrale utile ad esaltare la volontà di Israele nel negoziare la pace con chi, in realtà, non è stato mai messo nelle condizioni di governare le terre assegnate. Israele non intende tornare ai confini del 1967, né richiamare i coloni dai territori occupati, né discutere il futuro di Gerusalemme. Non è interesse di Tel Aviv arrivare alla pace se non alle condizioni che ritiene non negoziabili per garantirsi il futuro: quindi, prendere o lasciare. In un mondo arabo diviso, realizzare una Palestina ‘israelo – dipendente’ è la visione che più suggestiona gli uomini politici di quella terra: uno stato fragile, economicamente debole, privo di materie prime, compresa l’acqua già gestita da Israele, è il massimo della concessione che può materializzarsi, al momento, sulla scena politica internazionale, ma per realizzare tutto ciò si chiede ai palestinesi, ridotti a poco più di una colonia, di astenersi da qualsiasi atto terroristico, e non solo, contro il rappresentante dell’Occidente in Medio Oriente. Dopo sessant’anni e centinaia di migliaia di morti ci si domanda cosa legittimi Israele a considerarsi la nazione eletta in quella disgraziata fascia di terra. E ci si domanda, altresì, quanto si dovrà attendere per comprendere le ragioni di nazioni, che pur governate da elementi corrotti (attivi per gran parte dei passati decenni a fianco delle potenze occidentali) hanno il diritto, che si sostanzia nell’appartenenza all’umanità, di autogovernarsi in pace secondo la loro secolare cultura. Dalla caduta del muro di Berlino, ormai vent’anni or sono, il mondo, in preda al fanatismo liberista e al conseguente desiderio di ridisegnare politicamente il Globo a proprio vantaggio, si è lasciato andare ad un’orgia di potere che è la causa di così tante guerre e atti terroristici non riscontrabili nei decenni precedenti. Anni in cui non si è dato peso alle sofferenze dei popoli né arginato l’indebolimento delle democrazie a vantaggio di una economia che lascia sul campo incalcolabili danni e aperte le ferite più profonde. Dal Medio Oriente all’Europa orientale, dall’Asia centrale all’Africa e alle irrisolte questioni Latino-americane la politica internazionale non può continuare ad essere assente, né è più possibile che quelle poche regole da tutti sottoscritte non vengano rispettate. E’ giunto il momento di ricostruire, sulle macerie lasciate dalle amministrazioni occidentali, la casa dell’Onu, dotandola di regole assai più significative e di strumenti di intervento ai quali nessuna nazione dovrà in seguito sottrarsi. La strada è ancora lunga, ma iniziare a far rispettare le risoluzioni tutt’ora in vigore potrebbe essere un buon inizio per una ritrovata credibilità dei governi e della diplomazia internazionale. E’ in discussione la pace e con essa l’umanità: Israele ne prenda atto e tragga le opportune conclusioni per divenire protagonista di una nuova politica di sviluppo e radicamento di quei diritti che costituiscono l'essenza dell’umanità stessa.




(articolo tratto dal sito web di informazione e cultura www.diario21.net)
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